Occhi chiusi

di fervens_gelu_
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                                                                                                      Occhi chiusi

 

Apro gli occhi, tutto intorno a me si fa vivido, ogni cosa assume una sua tangibilità, una sua concretezza. Mi assale un senso di smarrimento, confuso tra la folla ma allo stesso tempo rincuorato da tutta quella gente che mi circonda, nulla mi dà maggior piacere di mettere piede sulla terraferma, soprattutto dopo un viaggio lungo ed estenuante. Eravamo tutti ammassati l’uno sull’altro, non riuscendo quasi a respirare, tentavo di dimenarmi per farmi spazio e prendere un po’ d’aria, ma non appena cercavo di muovermi venivo schiacciato ancor di più. Riesco a scorgere la terra in lontananza, ‘’manca poco’’ penso. Adesso sì, posso finalmente respirare.

 

‘’E’ una bellissima giornata’’.

 

Il tepore del sole scalda la mia pelle già scottata dalle numerose ore passate a lavorare nei campi e la sua luce riflessa nei miei occhi verde acqua riverbera nello spazio circostante. Le onde del mare infrangendosi sugli scogli evocano una luce dorata e alcuni gabbiani, sul pelo dell’acqua, fanno razzia delle loro prede, ignare del loro crudele destino. Altri si liberano in volo e si lasciano trasportare dalla brezza estiva, quasi soffocante che li priva del loro più insopprimibile desiderio di raggiungere l’orizzonte. Quella stessa morsa mi opprime soffocando il mio anelito di libertà. Mi volto a sinistra, poi a destra, ovunque sono travolto da suoni fragorosi, schiamazzi di bambini dal volto felice che scambiano due tiri con un vecchio pallone di cuoio, voci di venditori che richiamano a sé la folla che si appresta ad osservare la merce più invitante esposta sul loro bancone. Le strade sono inebriate dal profumo di spezie e aromi. Questi odori così etnici mi ricordano la cucina di mia madre, il montone che ogni giovedì mangiavamo spensierati tutti insieme raccolti alla tavola apparecchiata. In quei giorni invitavamo anche il nonno ed io ero sempre molto emozionato nell’ascoltare le sue sagge parole.

 

Cammino frettolosamente con la testa china, scrutando con diffidenza i volti dei viandanti, per cercare di passare inosservato ai loro occhi. Un brivido mi scorre veloce lungo la schiena, provo paura, mi raggomitolo in me stesso  e affiora dirompente un ricordo che mi ancora tenacemente alla mia terra natia.
 

Sono nato e cresciuto in Kigali, da una povera famiglia di contadini da sempre soggetta ad un governo dispotico che proibisce diritti, la libertà o una semplice aspirazione di vita. E’ impossibile intraprendere un nuovo percorso, è inutile dimenticare il passato che attanaglia la nostra mente, cuore pulsante di emozioni, passioni, sofferenze e tribolazioni che ho patito in quegli anni infantili; le stesse sofferenze e tribolazioni di cui porto i segni lividi sulla pelle e nell’animo, lacerato da una ferita che mai si potrà ricucire. All’improvviso mi ritrovo catapultato nei campi mentre mi accingo a trasportare sul mio esile corpo l’ennesimo macigno che mi scortica la pelle e mi svuota di qualsiasi prospettiva. Sudore scivola lentamente dalla mia fronte solcando le mie gote scavate fino a raggiungere le mie labbra che assaporano l’amarezza di ogni gesto che compio. Mi fermo un attimo per riprendere fiato dalla spossante stanchezza che il mio corpo non riesce più a sostenere e subito dopo sono scaraventato a terra, spinto dal padrone per cui lavoro, da cui ricevo, in cambio, denaro che mi permetta di mantenere la mia famiglia. Ogni giorno, al calare del sole, un sentimento di terrore aleggia su quei terreni abbandonati, su cui si consumano atti di disumana violenza. Sento passi incidere verso di me, il mio cuore palpita, le mie tempie pulsano, sono sempre più vicini, il mio corpo si paralizza, i miei occhi trattengono a stento le lacrime, ecco, è qui, la sua figura erge dalla penombra. Dopo avermi picchiato, strappa i miei vestiti con rabbia e mi sevizia. Momenti interminabili di completa alienazione, momenti di dolore fisico che a tratti riesco a patire, momenti che penetrano nella mia memoria suscitando un incubo che ogni notte mi tormenta e trattiene il mio respiro vitale. La vista si annebbia, sudo freddo e mi sento mancare, svengo.

 

‘’Non ricordo cosa sia successo, forse sarà stato il caldo?’’

 

Una mano accogliente e così simile alla mia mi afferra e mi riporta alla realtà. Non era un semplice scambio di mani, avverto una strana sensazione, diversa da ciò a cui ero abituato, un intreccio di cuori vivificati da uno spirito fraterno. Percepisco una gentilezza insolita, la mano che mi porge si eleva a potente arma contro l’ignoranza, la discriminazione e l’ignoranza proprie del genere umano; sentimenti inesistenti nella mente innocente di un bambino, il cui colore della pelle, la religione e le usanze sono ininfluenti e non intaccano l’affetto che può nascere tra due esseri umani. Un ponte di fiducia, un legame indissolubile, un abbraccio di compassionevole umanità, un richiamo alla vita.

 

‘’Vieni a giocare con noi’’ mi chiede un ragazzo con aria affettuosa.

‘’Chi sei?’’ rispondo con fare indagatorio.

‘’Forza! Non stare lì impalato, muoviti’’

Lo seguo con le gambe ancora tremanti mosso da un fervido sentimento di speranza.

 

Improvvisamente, rumori assordanti, sparatorie incessanti e bombardamenti radono al suolo la città infrangendo i miei sogni da cui, fino ad un attimo prima ero ingannato. La realtà è un’altra. Non riesco ad accettarla. Non posso. Non voglio. Voglio urlare. Il fiato si trattiene in gola, mi tappo le orecchie per non sentire nulla, sperando che sia solo questo il sogno, o meglio, l’incubo.

 

‘’Manuel, fai tirare me’’, ‘’Manuel, sono qui, mi senti?’’ ‘’Manuel…’’

 

Tutto ad un tratto il silenzio. Solo un uomo, di fronte a me, con un fucile in mano. Preme il grilletto. Silenzio. 

 





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