Opus Magnum

di Old Fashioned
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Opus 3
Parte Terza – Rubedo

È l'ultima fase della Grande Opera, il compimento finale delle trasmutazioni chimiche, che culminano con la realizzazione della Pietra Filosofale e la conversione dei metalli vili in oro.



Partirono non appena fu pronta la carrozza. Si lanciarono lungo la strada frustando i cavalli e si inoltrarono nel folto della foresta che circondava il Templiner See. Von Kleist ordinò che il veicolo procedesse per sentieri secondari, in modo da celare il più possibile la sua presenza agli uomini che sicuramente dovevano essere stati inviati a sorvegliare i dintorni.
Conosceva la villa in riva al lago: era stata vuota per molto tempo, dal momento che si credeva infestata dagli spiriti dopo che vi si era svolto un fatto di sangue. A quel pensiero non poté impedirsi di sogghignare: se nelle dimore nobiliari vi fossero stati fantasmi in proporzione diretta ai fatti di sangue che vi avevano avuto luogo nel corso dei secoli, non conosceva palazzo in cui non ci sarebbe stata un’autentica legione di trapassati.
A quanto si diceva nei salotti, comunque, l’eccentrica signora von Pfuel l’aveva scelta proprio per quel motivo. Nelle notti di luna piena era solita organizzare delle cacce al fantasma in compagnia delle nobildonne di Potsdam, le quali la mattina dopo giuravano di essere state sfiorate da gelide mani di spettri o di aver udito misteriosi sussurri nelle sale buie.
Non era raro che qualcuna cadesse in deliquio nel rievocare le emozioni delle terribili serate.
Guardò fuori. Già fra i tronchi secolari appariva e scompariva la superficie calma del lago. Fece fermare la carrozza, quindi scese e si guardò intorno. Lungo la riva, seminascosta dagli alberi, si intravedeva la mole grigia della villa. Si protendeva da essa un molo al quale erano legate alcune imbarcazioni a remi.
Sul molo comparvero due uomini che lo percorsero completamente. Uno di essi estrasse un cannocchiale e cominciò a sondare i dintorni con quello.
Maledizione,” ringhiò von Kleist ritornando nel folto della vegetazione.
Non potremmo avvicinarci di notte, Eccellenza?” propose Franz.
No, non abbiamo tutto quel tempo. Avanzeremo nel folto della vegetazione, tenendoci nascosti.” poi, rivolto al cocchiere. “Tu ci aspetterai qui, Rudolph. Hai il tuo moschetto, non è vero?”
Sì, Eccellenza.”
Molto bene. Nel caso, usalo. Non far avvicinare nessuno.”
Contate su di me, Eccellenza.”

Seguito dal suo valletto, l’ufficiale prese a muoversi cauto. Mentre si manteneva al coperto nel sottobosco, concentrava i suoi pensieri all’avanzare, senza indugiare troppo sul piano che aveva elaborato.
Non c’era nemmeno un piano, in realtà. Aveva pensato di entrare nel palazzo e cercare Johannes. Posto che Johannes fosse lì, ovviamente.
In ogni caso, scelte non ce n’erano molte. Rainer Brandt aveva preparato un tampone per ucciderlo, e l’avrebbe fatto, se lui non fosse riuscito a precederlo, il che significava che anche rimanere fermo e buono per il giorno richiesto non avrebbe portato a nessun risultato positivo. Avrebbero ucciso anche Johannes, o forse l’avevano già fatto.
Alzò la testa: le cuspidi coniche delle torri ornamentali poste ai quattro angoli della villa erano già in vista.
Controllò per qualche decina di secondi se vi si scorgeva qualcuno, ma gli parvero vuote.
Arrivò al limitare del parco e si fermò in una fitta macchia di conifere. Da lì rimase a osservare i dintorni: la villa, un massiccio finto medioevo che ricordava un maniero delle favole, aveva porte e finestre chiuse. Se non avesse saputo per certo che vi abitava la signora von Pfuel con le figlie e che ogni settimana vi si tenevano sontuosi ricevimenti, avrebbe pensato di trovarsi di fronte a un edificio vuoto.
Guardò il tetto: dai camini principali non usciva fumo, ma da una canna fumaria seminascosta fra i rampicanti si levava una strana caligine verdastra.
Si voltò verso Franz, che gli restituì uno sguardo a metà fra lo stupore e il disgusto.
Udirono dei passi. Si appiattirono tra le fronde e videro arrivare due uomini armati, che camminarono lungo tutto il lato dell’edificio, quindi svoltarono l’angolo e scomparvero alla vista.
Von Kleist e Kretschmer li seguirono a distanza e li videro scomparire in una piccola porta di servizio porta alla base di una delle torri.
Si scambiarono un’altra occhiata e annuirono in segno di intesa. Subito dopo, attraversarono di corsa lo spiazzo coperto di ghiaia che separava la villa dalla vegetazione e si appiattirono contro la parete.
Von Kleist abbassò la maniglia, che cedette senza rumore. Socchiuse appena la porta.
Al di là c’era silenzio. Intravide una vaga penombra, percepì odore di cera per mobili e candele. Si arrischiò ad aprire un po’ di più, ma di nuovo non incontrò che silenzio. Scivolò dentro e fece cenno a Franz di seguirlo.



