Opus 3
Parte Terza – Rubedo
È l'ultima
fase della Grande
Opera, il compimento finale delle trasmutazioni chimiche, che
culminano con la realizzazione della Pietra Filosofale e la
conversione dei metalli vili in oro.
Partirono non appena fu pronta
la
carrozza. Si lanciarono lungo la strada frustando i cavalli e si
inoltrarono nel folto della foresta che circondava il Templiner See.
Von Kleist ordinò che il veicolo procedesse per sentieri
secondari,
in modo da celare il più possibile la sua presenza agli
uomini che
sicuramente dovevano essere stati inviati a sorvegliare i dintorni.
Conosceva la villa in riva al
lago: era stata vuota per molto tempo, dal momento che si credeva
infestata dagli spiriti dopo che vi si era svolto un fatto di sangue.
A quel pensiero non poté impedirsi di sogghignare: se nelle
dimore
nobiliari vi fossero stati fantasmi in proporzione diretta ai fatti
di sangue che vi avevano avuto luogo nel corso dei secoli, non
conosceva palazzo in cui non ci sarebbe stata un’autentica
legione
di trapassati.
A quanto si diceva nei
salotti,
comunque, l’eccentrica signora von Pfuel l’aveva
scelta proprio
per quel motivo. Nelle notti di luna piena era solita organizzare
delle cacce al fantasma in compagnia delle nobildonne di Potsdam, le
quali la mattina dopo giuravano di essere state sfiorate da gelide
mani di spettri o di aver udito misteriosi sussurri nelle sale buie.
Non era raro che qualcuna
cadesse
in deliquio nel rievocare le emozioni delle terribili serate.
Guardò fuori.
Già fra i tronchi
secolari appariva e scompariva la superficie calma del lago. Fece
fermare la carrozza, quindi scese e si guardò intorno. Lungo
la
riva, seminascosta dagli alberi, si intravedeva la mole grigia della
villa. Si protendeva da essa un molo al quale erano legate alcune
imbarcazioni a remi.
Sul molo comparvero due uomini
che lo percorsero completamente. Uno di essi estrasse un cannocchiale
e cominciò a sondare i dintorni con quello.
“Maledizione,”
ringhiò von Kleist ritornando nel folto della vegetazione.
“Non
potremmo avvicinarci di notte,
Eccellenza?” propose Franz.
“No,
non abbiamo tutto quel tempo. Avanzeremo nel folto della vegetazione,
tenendoci nascosti.” poi, rivolto al cocchiere. “Tu
ci aspetterai
qui, Rudolph. Hai il tuo moschetto, non è vero?”
“Sì,
Eccellenza.”
“Molto
bene. Nel caso, usalo. Non far avvicinare nessuno.”
“Contate
su di me, Eccellenza.”
Seguito dal suo valletto,
l’ufficiale prese a muoversi cauto. Mentre si manteneva al
coperto
nel sottobosco, concentrava i suoi pensieri all’avanzare,
senza
indugiare troppo sul piano che aveva elaborato.
Non c’era nemmeno un
piano, in
realtà. Aveva pensato di entrare nel palazzo e cercare
Johannes.
Posto che Johannes fosse lì, ovviamente.
In ogni caso, scelte non ce
n’erano molte. Rainer Brandt aveva preparato un tampone per
ucciderlo, e l’avrebbe fatto, se lui non fosse riuscito a
precederlo, il che significava che anche rimanere fermo e buono per
il giorno richiesto non avrebbe portato a nessun risultato positivo.
Avrebbero ucciso anche Johannes, o forse l’avevano
già fatto.
Alzò la testa: le
cuspidi
coniche delle torri ornamentali poste ai quattro angoli della villa
erano già in vista.
Controllò per
qualche decina di
secondi se vi si scorgeva qualcuno, ma gli parvero vuote.
Arrivò al limitare
del parco e
si fermò in una fitta macchia di conifere. Da lì
rimase a osservare
i dintorni: la villa, un massiccio finto medioevo che ricordava un
maniero delle favole, aveva porte e finestre chiuse. Se non avesse
saputo per certo che vi abitava la signora von Pfuel con le figlie e
che ogni settimana vi si tenevano sontuosi ricevimenti, avrebbe
pensato di trovarsi di fronte a un edificio vuoto.
Guardò il tetto:
dai camini
principali non usciva fumo, ma da una canna fumaria seminascosta fra
i rampicanti si levava una strana caligine verdastra.
Si voltò verso
Franz, che gli
restituì uno sguardo a metà fra lo stupore e il
disgusto.
Udirono dei passi. Si
appiattirono tra le fronde e videro arrivare due uomini armati, che
camminarono lungo tutto il lato dell’edificio, quindi
svoltarono
l’angolo e scomparvero alla vista.
Von Kleist e Kretschmer li
seguirono a distanza e li videro scomparire in una piccola porta di
servizio porta alla base di una delle torri.
Si scambiarono
un’altra
occhiata e annuirono in segno di intesa. Subito dopo, attraversarono
di corsa lo spiazzo coperto di ghiaia che separava la villa dalla
vegetazione e si appiattirono contro la parete.
Von Kleist abbassò
la maniglia,
che cedette senza rumore. Socchiuse appena la porta.
Al di là
c’era silenzio.
Intravide una vaga penombra, percepì odore di cera per
mobili e
candele. Si arrischiò ad aprire un po’ di
più, ma di nuovo non
incontrò che silenzio. Scivolò dentro e fece
cenno a Franz di
seguirlo.
†
La luce che arrivava dai
finestrini della torre consentiva a malapena di vedere i contorni
delle cose. C’era una scala a chiocciola che andava verso
l’alto,
da essa proveniva la fioca eco dei passi di due persone. Sotto la
scala c’era uno scaffale che sembrava carico di barattoli e
scatole.
Nella parete opposta
c’era una
porta. Von Kleist provò ad aprirla, e anche quella cedette
senza
opporre resistenza, e senza emettere il minimo rumore.
Si affacciarono su un
corridoio.
Si trattava chiaramente di un ambiente di servizio, funzionale e
disadorno. Vi regnava un silenzio greve, sospeso, che dava una penosa
impressione di attesa.
I due lo percorsero fino a che
non sbucarono in un androne con il pavimento di ciottoli. Il soffitto
alto e il lieve odore di sterco di cavallo facevano capire che si
trattava di un ambiente nel quale entravano le carrozze.