La luce che arrivava dai finestrini della torre consentiva a malapena di vedere i contorni delle cose. C’era una scala a chiocciola che andava verso l’alto, da essa proveniva la fioca eco dei passi di due persone. Sotto la scala c’era uno scaffale che sembrava carico di barattoli e scatole.
Nella parete opposta c’era una porta. Von Kleist provò ad aprirla, e anche quella cedette senza opporre resistenza, e senza emettere il minimo rumore.
Si affacciarono su un corridoio. Si trattava chiaramente di un ambiente di servizio, funzionale e disadorno. Vi regnava un silenzio greve, sospeso, che dava una penosa impressione di attesa.
I due lo percorsero fino a che non sbucarono in un androne con il pavimento di ciottoli. Il soffitto alto e il lieve odore di sterco di cavallo facevano capire che si trattava di un ambiente nel quale entravano le carrozze.
Si scambiarono un’occhiata poi Franz, molto più a suo agio di von Kleist nelle stanze della servitù, gli disse: “Di là, Eccellenza.” Indicò una piccola scala a chiocciola che si intravedeva in una nicchia seminascosta in un angolo del locale. “Con quella si arriva di sicuro in qualche posto interessante.”
Cominciarono a salire. Man mano che procedevano, la già scarsa luce scemò del tutto e dopo poco si trovarono completamente al buio. Von Kleist, che procedeva davanti, appoggiò una mano al muro e continuò a muoversi facendo affidamento su quella.
Arrivarono in quel modo a un pianerottolo. Ormai abituati all’oscurità completa, i loro occhi furono immediatamente colpiti da una sottilissima fessura dalla quale filtrava la luce.
L’ufficiale vi si avvicinò: sembrava uno spioncino. Fece scorrere le mani sulla parete e percepì che era di legno. Palpandola con attenzione trovò anche un meccanismo d’apertura.
Stava per farlo scattare quando dall’altra parte si udirono dei passi. Avvicinò l’occhio alla fessura e rimase a osservare.
Entrarono nella stanza la signora von Pfuel e le sue figlie. La prima aveva un frusciante abito di seta nera, e al collo la stessa collana di rubini che le aveva visto al ricevimento. Acconciati ma non incipriati, i capelli erano una lucente cascata d’ebano.
Una delle ragazze, quella con gli occhi verdi, aveva un abito simile a quello della madre, mentre la ragazza con gli occhi neri era vestita da uomo.
Tutte e tre avevano al collo una catenina con un ciondolo simile a quello che avevano trovato sugli assalitori del Teufelsee, solo che era d’oro.
Io credo che sia morto, madre,” disse la ragazza dagli occhi neri. “Ho detto a Basilius di usare su di lui una dose di morte d’acqua, non può essere sopravvissuto.”
La più anziana si voltò verso di lei in un gesto altero. “Ne sei certa? L’hai visto con i tuoi occhi?”
L’altra aggrottò le sopracciglia mentre un guizzo di rabbia le attraversava lo sguardo. “No, madre.”
Che cosa vi ho insegnato? Non bisogna lasciare nulla al caso. Quell’uomo è ficcanaso e testardo esattamente come il mocciosetto coi capelli rossi che piaceva a tua sorella.”
Chiamata in causa, la ragazza dagli occhi verdi abbassò lo sguardo con fare contrito.
È stata lei a farlo venire qui!” proseguì la madre. Si rivolse direttamente alla colpevole: “Sei stata tu! Tu l’hai portato qui e l’hai lasciato curiosare in giro.”
Mi dispiace, madre,” rispose la ragazza a testa bassa.
Mi dispiace, mi dispiace!” fece eco la più anziana. “Ormai il danno è fatto!” Poi, rivolta all’altra figlia: “E quindi, dove sono le mie lettere? Perché quel tuo amichetto non le ha ancora portate?”
Io penso che arriverà presto, madre.”
Non vorrei che quell’ufficiale si fosse salvato.”
Come potrebbe, madre? La morte d’acqua uccide istantaneamente.”
Bah.” La più anziana fece un gesto di spregio. “Certo è facile usarla su un ragazzetto immobilizzato, o su se stessi. Tutt’altra cosa è usarla su un uomo adulto e robusto, che si aspetta un’aggressione e sa come difendersi.”
Le due rimasero a fissarsi negli occhi per qualche secondo. Il nero delle iridi e il pallore dei volti squadrati dava a quel confronto una connotazione singolarmente drammatica. Alla fine fu la più giovane a distogliere lo sguardo. Abbassò la testa e chiese: “L’altro? L’avete ucciso?”
Non ancora. Può servirmi per i miei esperimenti.”
Non avevate mai pensato di liberarlo, vero?”
La donna si limitò a un’alzata di spalle. “Sa troppe cose. E ora andiamo,” disse poi, “dobbiamo preparare tutto. Sarà meglio che quel Basilius arrivi in fretta.”
Attraversarono la stanza, passando così vicino allo spioncino che von Kleist riuscì a percepire il vago sentore di erbe officinali che emanavano, poi uscirono chiudendosi con cura la porta alle spalle.

Von Kleist aspettò qualche minuto, poi armeggiò nel buio alla ricerca del meccanismo di apertura che aveva trovato prima e lo fece scattare. Una porta si aprì silenziosamente consentendo l’accesso a un salottino dalle pareti coperte di pannellature di legno laccato.
Una volta richiusa, la porta di accesso alla scala diventava completamente invisibile tra gli stucchi e le decorazioni.
Andò alla porta dalla quale erano uscite le tre donne, vi appoggiò contro l’orecchio: silenzio. Abbassò la maniglia, arrischiò uno sguardo al di là e vide una camera in penombra, con un’altra porta sulla parete opposta.
Attraversò varie stanze che immettevano l’una nell’altra e infine giunse a uno studio con le pareti rivestite di librerie. Non c’erano altre porte, ma nel picciolo locale non c’era nessuno. “Ci dev’essere un altro passaggio segreto,” mormorò guardandosi intorno.
Lo colpì un mobile secrétaire in legno pregiato, intarsiato con simboli simili a quelli che aveva visto nell’ingresso della villa di Brandt. Si avvicinò e aprì la ribalta, rivelando un piano di scrittura e un’infinità di cassetti di varie dimensioni. Febbrilmente prese a scorrere con le dita in ogni anfratto, alla ricerca delle cavità segrete che venivano celate in tutti i mobili di quel genere.
Ci deve essere,” disse fra sé e sé.
Sapeva dove normalmente venivano collocati i nascondigli, ma in nessuno di quei posti riuscì a trovare meccanismi o rientranze. Nessun cassetto aveva un doppio fondo, e nella nicchia centrale non c’erano parti mobili.
Dannazione,” imprecò fra i denti, mentre i suoi gesti di facevano sempre più nervosi. Gli sfuggì di mano un cassettino che aveva estratto e cadde sul piano di scrittura spargendovi il suo contenuto, consistente in stecche di ceralacca e sigilli con vari monogrammi.
Mentre si dava da fare per raccogliere gli oggetti e riporli, percepì un lieve movimento sotto le dita. Abbassò lo sguardo e vide che uno dei pannelli intarsiati si era leggermente spostato, rivelando quella che finalmente sembrava essere una cavità nascosta.
La aprì quel tanto da poter dare un’occhiata all’interno e vide che conteneva dei fogli piegati esattamente come quelli che aveva visto nel diario di Konstantin.
Ne estrasse uno.
Altro che Maria la Profetessa!” proferì ad alta voce dopo averlo letto.
Franz lo fissò perplesso. “Eccellenza?”
Maria Teresa d’Austria! Questa specie di strega infernale si scambia lettere con Maria Teresa d’Austria!”
Avrebbe voluto aggiungere altro, ma in quel momento un’anta della libreria si spalancò come una porta e da essa uscirono due uomini con la spada in pugno.
Von Kleist estrasse immediatamente la pistola e fece fuoco, abbattendo uno dei due, poi lasciò cadere l’arma scarica e sfoderò la spada.
Subentrò anche Franz con la propria pistola, ma in quel momento la porta dello studio si aprì e da essa entrarono altri uomini armati.
In alto le mani,” intimò quello che sembrava essere il capo dei nuovi arrivati.



Una volta che li ebbero disarmati, gli uomini legarono loro le mani dietro la schiena e li spinsero verso la porta segreta. Da essa si dipartiva una scala a chiocciola che conduceva verso il basso.
Von Kleist pensò che sarebbe sbucata nell’androne come quella che avevano percorso per salire, ma essa si rivelò molto più lunga del previsto: continuarono a scendere fino a che la testa non cominciò a girargli lievemente e fino a che, a suo giudizio, non si trovarono ben al di sotto del piano terra.
A questo punto la scala terminò in quello che a prima vista parve all’ufficiale un girone infornale: l’ambiente, enorme e dal soffitto a volta, era illuminato da fiaccole e candele. Vi regnava un caldo soffocante. Odori di ogni genere colpivano le nari, alcuni per la loro sgradevolezza, come lo sterco o il grasso rancido, altri semplicemente per la loro violenza. Distillati di erbe officinali rilasciavano effluvi così forti da causare il mal di testa.
Al centro della sala vi era un enorme forno, più grande di quello che aveva visto nella villa di Brandt, e da esso scaturivano fiamme. Sulla sua superficie innumerevoli ampolle e bottiglie stavano ribollendo.
Intorno al forno erano disposti dei tavoli, sui quali erano allineati strumenti di ogni genere, crogioli, alambicchi, mortai, vasi e libri. Da una parte c’era anche una grande vasca con dentro alcuni di quei pesci che potevano trasformarsi in palle irte di aculei.
La signora von Pfuel, con addosso un grembiule lungo fino a terra e un paio di spessi guanti di pelle, li stava prendendo uno ad uno con un retino, e man mano che li catturava, li decapitava e li buttava in un secchio.
Quando sentì arrivare gente interruppe il suo lavoro, si girò e chiese: “Li avete presi?”
Uno degli uomini si fece avanti e si inchinò profondamente. “Sì, Regina. Sono qui.”
La donna si avvicinò. Il bagliore igneo delle fiaccole conferiva al suo volto duro una connotazione demoniaca. Gli occhi brillavano come giaietto. Si pose le mani sui fianchi e alzò le sopracciglia. “Siete un po’ troppo curioso, signor ufficiale,” sentenziò.
Von Kleist non rispose.
Sarò costretta a mettervi in gabbia con il vostro amico, allora,” proseguì l’altra, “e poi, a cose fatte, vedremo di trovare anche per la vostra inutile esistenza uno scopo. Fungere da corpus vile per i miei esperimenti, ad esempio.” Sollevò una mano, gliela pose sotto il mento e gli sollevò il viso. “Siete piuttosto robusto, credo che resisterete molto di più dei ragazzini e dei vagabondi che sono costretta a usare di solito.” Si voltò verso Franz. “E il vostro servo, qui, mi pare ancora più adatto di voi a sopportare certe prove.” Poi, a voce più alta: “Portateli via, perquisiteli e buttateli nella gabbia!”

Vennero sospinti verso una zona del laboratorio particolarmente buia. Lì c’era in effetti una grande gabbia con le sbarre costituite da pali di legno sagomati in modo da avere una sezione quadrangolare. Ogni giuntura era rinforzata in ferro e vi era una porta d’ingresso chiusa da un pesante lucchetto.
Al suo interno si intravedeva nella penombra una figura rannicchiata.
Dopo averli palpati in tutto il corpo alla ricerca di armi o oggetti nascosti, uno degli uomini aprì la porta e senza slegare loro i polsi li spinse dentro, quindi richiuse con un tonfo e fece scattare il lucchetto nuovamente al suo posto.
Buttato dentro come un sacco, von Kleist non riuscì a mantenere l’equilibrio e cadde al suolo. Rotolò sulle pietre masticando un’imprecazione, poi si raddrizzò, mise a fuoco ciò che lo circondava ed esclamò: “Johannes! Stai bene?”
La figura rannicchiata era il suo amico. Per quello che poteva vedere, non sembrava ferito o sofferente.
L’altro emise un sospiro e disse: “Me lo sentivo che avresti finito per combinare qualcosa di molto stupido.”
Venire a salvarti la chiami una cosa stupida?” replicò l’altro piccato.
Se siamo tutti qui, direi che lo è stata.”
La von Pfuel sta progettando di uccidere Sua Maestà,” disse von Kleist ignorando l’osservazione tagliente, “è in combutta con Maria Teresa d’Austria.”
Stai scherzando?”
Ho visto le lettere.”
Von Ruchel non rispose. Finalmente, dopo un tempo che all’amico parve interminabile, a bassa voce disse: “Dobbiamo trovare il modo di uscire di qui.”
Perché, se non fosse stato per quello che ti ho detto saresti rimasto qui dentro a subire tutte le angherie che quella strega avrebbe ritenuto di farti?”
Diciamo che non mi sarei mosso con tanta precipitazione. Hai le mani legate?”
Sì.”
Allora vieni qui che ti libero. E anche tu, Franz.”
Sì, Eccellenza,” rispose il valletto.