Si scambiarono
un’occhiata poi
Franz, molto più a suo agio di von Kleist nelle stanze della
servitù, gli disse: “Di là,
Eccellenza.” Indicò una piccola
scala a chiocciola che si intravedeva in una nicchia seminascosta in
un angolo del locale. “Con quella si arriva di sicuro in
qualche
posto interessante.”
Cominciarono a salire. Man
mano
che procedevano, la già scarsa luce scemò del
tutto e dopo poco si
trovarono completamente al buio. Von Kleist, che procedeva davanti,
appoggiò una mano al muro e continuò a muoversi
facendo affidamento
su quella.
Arrivarono in quel modo a un
pianerottolo. Ormai abituati all’oscurità
completa, i loro occhi
furono immediatamente colpiti da una sottilissima fessura dalla quale
filtrava la luce.
L’ufficiale vi si
avvicinò:
sembrava uno spioncino. Fece scorrere le mani sulla parete e
percepì
che era di legno. Palpandola con attenzione trovò anche un
meccanismo d’apertura.
Stava per farlo scattare
quando
dall’altra parte si udirono dei passi. Avvicinò
l’occhio alla
fessura e rimase a osservare.
Entrarono nella stanza la
signora
von Pfuel e le sue figlie. La prima aveva un frusciante abito di seta
nera, e al collo la stessa collana di rubini che le aveva visto al
ricevimento. Acconciati ma non incipriati, i capelli erano una
lucente cascata d’ebano.
Una delle ragazze, quella con
gli
occhi verdi, aveva un abito simile a quello della madre, mentre la
ragazza con gli occhi neri era vestita da uomo.
Tutte e tre avevano al collo
una
catenina con un ciondolo simile a quello che avevano trovato sugli
assalitori del Teufelsee, solo che era d’oro.
“Io
credo che sia morto, madre,” disse la ragazza dagli occhi
neri. “Ho
detto a Basilius di usare su di lui una dose di morte
d’acqua,
non può essere sopravvissuto.”
La più anziana si
voltò verso
di lei in un gesto altero. “Ne sei certa? L’hai
visto con i tuoi
occhi?”
L’altra
aggrottò le
sopracciglia mentre un guizzo di rabbia le attraversava lo sguardo.
“No, madre.”
“Che
cosa vi ho insegnato? Non bisogna lasciare nulla al caso.
Quell’uomo
è ficcanaso e testardo esattamente come il mocciosetto coi
capelli
rossi che piaceva a tua sorella.”
Chiamata in causa, la ragazza
dagli occhi verdi abbassò lo sguardo con fare contrito.
“È
stata lei a farlo venire qui!” proseguì la madre.
Si rivolse
direttamente alla colpevole: “Sei stata tu! Tu
l’hai portato qui
e l’hai lasciato curiosare in giro.”
“Mi
dispiace, madre,” rispose la ragazza a testa bassa.
“Mi
dispiace, mi dispiace!” fece eco la più anziana.
“Ormai il danno
è fatto!” Poi, rivolta all’altra figlia:
“E quindi, dove sono
le mie lettere? Perché quel tuo amichetto non le ha ancora
portate?”
“Io
penso che arriverà presto, madre.”
“Non
vorrei che quell’ufficiale si fosse salvato.”
“Come
potrebbe, madre? La morte
d’acqua
uccide istantaneamente.”
“Bah.”
La più anziana fece un gesto di spregio. “Certo
è facile usarla
su un ragazzetto immobilizzato, o su se stessi. Tutt’altra
cosa è
usarla su un uomo adulto e robusto, che si aspetta
un’aggressione e
sa come difendersi.”
Le due rimasero a fissarsi
negli
occhi per qualche secondo. Il nero delle iridi e il pallore dei volti
squadrati dava a quel confronto una connotazione singolarmente
drammatica. Alla fine fu la più giovane a distogliere lo
sguardo.
Abbassò la testa e chiese: “L’altro?
L’avete ucciso?”
“Non
ancora. Può servirmi per i miei esperimenti.”
“Non
avevate mai pensato di liberarlo, vero?”
La donna si limitò
a un’alzata
di spalle. “Sa troppe cose. E ora andiamo,” disse
poi, “dobbiamo
preparare tutto. Sarà meglio che quel Basilius arrivi in
fretta.”
Attraversarono la stanza,
passando così vicino allo spioncino che von Kleist
riuscì a
percepire il vago sentore di erbe officinali che emanavano, poi
uscirono chiudendosi con cura la porta alle spalle.
Von Kleist aspettò
qualche
minuto, poi armeggiò nel buio alla ricerca del meccanismo di
apertura che aveva trovato prima e lo fece scattare. Una porta si
aprì silenziosamente consentendo l’accesso a un
salottino dalle
pareti coperte di pannellature di legno laccato.
Una volta richiusa, la porta
di
accesso alla scala diventava completamente invisibile tra gli stucchi
e le decorazioni.
Andò alla porta
dalla quale
erano uscite le tre donne, vi appoggiò contro
l’orecchio:
silenzio. Abbassò la maniglia, arrischiò uno
sguardo al di là e
vide una camera in penombra, con un’altra porta sulla parete
opposta.
Attraversò varie
stanze che
immettevano l’una nell’altra e infine giunse a uno
studio con le
pareti rivestite di librerie. Non c’erano altre porte, ma nel
picciolo locale non c’era nessuno. “Ci
dev’essere un altro passaggio segreto,”
mormorò guardandosi intorno.
Lo colpì un mobile
secrétaire
in legno pregiato, intarsiato con simboli simili a quelli che aveva
visto nell’ingresso della villa di Brandt. Si
avvicinò e aprì la
ribalta, rivelando un piano di scrittura e
un’infinità di cassetti
di varie dimensioni. Febbrilmente prese a scorrere con le dita in
ogni anfratto, alla ricerca delle cavità segrete che
venivano celate
in tutti i mobili di quel genere.
“Ci
deve essere,” disse fra sé e sé.
Sapeva dove normalmente
venivano
collocati i nascondigli, ma in nessuno di quei posti riuscì
a
trovare meccanismi o rientranze. Nessun cassetto aveva un doppio
fondo, e nella nicchia centrale non c’erano parti mobili.
“Dannazione,”
imprecò fra i denti, mentre i suoi gesti di facevano sempre
più
nervosi. Gli sfuggì di mano un cassettino che aveva estratto
e cadde
sul piano di scrittura spargendovi il suo contenuto, consistente in
stecche di ceralacca e sigilli con vari monogrammi.