Una volta liberi dalle corde, i tre rimasero a guardare quello che la signora von Pfuel stava facendo.
Dopo aver pescato tutti i pesci che c’erano nella vasca e averli uccisi e buttati in un secchio, la donna prese il recipiente e andò a un tavolo.
Sempre con i guanti, a ogni pesce aprì l’addome e ne estrasse qualcosa di scuro. Quando ebbe fatto ciò con ognuno degli animali, pose ciò che aveva raccolto in un contenitore di vetro.
Aggrappati alle sbarre, i tre seguivano perplessi quella procedura. “Che starà facendo?” chiese sottovoce von Kleist.
Von Ruchel si strinse nelle spalle. “Non lo so. Sembra che le interessi un certo organo di quei pesci.”
Li hai mai visti?”
Solo nei libri. Non so come faccia ad averli qui, sono pesci dei tropici.”
Stanno in mare?”
Anche in acqua dolce.”
La donna prese il contenitore e se ne andò.
I tre rimasero per un po’ in silenziosa attesa, ma la von Pfuel non ricomparve. Arrivarono un paio di uomini ad attizzare la fornace, poi di nuovo calò il silenzio.
Siamo soli?” chiese dopo un po’ von Kleist.
Così pare,” fu la risposta dell’amico.
Bene, allora cerchiamo il modo di uscire di qui, bisogna fermare quella donna. Quand’è il concerto di Sua Maestà, a proposito?”
Che giorno è oggi?”
Il venti.”
Allora è stasera.”
Dannazione, dobbiamo sbrigarci!”
Von Ruchel si sollevò aggrappandosi alle sbarre. “Fammi dare un’occhiata,” disse poi.
Rimase in osservazione per un tempo desolatamente lungo. Al suo fianco, von Kleist non osava dire nulla per timore di disturbare la sua concentrazione. Dopo un po’ comunque chiese: “Hai qualche idea?”
La chiave è appesa a un gancio sulla parete di fronte. Dobbiamo solo trovare il modo di arrivarci.”
L’ufficiale guardò il punto che l’amico aveva indicato, ed effettivamente notò una grossa chiave di ferro, nera nella scarsa luce, che pendeva da un anello.
Calcolò la distanza dell’oggetto e le conclusioni furono piuttosto sconfortanti. “Non possiamo restarcene qui dentro mentre quella là va ad avvelenare il Re!” esclamò comunque, come a ribadire la sua ferma intenzione di evadere.
Ci vorrebbe una canna da pesca,” disse von Ruchel alle sue spalle.
Von Kleist si guardò intorno, riuscendo a individuare dopo un po’ un bastone che veniva usato per spostare i recipienti sulla fornace rovente.
Purtroppo era stato messo a distanza di sicurezza dalla gabbia.
L’ufficiale recuperò i pezzi di corda che erano rimasti per terra e li legò fra loro, poi si sfilò la marsina, si strappò una manica della camicia e ne fece lunghe strisce, che poi annodò fra loro. Con il colletto, i polsini e lo jabot fece una palla che assicurò a una delle estremità dell’improvvisata corda.
Ora andiamo a pesca,” disse poi. Si spostò più vicino possibile al bastone e cominciò a tirare in quella direzione la palla di stoffa cercando di agganciarlo.
Per un tempo imprecisato, gli unici rumori che si udirono furono i tonfi soffici della palla, accompagnati di tanto in tanto da qualche imprecazione.
Il tempo passava inesorabile. La fornace continuava a funzionare a pieno regime, il che significava che presto qualcuno sarebbe arrivato ad alimentarla.
L’ufficiale inspirò cercando di non farsi prendere dall’eccitazione. Fece finta di essere su un campo di battaglia, in procinto di ordinare un assalto.
Tirò la palla, che finalmente portò il laccio ad avvolgersi intorno al bastone. In quel momento si udirono dei passi.
Von Kleist si immobilizzò: non poteva rischiare di fare rumore e attirare l’attenzione. Scambiò un’occhiata furtiva con gli altri, che gli rimandarono la stessa preoccupazione.
Arrivarono due uomini. Parlavano fra loro, sembravano piuttosto rilassati ora che la signora von Pfuel non era più in vista. Andarono a prendere due gerle di legna e cominciarono a gettare i pezzi dentro gli appositi sportelli.
Quando ebbero finito, uno dei due si terse il sudore che gli stava gocciolando dalla fronte e disse: “Ci sarebbero da spostare quei vasi.” Indicò le ampolle che bollivano.
L’altro scosse la testa. “No, lascia. Lo sai come fa quella là quando vai a toccare le sue cose. Capace che ti usa per i suoi esperimenti.”
Sì, ma poi traboccano e si arrabbia lo stesso. Ci metto un attimo.” Fece per muoversi verso il bastone. Von Kleist sentì un brivido freddo lungo la schiena. Se l’uomo si fosse avvicinato un altro po’ avrebbe visto la corda di stoffa e avrebbe distrutto la loro unica possibilità di fuga.
Aspetta, questo è più lungo,” disse l’altro.
Ah, meglio. Quell’affare è caldo come l’inferno.”
L’ufficiale sospirò di sollievo. Aspettò che i due se ne fossero andati, poi prese a tirare pian piano il bastone verso la gabbia.
Ci vollero molta cautela e svariati momenti di angoscia, ma alla fine il bastone arrivò abbastanza vicino alla gabbia da poter essere afferrato. Von Kleist lo prese e con quello ricominciò lo stillicidio di tentativi, questa volta per agganciare la chiave e farla arrivare a portata di mano senza lasciarla cadere.
Protendendo il braccio al massimo, riuscì dopo innumerevoli prove a sollevare l’anello e a farlo scorrere lungo l’asta. La chiave arrivò.
Meno male,” sospirò.
Aprì il lucchetto, ma quando fu sul punto di uscire si rese conto che Johannes non avrebbe potuto camminare. Non aveva il suo tutore, e anche se fossero riusciti a trovargli un bastone o una stampella, non avrebbe potuto fare altro che arrancare penosamente.
Come se gli avesse letto nel pensiero, von Ruchel disse: “Devi andare.”
Ma non posso lasciarti qui.”
Al momento sono quello che corre meno rischi. Va, prima che sia troppo tardi.”
Von Kleist deglutì. Di colpo si sentiva pesante come il piombo. Di nuovo, l’altro sembrò intuire perfettamente i motivi del suo turbamento. “Devi andare,” ripeté, “pensare al passato non servirà a nessuno. Né a te, né tanto meno a me.”
Pur nella scarsa luce, i due si scambiarono una lunga occhiata. Infine, von Kleist disse: “Franz, resta qui con il signor von Ruchel.”
Sì, Eccellenza.”
Uscì senza aggiungere altro.

Tornò rapido alle scale dalle quali era arrivato, le salì fino allo studio della von Pfuel. Il secrétaire era aperto, lo scomparto segreto vuoto. “Le ha portate via!” imprecò.
Ma aveva ancora il diario, e le lettere che aveva preso Konstantin. Inoltre non escludeva di riuscire a recuperare anche quelle ancora in possesso della donna.
Guardò fuori: ormai il sole si stava dirigendo verso l’orizzonte, presto gli ospiti avrebbero cominciato ad affluire al Sanssouci per presenziare al concerto di Sua Maestà, che nessuno voleva mancare, perché si trattava di un evento di importanza molto più politica che musicale.
Sentì un galoppo di cavalli sul viale. Guardò in basso e vide uscire dal palazzo una carrozza di gala con nappe e piume: la von Pfuel si stava dirigendo alla residenza della famiglia reale.
Fece per abbandonare la stanza, ma gli si parò davanti la ragazza dagli occhi neri. Impugnava una spada, e dal modo in cui lo faceva era chiaramente in grado di usarla per uccidere. L’ufficiale arretrò.
Si guardò intorno rapidamente alla ricerca di qualcosa che gli permettesse di affrontare una lama e non poté fare altro che strappare un tendaggio e avvolgerselo attorno al braccio. Si mise in guardia.
La ragazza rimase immobile. Non aveva neppure bisogno di attaccare, le sarebbe bastato tenerlo a bada per un tempo sufficiente e sua madre avrebbe già vinto la partita.
I due si scambiarono un’occhiata. “Mademoiselle, fatemi passare,” le disse serio von Kleist. “Ho fatto troppa guerra per non considerare le donne pericolose quanto gli uomini, quindi non aspettatevi da parte mia delle remore nel colpirvi.”
Voi mi lusingate, signore,” rispose la ragazza con un sorriso beffardo, quindi buttò indietro i capelli con uno scatto del capo e alzò la lama.
L’ufficiale strinse gli occhi. La tenda che si era arrotolato intorno al braccio lo avrebbe protetto dai fendenti, ma non dalle punte, e questo la ragazza lo sapeva molto bene.
Fece una finta spingendo in avanti il braccio protetto, e mentre la sua avversaria scattava per colpire, con la mano libera afferrò la sedia del secrétaire e gliela buttò addosso. Ella intuì la minaccia e riuscì a schivare parzialmente il colpo, ma perse la compostezza e aprì la guardia. Von Kleist ne approfittò per dare un secondo colpo, ma la sedia non resse e nell’impattare sulla ragazza si frantumò.
L’altra riprese immediatamente il controllo di sé, attaccò con una punta al petto. L’ufficiale sottrasse bersaglio spostandosi di lato, poi le afferrò il braccio della spada e impossibilitato a fare altro la colpì con un pugno alla mandibola. La ragazza cadde a terra con un mugolio che sembrava il soffiare di un gatto inferocito, rotolò, si rialzò con uno scatto delle reni e scrollò la testa un paio di volte. “Ripeto, signore: voi mi lusingate,” disse. I suoi occhi erano accesi di sfida.
L’ufficiale raccolse da terra una gamba della sedia e si mise in guardia. La ragazza attaccò con un’altra punta, lui parò e con l’improvvisato randello le assestò un colpo sulla nuca. La sua avversaria gemette, un rivolo di sangue prese a scorrerle sul collo niveo. Von Kleist non le diede il tempo di riprendersi: la incalzò con un colpo alla tempia. La ragazza cadde di nuovo, ringhiò, in un ultimo sforzo si lanciò in avanti e lo ferì al fianco, poi si afflosciò al suolo e vi rimase immobile.
Ansante, con il sangue che dal fianco gli scorreva lungo la gamba, l’ufficiale si terse il sudore dalla fronte, poi raccolse la spada, scavalcò il corpo esanime e si lanciò di corsa lungo la teoria di stanze che aveva attraversato per raggiungere lo studio.
Ritrovò il pannello che conduceva alla scala segreta, la discese, riprese la corsa attraverso l’androne. Un paio di uomini gli si fecero incontro. Von Kleist non perse tempo: attaccò il più vicino con un tondo rovescio squarciandogli la gola, poi incalzò sul secondo con una punta, gli trapassò la spalla, estrasse la lama e lo finì con un fendente dritto al corpo.
Passò oltre.
Si inoltrò nella foresta incurante del fitto sottobosco. Raggiunse la carrozza. “Presto, al Sanssouci” cominciò a gridare prima ancora di raggiungerla. “Rudolph, partiamo immediatamente!”
Il cocchiere montò di corsa a cassetta e prese in mano le redini. I cavalli, che stavano brucando un po’ di biada, alzarono la testa con uno scatto.
Il tempo di salire a bordo e già il veicolo procedeva alla massima velocità verso la reggia.