Mentre si dava da fare per
raccogliere gli oggetti e riporli, percepì un lieve
movimento sotto
le dita. Abbassò lo sguardo e vide che uno dei pannelli
intarsiati
si era leggermente spostato, rivelando quella che finalmente sembrava
essere una cavità nascosta.
La aprì quel tanto
da poter dare
un’occhiata all’interno e vide che conteneva dei
fogli piegati
esattamente come quelli che aveva visto nel diario di Konstantin.
Ne estrasse uno.
“Altro
che Maria la Profetessa!” proferì ad alta voce
dopo averlo letto.
Franz lo fissò
perplesso.
“Eccellenza?”
“Maria
Teresa d’Austria! Questa specie di strega infernale si
scambia
lettere con Maria Teresa d’Austria!”
Avrebbe voluto aggiungere
altro,
ma in quel momento un’anta della libreria si
spalancò come una
porta e da essa uscirono due uomini con la spada in pugno.
Von Kleist estrasse
immediatamente la pistola e fece fuoco, abbattendo uno dei due, poi
lasciò cadere l’arma scarica e sfoderò
la spada.
Subentrò anche
Franz con la
propria pistola, ma in quel momento la porta dello studio si
aprì e
da essa entrarono altri uomini armati.
“In
alto le mani,” intimò quello che sembrava essere
il capo dei nuovi
arrivati.
†
Una volta che li ebbero
disarmati, gli uomini legarono loro le mani dietro la schiena e li
spinsero verso la porta segreta. Da essa si dipartiva una scala a
chiocciola che conduceva verso il basso.
Von Kleist pensò
che sarebbe
sbucata nell’androne come quella che avevano percorso per
salire,
ma essa si rivelò molto più lunga del previsto:
continuarono a
scendere fino a che la testa non cominciò a girargli
lievemente e
fino a che, a suo giudizio, non si trovarono ben al di sotto del
piano terra.
A questo punto la scala
terminò
in quello che a prima vista parve all’ufficiale un girone
infornale: l’ambiente, enorme e dal soffitto a volta, era
illuminato da fiaccole e candele. Vi regnava un caldo soffocante.
Odori di ogni genere colpivano le nari, alcuni per la loro
sgradevolezza, come lo sterco o il grasso rancido, altri
semplicemente per la loro violenza. Distillati di erbe officinali
rilasciavano effluvi così forti da causare il mal di testa.
Al centro della sala vi era un
enorme forno, più grande di quello che aveva visto nella
villa di
Brandt, e da esso scaturivano fiamme. Sulla sua superficie
innumerevoli ampolle e bottiglie stavano ribollendo.
Intorno al forno erano
disposti
dei tavoli, sui quali erano allineati strumenti di ogni genere,
crogioli, alambicchi, mortai, vasi e libri. Da una parte
c’era
anche una grande vasca con dentro alcuni di quei pesci che potevano
trasformarsi in palle irte di aculei.
La signora von Pfuel, con
addosso
un grembiule lungo fino a terra e un paio di spessi guanti di pelle,
li stava prendendo uno ad uno con un retino, e man mano che li
catturava, li decapitava e li buttava in un secchio.
Quando sentì
arrivare gente
interruppe il suo lavoro, si girò e chiese: “Li
avete presi?”
Uno degli uomini si fece
avanti e
si inchinò profondamente. “Sì, Regina.
Sono qui.”
La donna si
avvicinò. Il
bagliore igneo delle fiaccole conferiva al suo volto duro una
connotazione demoniaca. Gli occhi brillavano come giaietto. Si pose
le mani sui fianchi e alzò le sopracciglia. “Siete
un po’ troppo
curioso, signor ufficiale,” sentenziò.
Von Kleist non rispose.
“Sarò
costretta a mettervi in gabbia con il vostro amico, allora,”
proseguì l’altra, “e poi, a cose fatte,
vedremo di trovare anche
per la vostra inutile esistenza uno scopo. Fungere da
corpus vile
per i miei esperimenti, ad esempio.” Sollevò una
mano, gliela pose
sotto il mento e gli sollevò il viso. “Siete
piuttosto robusto,
credo che resisterete molto di più dei ragazzini e dei
vagabondi che
sono costretta a usare di solito.” Si voltò verso
Franz. “E il
vostro servo, qui, mi pare ancora più adatto di voi a
sopportare
certe prove.” Poi, a voce più alta:
“Portateli via, perquisiteli
e buttateli nella gabbia!”
Vennero sospinti verso una
zona
del laboratorio particolarmente buia. Lì c’era in
effetti una
grande gabbia con le sbarre costituite da pali di legno sagomati in
modo da avere una sezione quadrangolare. Ogni giuntura era rinforzata
in ferro e vi era una porta d’ingresso chiusa da un pesante
lucchetto.
Al suo interno si intravedeva
nella penombra una figura rannicchiata.
Dopo averli palpati in tutto
il
corpo alla ricerca di armi o oggetti nascosti, uno degli uomini
aprì
la porta e senza slegare loro i polsi li spinse dentro, quindi
richiuse con un tonfo e fece scattare il lucchetto nuovamente al suo
posto.
Buttato dentro come un sacco,
von
Kleist non riuscì a mantenere l’equilibrio e cadde
al suolo.
Rotolò sulle pietre masticando un’imprecazione,
poi si raddrizzò,
mise a fuoco ciò che lo circondava ed esclamò:
“Johannes! Stai
bene?”
La figura rannicchiata era il
suo
amico. Per quello che poteva vedere, non sembrava ferito o
sofferente.
L’altro emise un
sospiro e
disse: “Me lo sentivo che avresti finito per combinare
qualcosa di
molto stupido.”
“Venire
a salvarti la chiami una cosa stupida?” replicò
l’altro piccato.
“Se
siamo tutti qui, direi che lo è stata.”
“La
von Pfuel sta progettando di uccidere Sua Maestà,”
disse von
Kleist ignorando l’osservazione tagliente,
“è in combutta con
Maria Teresa d’Austria.”
“Stai
scherzando?”
“Ho
visto le lettere.”
Von Ruchel non rispose.
Finalmente, dopo un tempo che all’amico parve interminabile,
a
bassa voce disse: “Dobbiamo trovare il modo di uscire di
qui.”
“Perché,
se non fosse stato per quello che ti ho detto saresti rimasto qui
dentro a subire tutte le angherie che quella strega avrebbe ritenuto
di farti?”
“Diciamo
che non mi sarei mosso con tanta precipitazione. Hai le mani
legate?”
“Sì.”
“Allora
vieni qui che ti libero. E anche tu, Franz.”
“Sì,
Eccellenza,” rispose il valletto.
†
Una volta liberi dalle corde,
i
tre rimasero a guardare quello che la signora von Pfuel stava
facendo.
Dopo aver pescato tutti i
pesci
che c’erano nella vasca e averli uccisi e buttati in un
secchio, la
donna prese il recipiente e andò a un tavolo.
Sempre con i guanti, a ogni
pesce
aprì l’addome e ne estrasse qualcosa di scuro.
Quando ebbe fatto
ciò con ognuno degli animali, pose ciò che aveva
raccolto in un
contenitore di vetro.
Aggrappati alle sbarre, i tre
seguivano perplessi quella procedura. “Che starà
facendo?”
chiese sottovoce von Kleist.
Von Ruchel si strinse nelle
spalle. “Non lo so. Sembra che le interessi un certo organo
di quei
pesci.”
“Li
hai mai visti?”
“Solo
nei libri. Non so come faccia ad averli qui, sono pesci dei
tropici.”
“Stanno
in mare?”
“Anche
in acqua dolce.”
La donna prese il contenitore
e
se ne andò.
I tre rimasero per un
po’ in
silenziosa attesa, ma la von Pfuel non ricomparve. Arrivarono un paio
di uomini ad attizzare la fornace, poi di nuovo calò il
silenzio.
“Siamo
soli?” chiese dopo un po’ von Kleist.
“Così
pare,” fu la risposta dell’amico.
“Bene,
allora cerchiamo il modo di uscire di qui, bisogna fermare quella
donna. Quand’è il concerto di Sua
Maestà, a proposito?”
“Che
giorno è oggi?”
“Il
venti.”
“Allora
è stasera.”
“Dannazione,
dobbiamo sbrigarci!”
Von Ruchel si
sollevò
aggrappandosi alle sbarre. “Fammi dare
un’occhiata,” disse poi.
Rimase in osservazione per un
tempo desolatamente lungo. Al suo fianco, von Kleist non osava dire
nulla per timore di disturbare la sua concentrazione. Dopo un
po’
comunque chiese: “Hai qualche idea?”
“La
chiave è appesa a un gancio sulla parete di fronte. Dobbiamo
solo
trovare il modo di arrivarci.”
L’ufficiale
guardò il punto
che l’amico aveva indicato, ed effettivamente notò
una grossa
chiave di ferro, nera nella scarsa luce, che pendeva da un anello.
Calcolò la distanza
dell’oggetto
e le conclusioni furono piuttosto sconfortanti. “Non possiamo
restarcene qui dentro mentre quella là va ad avvelenare il
Re!”
esclamò comunque, come a ribadire la sua ferma intenzione di
evadere.
“Ci
vorrebbe una canna da pesca,” disse von Ruchel alle sue
spalle.
Von Kleist si
guardò intorno,
riuscendo a individuare dopo un po’ un bastone che veniva
usato per
spostare i recipienti sulla fornace rovente.
Purtroppo era stato messo a
distanza di sicurezza dalla gabbia.
L’ufficiale
recuperò i pezzi
di corda che erano rimasti per terra e li legò fra loro, poi
si
sfilò la marsina, si strappò una manica della
camicia e ne fece
lunghe strisce, che poi annodò fra loro. Con il colletto, i
polsini
e lo jabot fece una palla che assicurò a una delle
estremità
dell’improvvisata corda.
“Ora
andiamo a pesca,” disse poi. Si spostò
più vicino possibile al
bastone e cominciò a tirare in quella direzione la palla di
stoffa
cercando di agganciarlo.
Per un tempo imprecisato, gli
unici rumori che si udirono furono i tonfi soffici della palla,
accompagnati di tanto in tanto da qualche imprecazione.
Il tempo passava inesorabile.
La
fornace continuava a funzionare a pieno regime, il che significava
che presto qualcuno sarebbe arrivato ad alimentarla.
L’ufficiale
inspirò cercando
di non farsi prendere dall’eccitazione. Fece finta di essere
su un
campo di battaglia, in procinto di ordinare un assalto.
Tirò la palla, che
finalmente
portò il laccio ad avvolgersi intorno al bastone. In quel
momento si
udirono dei passi.
Von Kleist si
immobilizzò: non
poteva rischiare di fare rumore e attirare l’attenzione.
Scambiò
un’occhiata furtiva con gli altri, che gli rimandarono la
stessa
preoccupazione.
Arrivarono due uomini.
Parlavano
fra loro, sembravano piuttosto rilassati ora che la signora von Pfuel
non era più in vista. Andarono a prendere due gerle di legna
e
cominciarono a gettare i pezzi dentro gli appositi sportelli.
Quando ebbero finito, uno dei
due
si terse il sudore che gli stava gocciolando dalla fronte e disse:
“Ci sarebbero da spostare quei vasi.”
Indicò le ampolle che
bollivano.
L’altro scosse la
testa. “No,
lascia. Lo sai come fa quella là quando vai a toccare le sue
cose.
Capace che ti usa per i suoi esperimenti.”
“Sì,
ma poi traboccano e si arrabbia lo stesso. Ci metto un
attimo.”
Fece per muoversi verso il bastone. Von Kleist sentì un
brivido
freddo lungo la schiena. Se l’uomo si fosse avvicinato un
altro po’
avrebbe visto la corda di stoffa e avrebbe distrutto la loro unica
possibilità di fuga.
“Aspetta,
questo è più lungo,” disse
l’altro.
“Ah,
meglio. Quell’affare è caldo come
l’inferno.”
L’ufficiale
sospirò di
sollievo. Aspettò che i due se ne fossero andati, poi prese
a tirare
pian piano il bastone verso la gabbia.
Ci vollero molta cautela e
svariati momenti di angoscia, ma alla fine il bastone arrivò
abbastanza vicino alla gabbia da poter essere afferrato. Von Kleist
lo prese e con quello ricominciò lo stillicidio di
tentativi, questa
volta per agganciare la chiave e farla arrivare a portata di mano
senza lasciarla cadere.