Al Sanssouci c’era la folla delle grandi occasioni. Carrozze di gala con tiri a due, a quattro e addirittura a sei, piene di piume di struzzo e stucchi dorati, si susseguivano scaricando sulla soglia della reggia tutti i nobili di Potsdam e di Berlino che avevano avuto l’enorme onore di ricevere un invito.
Le signore facevano a gara sfoggiando le toilettes più eccentriche e le parrucche più incipriate, gli uomini, a loro volta in parrucca bianca, davano il braccio alle dame e si guardavano intorno controllando a quanti altri fosse stato accordato il privilegio di un invito. Gli ufficiali erano tutti in alta uniforme.
Von Kleist arrivò al gran galoppo, con i cavalli schiumanti. Scese di corsa, spettinato, sporco di sangue, con una camicia che aveva una manica sola, le scarpe infangate e i pantaloni strappati.
Fu fermato dai valletti.
Fatemi passare!” esclamò, strattonando per liberarsi.
Vi prego di non insistere, signore!” gli disse un valletto più robusto degli altri.
Sono il colonnello von Kleist, fatemi passare!”
Non è possibile, signore. Sua Maestà comincerà a suonare fra poco.”
Vi dico di farmi passare, Sua Maestà è in pericolo!”
Nel frattempo si stava formando un capannello. Signore vestite a festa lo osservavano curiose con la lorgnette. I più credevano si trattasse di un pazzo.
Von Kleist si guardò intorno con l’aria di un cinghiale aizzato. Vide passare von Bissing. Lo chiamò, poi con uno spintone mandò a gambe all’aria il valletto che lo stava trattenendo e raggiunse il collega.
Questi lo fissò stupito. “Von Kleist? Ma che diavolo...”
Non c’è tempo,” lo interruppe il colonnello, “Venite con me!” Si lanciò di corsa lungo il corridoio.

Mi volete dire che accidenti vi prende?” insisté von Bissing cercando di tenere l’andatura dell’amico nonostante l’uniforme di gala.
Muovetevi!”
Arrivarono alla sala della musica, von Kleist spinse il collega dietro una tenda e vi si occultò a sua volta.
Nella sala c’erano solo alcuni valletti impegnati negli ultimi preparativi. Le candele ardevano già nei lampadari, riflettendosi nelle alte specchiere. Gli stucchi dei pannelli rococò mandavano bagliori dorati. C’erano già il leggio di Sua Maestà con gli spartiti e il suo flauto traverso di avorio.
Comparve la donna. L’ufficiale non riusciva a capacitarsi di come fosse riuscita a entrare nonostante la sorveglianza, tuttavia era lì. Vestiva un abito nero e aveva al collo, oltre la catenina d’oro con il pendente a forma di cilindro, un’opulenta collana di ametiste dal colore particolarmente intenso e ricco. I capelli erano come sempre color dell’ebano.
Si avvicinò con l’aria di chi è nel suo pieno diritto. Osservò lo spartito, mosse appena il dito nell’aria come se ne stesse seguendo la melodia e sorrise compiaciuta. Un valletto le disse qualcosa e lei gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla con aria complice, con tutta l’aria della signora che riesce a rubare uno sguardo più intimo alle cose di Sua Maestà e non vede l’ora di vantarsene il giorno dopo con le amiche.
Il valletto le sorrise, fiero di poterle concedere quel piccolo attimo di felicità.
La signora riprese a seguire la melodia dello spartito.
Sottovoce, von Bissing disse: “E allora? Mi avete trascinato fin qui correndo come se avessimo il Diavolo alle calcagna per vedere la von Pfuel che curiosa in giro?”
Tenetevi pronto.”
Tenetevi pronto a che? Siete diventato matto per caso?”
La donna estrasse dalle pieghe dell’abito una scatoletta, e da quella tirò fuori un tampone di stoffa.
Ecco che lo fa, guardate!”
Fa cosa?”
La signora von Pfuel passò il tampone sulla boccola e intorno a tutti i fori del flauto.
Von Bissing si voltò verso il collega con aria interrogativa, questi semplicemente gli disse: “Appena esco per agguantare lei, voi prendete quel flauto, senza toccarlo con le mani nude, e fate in modo che non lo tocchi nessun altro.”
D’accordo.”
In quel momento, la donna si voltò verso il tendaggio. I suoi occhi di giaietto ebbero un guizzo, ella si slacciò un nastro che aveva in cintura e in un attimo si liberò dell’ampia gonna, rivelando pantaloni e stivali da caccia. Scavalcò agilmente l’ammasso di stoffa ai suoi piedi e si lanciò fuori dalla sala con insospettata velocità.
Von Kleist scattò al suo inseguimento.
Aiuto! Aiuto! Mi uccidono!” strillò la signora, e per prima cosa l’ufficiale fu intercettato dal valletto. “Che cosa volete fare a quella donna?” chiese l’ignaro cameriere. Lo afferrò a mezzo corpo per trattenerlo.
Von Kleist proferì un’imprecazione e abbatté l’uomo con un pugno, quindi riprese l’inseguimento.
La donna lo vide arrivare e senza rallentare si buttò dietro le spalle una piccola ampolla di vetro. Il contenitore si ruppe e da esso cominciò a sprigionarsi un fumo denso e acre, che faceva lacrimare gli occhi e bruciare la gola.
L’ufficiale si costrinse a non indugiare, ma quando finalmente smise di tossire e la vista gli si schiarì di nuovo, fece appena in tempo a vedere la signora von Pfuel che usciva da una porta secondaria, montava a cavallo e scompariva al galoppo.
Il buio la inghiottì.