Protendendo il braccio al
massimo, riuscì dopo innumerevoli prove a sollevare
l’anello e a
farlo scorrere lungo l’asta. La chiave arrivò.
“Meno
male,” sospirò.
Aprì il lucchetto,
ma quando fu
sul punto di uscire si rese conto che Johannes non avrebbe potuto
camminare. Non aveva il suo tutore, e anche se fossero riusciti a
trovargli un bastone o una stampella, non avrebbe potuto fare altro
che arrancare penosamente.
Come se gli avesse letto nel
pensiero, von Ruchel disse: “Devi andare.”
“Ma
non posso lasciarti qui.”
“Al
momento sono quello che corre meno rischi. Va, prima che sia troppo
tardi.”
Von Kleist deglutì.
Di colpo si
sentiva pesante come il piombo. Di nuovo, l’altro
sembrò intuire
perfettamente i motivi del suo turbamento. “Devi
andare,” ripeté,
“pensare al passato non servirà a nessuno.
Né a te, né tanto
meno a me.”
Pur nella scarsa luce, i due
si
scambiarono una lunga occhiata. Infine, von Kleist disse:
“Franz,
resta qui con il signor von Ruchel.”
“Sì,
Eccellenza.”
Uscì senza
aggiungere altro.
Tornò rapido alle
scale dalle
quali era arrivato, le salì fino allo studio della von
Pfuel. Il
secrétaire era aperto, lo scomparto segreto vuoto.
“Le ha portate
via!” imprecò.
Ma aveva ancora il diario, e
le
lettere che aveva preso Konstantin. Inoltre non escludeva di riuscire
a recuperare anche quelle ancora in possesso della donna.
Guardò fuori: ormai
il sole si
stava dirigendo verso l’orizzonte, presto gli ospiti
avrebbero
cominciato ad affluire al Sanssouci per presenziare al concerto di
Sua Maestà, che nessuno voleva mancare, perché si
trattava di un
evento di importanza molto più politica che musicale.
Sentì un galoppo di
cavalli sul
viale. Guardò in basso e vide uscire dal palazzo una
carrozza di
gala con nappe e piume: la von Pfuel si stava dirigendo alla
residenza della famiglia reale.
Fece per abbandonare la
stanza,
ma gli si parò davanti la ragazza dagli occhi neri.
Impugnava una
spada, e dal modo in cui lo faceva era chiaramente in grado di usarla
per uccidere. L’ufficiale arretrò.
Si guardò intorno
rapidamente
alla ricerca di qualcosa che gli permettesse di affrontare una lama e
non poté fare altro che strappare un tendaggio e
avvolgerselo
attorno al braccio. Si mise in guardia.
La ragazza rimase immobile.
Non
aveva neppure bisogno di attaccare, le sarebbe bastato tenerlo a bada
per un tempo sufficiente e sua madre avrebbe già vinto la
partita.
I due si scambiarono
un’occhiata.
“Mademoiselle, fatemi passare,” le disse serio von
Kleist. “Ho
fatto troppa guerra per non considerare le donne pericolose quanto
gli uomini, quindi non aspettatevi da parte mia delle remore nel
colpirvi.”
“Voi
mi lusingate, signore,” rispose la ragazza con un sorriso
beffardo,
quindi buttò indietro i capelli con uno scatto del capo e
alzò la
lama.
L’ufficiale strinse
gli occhi.
La tenda che si era arrotolato intorno al braccio lo avrebbe protetto
dai fendenti, ma non dalle punte, e questo la ragazza lo sapeva molto
bene.
Fece una finta spingendo in
avanti il braccio protetto, e mentre la sua avversaria scattava per
colpire, con la mano libera afferrò la sedia del
secrétaire e
gliela buttò addosso. Ella intuì la minaccia e
riuscì a schivare
parzialmente il colpo, ma perse la compostezza e aprì la
guardia.
Von Kleist ne approfittò per dare un secondo colpo, ma la
sedia non
resse e nell’impattare sulla ragazza si frantumò.
L’altra riprese
immediatamente
il controllo di sé, attaccò con una punta al
petto. L’ufficiale
sottrasse bersaglio spostandosi di lato, poi le afferrò il
braccio
della spada e impossibilitato a fare altro la colpì con un
pugno
alla mandibola. La ragazza cadde a terra con un mugolio che sembrava
il soffiare di un gatto inferocito, rotolò, si
rialzò con uno
scatto delle reni e scrollò la testa un paio di volte.
“Ripeto,
signore: voi mi lusingate,” disse. I suoi occhi erano accesi
di
sfida.
L’ufficiale raccolse
da terra
una gamba della sedia e si mise in guardia. La ragazza
attaccò con
un’altra punta, lui parò e con
l’improvvisato randello le
assestò un colpo sulla nuca. La sua avversaria gemette, un
rivolo di
sangue prese a scorrerle sul collo niveo. Von Kleist non le diede il
tempo di riprendersi: la incalzò con un colpo alla tempia.
La
ragazza cadde di nuovo, ringhiò, in un ultimo sforzo si
lanciò in
avanti e lo ferì al fianco, poi si afflosciò al
suolo e vi rimase
immobile.
Ansante, con il sangue che dal
fianco gli scorreva lungo la gamba, l’ufficiale si terse il
sudore
dalla fronte, poi raccolse la spada, scavalcò il corpo
esanime e si
lanciò di corsa lungo la teoria di stanze che aveva
attraversato per
raggiungere lo studio.
Ritrovò il pannello
che
conduceva alla scala segreta, la discese, riprese la corsa attraverso
l’androne. Un paio di uomini gli si fecero incontro. Von
Kleist non
perse tempo: attaccò il più vicino con un tondo
rovescio
squarciandogli la gola, poi incalzò sul secondo con una
punta, gli
trapassò la spalla, estrasse la lama e lo finì
con un fendente
dritto al corpo.
Passò oltre.
Si inoltrò nella
foresta
incurante del fitto sottobosco. Raggiunse la carrozza.
“Presto, al
Sanssouci” cominciò a gridare prima ancora di
raggiungerla.
“Rudolph, partiamo immediatamente!”
Il cocchiere montò
di corsa a
cassetta e prese in mano le redini. I cavalli, che stavano brucando
un po’ di biada, alzarono la testa con uno scatto.
Il tempo di salire a bordo e
già
il veicolo procedeva alla massima velocità verso la reggia.