Dov’è?” chiese von Bissing, sopraggiunto alle sue spalle. Teneva in mano il flauto avvolto in un fazzoletto ed era seguito da un nutrito gruppo di guardie.
Von Kleist emise un sospiro. “Andata. Se non fosse stato per quel dannato valletto l’avrei presa.” Poi, dopo una breve pausa: “Mi serve un cavallo.”
Dove volete andare?”
Alla villa sul Templiner See. Forse riusciamo ancora a prenderla.”
A voce alta, von Bissing ordinò: “Un cavallo per Sua Eccellenza il colonnello von Kleist, presto!” Poi, rivolto al collega: “Io vi raggiungo con uno squadrone dei miei.”
D’accordo.”
Pochi minuti dopo, in sella a un robusto baio, von Kleist sfidava le tenebre galoppando verso la dimora della signora von Pfuel.
Nel frattempo ragionava sulla situazione. Una delle figlie era fuori combattimento, dell’altra non sapeva nulla. L’attentato era fallito, ma la Regina era ancora viva e vegeta.
Se glielo avesse permesso, quelle specie di erinni sarebbero fuggite facendo perdere le loro tracce e l’erinni peggiore di tutte, ovvero Maria Teresa d’Austria, sarebbe uscita dalla faccenda più pura della madre di Cristo.
Spronò il cavallo.

Immersa nell’oscurità, la villa aveva un’aria spettrale.
Von Kleist smontò e si guardò intorno. Sotto i raggi della luna, il maniero dava l’impressione di essere disabitato da anni. Solo guardando attentamente si coglieva nella canna fumaria nascosta fra i rampicanti un fioco bagliore rosso, come di braci che covano sotto la cenere.
L’ufficiale non si perse nella contemplazione della notte di primavera. Si diresse risoluto verso l’ingresso di servizio alla base della torre e penetrò silenziosamente nella sontuosa dimora.
Facendo affidamento sui deboli raggi della luna, seguì il percorso della mattina e tornò al piccolo studio. La ragazza dagli occhi neri era ancora lì. Era stata rivoltata sulla schiena, e qualcuno le aveva strappato dal collo il ciondolo fatto a cilindro.
Il secrétaire era stato vuotato di ogni suo contenuto, i cassetti giacevano sparsi sul pavimento.
Il passaggio segreto della libreria era semiaperto.
Von Kleist lo osservò dubbioso: anche quello sembrava un invito.
Si avvicinò, constatando che dal basso saliva una colonna d’aria torrida. Scese cauto alcuni gradini: la temperatura diventava sempre più alta. Gli parve di sentire odore di fumo.
Percorse il resto della scala, e quando arrivò in basso temette di essere finito nel bel mezzo dell’inferno: la fornace stava divorando un enorme carico di legname e le sue strutture surriscaldate stavano portando a temperatura di combustione tutto ciò con cui si trovavano in contatto. L’odore di fumo, come di legno e stoffa bruciati, era così intenso da far lacrimare gli occhi. Tutta la vetreria era sparsa al suolo in frantumi, liquidi di varia natura scorrevano fra le pietre del pavimento, frammisti a polveri ed erbe officinali.
Johannes! Franz!” gridò l’ufficiale guardandosi intorno angosciato.
La gabbia era aperta, dentro non c’era nessuno. Il corpo di uno dei guardiani giaceva riverso.
Johannes! Franz!” ripeté.
Siamo qui, Eccellenza!” gli rispose la voce del valletto. Proveniva dalla zona in cui si trovava la vasca dei pesci.
L’ufficiale si voltò in quella direzione e vide che con l’ausilio di una trave il giovanotto stava per rovesciare il serbatoio d’acqua. Lo raggiunse. “Dov’è il signor von Ruchel?” gli chiese per prima cosa.
Sono qui,” rispose la voce dell’amico. Poi, rivolto al valletto: “Forza con quella cisterna.”
Sì, Eccellenza.”
la vasca finalmente si rovesciò, inondando il pavimento e riversandosi all’interno della fornace, dalla quale cominciarono ad uscire sibilando getti di vapore.
I tre si diressero verso le scale.
Avete visto la von Pfuel?” chiese il colonnello.
È venuta qui e ha fatto distruggere tutto, poi se n’è andata,” rispose Johannes.
La figlia?”
Non l’abbiamo vista.”
Abbandonarono il laboratorio.
Arrivarono al piano nobile ansanti ma incolumi. Guardando dalla finestra, von Kleist si accorse che il cortile era occupato da uno squadrone di cavalleria. Con un sorriso di sollievo disse: “Ecco von Bissing.”

I soldati erano smontati da cavallo e avevano acceso delle fiaccole per illuminare la zona. Due di essi tenevano per le braccia la ragazza superstite, che imprecava e scalciava tentando di liberarsi.
Un altro aveva recuperato il cavallo con cui la signora von Pfuel aveva raggiunto il palazzo. Di lei non c’era traccia.
Von kleist si diresse verso il collega e gli chiese: “Avete scorto la donna?”
L’altro scosse la testa. “Solo il cavallo, come vedete. Ma ci sono pattuglie dappertutto, se si fosse allontanata l’avremmo vista.”
Il primo annuì pensoso, poi disse: “Se si fosse allontanata via terra, sì.”
Cosa volete dire?”
Il molo.”
Accidenti, avete ragione!” Poi, a voce più alta: “Sergente! Prendete otto tiratori e venite con me!”
Corsero tutti verso il lago. Alla tremula luce delle fiaccole videro che l’acqua era appena increspata dal movimento di una piccola imbarcazione. A bordo c’era una figura intenta a remare con vigore.
Puntate!” ordinò il sergente.
I soldati si posizionarono quattro in piedi e quattro in ginocchio, mirando in direzione della barca.
Fuoco!”
Partì la scarica di fucileria. Il fumo degli spari rese dapprima impossibile vedere cosa fosse accaduto, ma quando esso si fu diradato, apparve la barchetta a chiglia in su. L’acqua era tornata immobile.
È fatta,” disse von Bissing.