†
Al Sanssouci c’era
la folla
delle grandi occasioni. Carrozze di gala con tiri a due, a quattro e
addirittura a sei, piene di piume di struzzo e stucchi dorati, si
susseguivano scaricando sulla soglia della reggia tutti i nobili di
Potsdam e di Berlino che avevano avuto l’enorme onore di
ricevere
un invito.
Le
signore facevano a gara sfoggiando le toilettes
più eccentriche e le parrucche più incipriate,
gli uomini, a loro
volta in parrucca bianca, davano il braccio alle dame e si guardavano
intorno controllando a quanti altri fosse stato accordato il
privilegio di un invito. Gli ufficiali erano tutti in alta uniforme.
Von Kleist arrivò
al gran
galoppo, con i cavalli schiumanti. Scese di corsa, spettinato, sporco
di sangue, con una camicia che aveva una manica sola, le scarpe
infangate e i pantaloni strappati.
Fu fermato dai valletti.
“Fatemi
passare!” esclamò, strattonando per liberarsi.
“Vi
prego di non insistere, signore!” gli disse un valletto
più
robusto degli altri.
“Sono
il colonnello von Kleist, fatemi passare!”
“Non
è possibile, signore. Sua Maestà
comincerà a suonare fra poco.”
“Vi
dico di farmi passare, Sua Maestà è in
pericolo!”
Nel frattempo si stava
formando
un capannello. Signore vestite a festa lo osservavano curiose con la
lorgnette. I più credevano si trattasse di un pazzo.
Von Kleist si
guardò intorno con
l’aria di un cinghiale aizzato. Vide passare von Bissing. Lo
chiamò, poi con uno spintone mandò a gambe
all’aria il valletto
che lo stava trattenendo e raggiunse il collega.
Questi lo fissò
stupito. “Von
Kleist? Ma che diavolo...”
“Non
c’è tempo,” lo interruppe il colonnello,
“Venite con me!” Si
lanciò di corsa lungo il corridoio.
“Mi
volete dire che accidenti vi prende?” insisté von
Bissing cercando
di tenere l’andatura dell’amico nonostante
l’uniforme di gala.
“Muovetevi!”
Arrivarono alla sala della
musica, von Kleist spinse il collega dietro una tenda e vi si
occultò
a sua volta.
Nella sala c’erano
solo alcuni
valletti impegnati negli ultimi preparativi. Le candele ardevano
già
nei lampadari, riflettendosi nelle alte specchiere. Gli stucchi dei
pannelli rococò mandavano bagliori dorati. C’erano
già il leggio
di Sua Maestà con gli spartiti e il suo flauto traverso di
avorio.
Comparve la donna.
L’ufficiale
non riusciva a capacitarsi di come fosse riuscita a entrare
nonostante la sorveglianza, tuttavia era lì. Vestiva un
abito nero e
aveva al collo, oltre la catenina d’oro con il pendente a
forma di
cilindro, un’opulenta collana di ametiste dal colore
particolarmente intenso e ricco. I capelli erano come sempre color
dell’ebano.
Si avvicinò con
l’aria di chi
è nel suo pieno diritto. Osservò lo spartito,
mosse appena il dito
nell’aria come se ne stesse seguendo la melodia e sorrise
compiaciuta. Un valletto le disse qualcosa e lei gli lanciò
un’occhiata da sopra la spalla con aria complice, con tutta
l’aria
della signora che riesce a rubare uno sguardo più intimo
alle cose
di Sua Maestà e non vede l’ora di vantarsene il
giorno dopo con le
amiche.
Il valletto le sorrise, fiero
di
poterle concedere quel piccolo attimo di felicità.
La signora riprese a seguire
la
melodia dello spartito.
Sottovoce, von Bissing disse:
“E
allora? Mi avete trascinato fin qui correndo come se avessimo il
Diavolo alle calcagna per vedere la von Pfuel che curiosa in
giro?”
“Tenetevi
pronto.”
“Tenetevi
pronto a che? Siete diventato matto per caso?”
La donna estrasse dalle pieghe
dell’abito una scatoletta, e da quella tirò fuori
un tampone di
stoffa.
“Ecco
che lo fa, guardate!”
“Fa
cosa?”
La signora von Pfuel
passò il
tampone sulla boccola e intorno a tutti i fori del flauto.
Von Bissing si
voltò verso il
collega con aria interrogativa, questi semplicemente gli disse:
“Appena esco per agguantare lei, voi prendete quel flauto,
senza
toccarlo con le mani nude, e fate in modo che non lo tocchi nessun
altro.”
“D’accordo.”
In quel momento, la donna si
voltò verso il tendaggio. I suoi occhi di giaietto ebbero un
guizzo,
ella si slacciò un nastro che aveva in cintura e in un
attimo si
liberò dell’ampia gonna, rivelando pantaloni e
stivali da caccia.
Scavalcò agilmente l’ammasso di stoffa ai suoi
piedi e si lanciò
fuori dalla sala con insospettata velocità.
Von Kleist scattò
al suo
inseguimento.
“Aiuto!
Aiuto! Mi uccidono!” strillò la signora, e per
prima cosa
l’ufficiale fu intercettato dal valletto. “Che cosa
volete fare a
quella donna?” chiese l’ignaro cameriere. Lo
afferrò a mezzo
corpo per trattenerlo.
Von Kleist proferì
un’imprecazione e abbatté l’uomo con un
pugno, quindi riprese
l’inseguimento.
La donna lo vide arrivare e
senza
rallentare si buttò dietro le spalle una piccola ampolla di
vetro.
Il contenitore si ruppe e da esso cominciò a sprigionarsi un
fumo
denso e acre, che faceva lacrimare gli occhi e bruciare la gola.
L’ufficiale si
costrinse a non
indugiare, ma quando finalmente smise di tossire e la vista gli si
schiarì di nuovo, fece appena in tempo a vedere la signora
von Pfuel
che usciva da una porta secondaria, montava a cavallo e scompariva al
galoppo.
Il buio la
inghiottì.
†
“Dov’è?”
chiese von Bissing, sopraggiunto alle sue spalle. Teneva in mano il
flauto avvolto in un fazzoletto ed era seguito da un nutrito gruppo
di guardie.
Von Kleist emise un sospiro.
“Andata. Se non fosse stato per quel dannato valletto
l’avrei
presa.” Poi, dopo una breve pausa: “Mi serve un
cavallo.”