Accanto alla pianta battezzata Konstantin, Luise aveva sistemato la piccola rosa recuperata dalla soffitta.
In mezzo ai fiori pregiati, la piantina da pochi Pfenning era fuori posto in maniera commovente, ma Luise sembrava non farci caso. Era proprio a lei, anzi, che tributava le cure più affettuose.
È stata l’ultima a vedere Konstantin vivo,” mormorò rincalzando la terra intorno allo stelo. Prese un piccolo innaffiatoio che una cameriera le stava porgendo e bagnò la pianta.
Si alzò in piedi.
Von Kleist accorse per offrirle il braccio. Nel breve volgere di poche settimane, sua sorella sembrava invecchiata di vent’anni. Si era temuto per la sua salute, inizialmente, e una volta scongiurato il rischio della malattia fisica, si era temuto per i suoi nervi.
Se già prima passava ore nel roseto, dopo quello che era successo era diventato difficile vederla in posti diversi. Fuggiva gli eventi mondani, rifiutava di incontrare amici e conoscenti. A parte il marito e i figli, accettava di vedere solo lui.
Si incamminarono lentamente per uno dei vialetti. Per un po’ rimasero semplicemente in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri, poi Luise domandò: “Come vanno le indagini?”
Ancora niente,” rispose von Kleist.
Quindi è riuscita a fuggire?”
L’ufficiale lasciò passare qualche secondo, poi rispose: “Oppure è morta.”
La donna scosse la testa. “Io non credo.” Poi si voltò verso le piante di rose, che la brezza del tardo pomeriggio faceva ondeggiare lievemente. “Lo sentirei se fosse morta. Lui me lo farebbe sapere.”
L’altro non rispose. Sapeva che la sorella ogni tanto parlava con la piantina, convinta che dentro ci fosse l’anima di Konstantin, ma aveva sempre fatto finta di niente. “Gli uomini della setta li hanno presi tutti, però,” disse, anche solo per stornare il discorso dalla china inquietante del contatto con gli spiriti. “Era una branca dei Rosacroce. Hai mai sentito parlare dei Rosacroce?”
La domanda sembrò cadere nel vuoto. Passarono diversi secondi prima che la sorella rispondesse: “Si finisce sempre per parlare di rose, vedi? E di croci.”
Lui le circondò le spalle esili con un braccio. “Lo so. È terribile quello che è successo. Io stesso non me ne faccio una ragione.”
Lei annuì in silenzio. Era diventata una sottile dama di ghiaccio, che sembrava sciogliersi lentamente, una goccia dopo l’altra, una lacrima dopo l’altra, sotto il sole primaverile.
Von Kleist non aggiunse altro. Era un uomo d’azione, sapeva spingere i soldati all’assalto, infiammare gli animi con parole esaltanti, ma aveva ritegno di quel dolore silenzioso come un paesaggio invernale, che nulla al mondo avrebbe mai più potuto lenire.
Andiamo dentro,” si limitò a proporle. La sospinse delicatamente lungo il vialetto.



Seduto nella serra di von Ruchel, von Kleist stava osservando una vasca nella quale nuotavano lenti i pesci misteriosi trovati nel laboratorio di Brandt.
Si avvicinò e picchiettò il vetro con le nocche, e subito una delle creature più vicine si gonfiò trasformandosi in una palla irta di aculei. “Ach!” commentò l’ufficiale, facendosi leggermente indietro.
Ti piacciono i miei nuovi amici?” chiese Johannes alle sue spalle. Si avvicinò con la sua andatura claudicante finché non fu accanto a lui, poi disse: “Li volevano ammazzare, pensa che spreco.” Prese un piattino che conteneva pezzetti di carne e lo rovesciò nella vasca, poi si sedette e rimase a contemplare con espressione soddisfatta i pesci che si nutrivano.
Che fine hanno fatto quelle lettere che avevi conservato?” chiese dopo un po’.
Ce le ha la Polizia di Sua Maestà,” rispose von Kleist sedendosi accanto a lui, “per le indagini. Spero solo che mi ridaranno il diario di Konstantin alla fine, Luise ci sta facendo una malattia.”
Von Ruchel si rigirò il bastone fra le dita con fare pensoso. “Devi capirla,” disse dopo un po’. “Secondo me Konstantin era il suo figlio prediletto.”
Sì, sono convinto anch’io che lo preferisse. In realtà non le sono mai piaciute le uniformi.”
Per un po’ di tempo rimasero in silenzio a contemplare i pesci, poi von Ruchel buttò lì: “Comunque ti ringrazio, Wilhelm.”
Per cosa?”
L’altro ebbe un sorriso velato di mestizia. “Per avermi fatto sentire vivo ancora una volta. Ero un po’ stufo di fare il topo di biblioteca storpio.”
Senza di te non ce l’avrei mai fatta. Non avrei neanche capito di cosa stava parlando il povero Konstantin.” Rimase per un po’ a contemplare i pesci, poi soggiunse: “Pensavo che avesse perso il senno.”
Con un sospiro, von Ruchel disse: “La sua disgrazia non è stata perderlo, ma ritrovarlo. Appena hanno capito che era rinsavito dalla follia ermetica e voleva avvisarti del crimine che stavano preparando, quei maledetti lo hanno ucciso.”
Calò di nuovo il silenzio. Arrivò con passo grave un pavone, li fissò sussiegoso e fece la ruota esibendo il piumaggio variopinto. “Vuoi fare a gara con la mia uniforme?” gli chiese von Kleist. L’uccello storse la testa e lo guardò con un occhio solo, quindi richiuse la coda e se ne andò.
Von Ruchel rimase per un po’ a guardare il pavone che si allontanava, poi disse: “Ci vorrebbe una fenice.”
Ma la fenice non esiste.”
Sei sempre il solito pragmatico. La fenice rappresenta il compimento della Grande Opera, e visto che anche noi abbiamo portato a termine un Opus Magnum, penso che ce la meriteremmo.”
Von Kleist sogghignò e disse: “Visto che qui tutti parlano per simboli, per una volta lo farò anch’io: fa lo stesso se non abbiamo catturato una fenice. Abbiamo spennato l’aquila bicipite[1], e tanto basta.”







[1] L’aquila bicipite è il simbolo dell’Impero austro-ungarico.




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