“Dove
volete andare?”
“Alla
villa sul Templiner See. Forse riusciamo ancora a prenderla.”
A voce alta, von Bissing
ordinò:
“Un cavallo per Sua Eccellenza il colonnello von Kleist,
presto!”
Poi, rivolto al collega: “Io vi raggiungo con uno squadrone
dei
miei.”
“D’accordo.”
Pochi minuti dopo, in sella a
un
robusto baio, von Kleist sfidava le tenebre galoppando verso la
dimora della signora von Pfuel.
Nel frattempo ragionava sulla
situazione. Una delle figlie era fuori combattimento,
dell’altra
non sapeva nulla. L’attentato era fallito, ma la Regina era
ancora
viva e vegeta.
Se glielo avesse permesso,
quelle
specie di erinni sarebbero fuggite facendo perdere le loro tracce e
l’erinni peggiore di tutte, ovvero Maria Teresa
d’Austria,
sarebbe uscita dalla faccenda più pura della madre di Cristo.
Spronò il cavallo.
Immersa
nell’oscurità, la
villa aveva un’aria spettrale.
Von Kleist smontò e
si guardò
intorno. Sotto i raggi della luna, il maniero dava
l’impressione di
essere disabitato da anni. Solo guardando attentamente si coglieva
nella canna fumaria nascosta fra i rampicanti un fioco bagliore
rosso, come di braci che covano sotto la cenere.
L’ufficiale non si
perse nella
contemplazione della notte di primavera. Si diresse risoluto verso
l’ingresso di servizio alla base della torre e
penetrò
silenziosamente nella sontuosa dimora.
Facendo affidamento sui deboli
raggi della luna, seguì il percorso della mattina e
tornò al
piccolo studio. La ragazza dagli occhi neri era ancora lì.
Era stata
rivoltata sulla schiena, e qualcuno le aveva strappato dal collo il
ciondolo fatto a cilindro.
Il secrétaire era
stato vuotato
di ogni suo contenuto, i cassetti giacevano sparsi sul pavimento.
Il passaggio segreto della
libreria era semiaperto.
Von Kleist lo
osservò dubbioso:
anche quello sembrava un invito.
Si avvicinò,
constatando che dal
basso saliva una colonna d’aria torrida. Scese cauto alcuni
gradini: la temperatura diventava sempre più alta. Gli parve
di
sentire odore di fumo.
Percorse il resto della scala,
e
quando arrivò in basso temette di essere finito nel bel
mezzo
dell’inferno: la fornace stava divorando un enorme carico di
legname e le sue strutture surriscaldate stavano portando a
temperatura di combustione tutto ciò con cui si trovavano in
contatto. L’odore di fumo, come di legno e stoffa bruciati,
era
così intenso da far lacrimare gli occhi. Tutta la vetreria
era
sparsa al suolo in frantumi, liquidi di varia natura scorrevano fra
le pietre del pavimento, frammisti a polveri ed erbe officinali.
“Johannes!
Franz!” gridò l’ufficiale guardandosi
intorno angosciato.
La gabbia era aperta, dentro
non
c’era nessuno. Il corpo di uno dei guardiani giaceva riverso.
“Johannes!
Franz!” ripeté.
“Siamo
qui, Eccellenza!” gli rispose la voce del valletto. Proveniva
dalla
zona in cui si trovava la vasca dei pesci.
L’ufficiale si
voltò in quella
direzione e vide che con l’ausilio di una trave il giovanotto
stava
per rovesciare il serbatoio d’acqua. Lo raggiunse.
“Dov’è il
signor von Ruchel?” gli chiese per prima cosa.
“Sono
qui,” rispose la voce dell’amico. Poi, rivolto al
valletto:
“Forza con quella cisterna.”
“Sì,
Eccellenza.”
la vasca finalmente si
rovesciò,
inondando il pavimento e riversandosi all’interno della
fornace,
dalla quale cominciarono ad uscire sibilando getti di vapore.
I tre si diressero verso le
scale.
“Avete
visto la von Pfuel?” chiese il colonnello.
“È
venuta qui e ha fatto distruggere tutto, poi se
n’è andata,”
rispose Johannes.
“La
figlia?”
“Non
l’abbiamo vista.”
Abbandonarono il laboratorio.
Arrivarono al piano nobile
ansanti ma incolumi. Guardando dalla finestra, von Kleist si accorse
che il cortile era occupato da uno squadrone di cavalleria. Con un
sorriso di sollievo disse: “Ecco von Bissing.”
I soldati erano smontati da
cavallo e avevano acceso delle fiaccole per illuminare la zona. Due
di essi tenevano per le braccia la ragazza superstite, che imprecava
e scalciava tentando di liberarsi.
Un altro aveva recuperato il
cavallo con cui la signora von Pfuel aveva raggiunto il palazzo. Di
lei non c’era traccia.
Von kleist si diresse verso il
collega e gli chiese: “Avete scorto la donna?”
L’altro scosse la
testa. “Solo
il cavallo, come vedete. Ma ci sono pattuglie dappertutto, se si
fosse allontanata l’avremmo vista.”
Il
primo annuì pensoso, poi disse: “Se si fosse
allontanata via
terra,
sì.”
“Cosa
volete dire?”
“Il
molo.”
“Accidenti,
avete ragione!” Poi, a voce più alta:
“Sergente! Prendete otto
tiratori e venite con me!”
Corsero tutti verso il lago.
Alla
tremula luce delle fiaccole videro che l’acqua era appena
increspata dal movimento di una piccola imbarcazione. A bordo
c’era
una figura intenta a remare con vigore.
“Puntate!”
ordinò il sergente.
I soldati si posizionarono
quattro in piedi e quattro in ginocchio, mirando in direzione della
barca.
“Fuoco!”
Partì la scarica di
fucileria.
Il fumo degli spari rese dapprima impossibile vedere cosa fosse
accaduto, ma quando esso si fu diradato, apparve la barchetta a
chiglia in su. L’acqua era tornata immobile.
“È
fatta,” disse von Bissing.
†
Accanto alla pianta battezzata
Konstantin, Luise aveva sistemato la piccola rosa recuperata dalla
soffitta.
In mezzo ai fiori pregiati, la
piantina da pochi Pfenning era fuori posto in maniera commovente, ma
Luise sembrava non farci caso. Era proprio a lei, anzi, che tributava
le cure più affettuose.
“È
stata l’ultima a vedere Konstantin vivo,”
mormorò rincalzando la
terra intorno allo stelo. Prese un piccolo innaffiatoio che una
cameriera le stava porgendo e bagnò la pianta.
Si alzò in piedi.
Von Kleist accorse per
offrirle
il braccio. Nel breve volgere di poche settimane, sua sorella
sembrava invecchiata di vent’anni. Si era temuto per la sua
salute,
inizialmente, e una volta scongiurato il rischio della malattia
fisica, si era temuto per i suoi nervi.
Se già prima
passava ore nel
roseto, dopo quello che era successo era diventato difficile vederla
in posti diversi. Fuggiva gli eventi mondani, rifiutava di incontrare
amici e conoscenti. A parte il marito e i figli, accettava di vedere
solo lui.
Si incamminarono lentamente
per
uno dei vialetti. Per un po’ rimasero semplicemente in
silenzio,
ognuno immerso nei propri pensieri, poi Luise domandò:
“Come vanno
le indagini?”
“Ancora
niente,” rispose von Kleist.
“Quindi
è riuscita a fuggire?”
L’ufficiale
lasciò passare
qualche secondo, poi rispose: “Oppure è
morta.”
La
donna scosse la testa. “Io non credo.” Poi si
voltò verso le
piante di rose, che la brezza del tardo pomeriggio faceva ondeggiare
lievemente. “Lo sentirei se fosse morta. Lui
me lo farebbe sapere.”
L’altro non rispose.
Sapeva che
la sorella ogni tanto parlava con la piantina, convinta che dentro ci
fosse l’anima di Konstantin, ma aveva sempre fatto finta di
niente.
“Gli uomini della setta li hanno presi tutti,
però,” disse,
anche solo per stornare il discorso dalla china inquietante del
contatto con gli spiriti. “Era una branca dei Rosacroce. Hai
mai
sentito parlare dei Rosacroce?”
La domanda sembrò
cadere nel
vuoto. Passarono diversi secondi prima che la sorella rispondesse:
“Si finisce sempre per parlare di rose, vedi? E di
croci.”
Lui le circondò le
spalle esili
con un braccio. “Lo so. È terribile quello che
è successo. Io
stesso non me ne faccio una ragione.”
Lei annuì in
silenzio. Era
diventata una sottile dama di ghiaccio, che sembrava sciogliersi
lentamente, una goccia dopo l’altra, una lacrima dopo
l’altra,
sotto il sole primaverile.
Von Kleist non aggiunse altro.
Era un uomo d’azione, sapeva spingere i soldati
all’assalto,
infiammare gli animi con parole esaltanti, ma aveva ritegno di quel
dolore silenzioso come un paesaggio invernale, che nulla al mondo
avrebbe mai più potuto lenire.
“Andiamo
dentro,” si limitò a proporle. La sospinse
delicatamente lungo il
vialetto.
†
Seduto nella serra di von
Ruchel,
von Kleist stava osservando una vasca nella quale nuotavano lenti i
pesci misteriosi trovati nel laboratorio di Brandt.
Si
avvicinò e picchiettò il vetro con le nocche, e
subito una delle
creature più vicine si gonfiò trasformandosi in
una palla irta di
aculei. “Ach!”
commentò l’ufficiale, facendosi leggermente
indietro.
“Ti
piacciono i miei nuovi amici?” chiese Johannes alle sue
spalle. Si
avvicinò con la sua andatura claudicante finché
non fu accanto a
lui, poi disse: “Li volevano ammazzare, pensa che
spreco.” Prese
un piattino che conteneva pezzetti di carne e lo rovesciò
nella
vasca, poi si sedette e rimase a contemplare con espressione
soddisfatta i pesci che si nutrivano.
“Che
fine hanno fatto quelle lettere che avevi conservato?” chiese
dopo
un po’.
“Ce
le ha la Polizia di Sua Maestà,” rispose von
Kleist sedendosi
accanto a lui, “per le indagini. Spero solo che mi ridaranno
il
diario di Konstantin alla fine, Luise ci sta facendo una
malattia.”
Von Ruchel si
rigirò il bastone
fra le dita con fare pensoso. “Devi capirla,” disse
dopo un po’.
“Secondo me Konstantin era il suo figlio
prediletto.”
“Sì,
sono convinto anch’io che lo preferisse. In realtà
non le sono mai
piaciute le uniformi.”
Per un po’ di tempo
rimasero in
silenzio a contemplare i pesci, poi von Ruchel buttò
lì: “Comunque
ti ringrazio, Wilhelm.”
“Per
cosa?”
L’altro ebbe un
sorriso velato
di mestizia. “Per avermi fatto sentire vivo ancora una volta.
Ero
un po’ stufo di fare il topo di biblioteca storpio.”
“Senza
di te non ce l’avrei mai fatta. Non avrei neanche capito di
cosa
stava parlando il povero Konstantin.” Rimase per un
po’ a
contemplare i pesci, poi soggiunse: “Pensavo che avesse perso
il
senno.”
Con un sospiro, von Ruchel
disse:
“La sua disgrazia non è stata perderlo, ma
ritrovarlo. Appena
hanno capito che era rinsavito dalla follia ermetica e voleva
avvisarti del crimine che stavano preparando, quei maledetti lo hanno
ucciso.”
Calò di nuovo il
silenzio.
Arrivò con passo grave un pavone, li fissò
sussiegoso e fece la
ruota esibendo il piumaggio variopinto. “Vuoi fare a gara con
la
mia uniforme?” gli chiese von Kleist. L’uccello
storse la testa e
lo guardò con un occhio solo, quindi richiuse la coda e se
ne andò.
Von Ruchel rimase per un
po’ a
guardare il pavone che si allontanava, poi disse: “Ci
vorrebbe una
fenice.”
“Ma
la fenice non esiste.”
“Sei
sempre il solito pragmatico. La fenice rappresenta il compimento
della Grande Opera, e visto che anche noi abbiamo portato a termine
un Opus Magnum,
penso che ce la meriteremmo.”
Von Kleist
sogghignò e disse:
“Visto che qui tutti parlano per simboli, per una volta lo
farò
anch’io: fa lo stesso se non abbiamo catturato una fenice.
Abbiamo
spennato l’aquila bicipite[1], e tanto basta.”
[1] L’aquila
bicipite è il
simbolo dell’Impero austro-ungarico.
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