Progetto A.I.R.E.S.S. the search for truth

di Elena Ungini
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Villas, New Jersey, Lunedì 31 luglio 2000, ore 21.00
 
Erano ormai le nove e il sole stava lentamente scendendo dietro le abitazioni di Villas. Le strade della città erano quasi deserte, a quell'ora, in periferia.  Lucy aveva sempre paura a percorrerle di sera, ma quel giorno si era attardata ad aiutare sua sorella, di sette anni più vecchia di lei, che aveva voluto farsi un bagno. Era triste doversi occupare da sola dell'unica persona cara che le fosse rimasta. La donna, sulla sessantina, arrancava sulla strada appoggiandosi a un bastone. La sua gamba destra aveva subito numerose operazioni, ma ancora non si decideva a funzionare a dovere. La fermata dell'autobus era a pochi metri, ormai. Doveva sbrigarsi o l'avrebbe perso. D'improvviso, un ragazzotto le si parò dinanzi, sogghignando con un'espressione che non le piaceva affatto.
“Che vuole?”, chiese la donna, spaventata.
“Dammi la borsetta e non ti succederà niente, vecchia!”, ordinò, facendo scattare la lama di un coltello a serramanico.
Spaventata, la donna obbedì e gli consegnò la borsetta.
“Brava, così va bene. Ora prega che qui dentro ci siano dei soldi, e molti, o per te sarà la fine!”, continuò, brandendo il coltello. La donna non aveva alcuna difesa contro di lui. Non poteva neppure fuggire. Si limitava a guardarlo terrorizzata, con gli occhi spalancati e le braccia tremanti, la destra che si appoggiava con forza al bastone che la sorreggeva. Ma un colpo d'arma da fuoco esplose nel silenzio della via, facendola trasalire. Il ragazzo strabuzzò gli occhi, rimase un istante immobile, lo sguardo incredulo dipinto sul volto, poi si afflosciò ai suoi piedi. Una chiazza di sangue si allargava per terra, mentre il giovane moriva. Lucy si guardò intorno, terrorizzata. Che sarebbe successo, ora? Dall'ombra di un caseggiato vide uscire una strana figura: era una donna, ma portava una maschera sul viso che la rendeva irriconoscibile. Si avvicinò all'anziana signora reggendo tra le mani la pistola che aveva usato per sparare. Lucy aveva una paura folle. L'altra donna, invece, sorrideva amabilmente. Non sembrava avere cattive intenzioni, ma una pistola in mano fa sempre il suo effetto.
“Non deve più temere, signora. Ci sono qua io”. Si avvicinò al cadavere del ragazzo e, con un piede, lo rivoltò, quasi fosse stato un pupazzo. Prese la borsetta dell'anziana signora, grondante sangue, e gliela diede, come se nulla fosse.
“Ecco. Ora non la disturberà più, questo fannullone”.
Poi la donna si dileguò nella notte, balzando su una muraglia e, da lì, su una tettoia, con un'agilità impressionante.
Quando finalmente l'anziana signora riuscì a tornare nel suo appartamento chiamò immediatamente la polizia, raccontando l'accaduto, ancora incredula.
“Una donna travestita?”, chiese Tomas Raine, capo della polizia, scrutandola da sopra gli occhiali tondi per cogliere ogni sfumatura del suo viso, quando fu al cospetto della donna, la mattina seguente, durante l'interrogatorio.
“Con una tuta a macchie verdi e marroni, come le divise dei soldati”, specificò lei, ancora scossa.
“Lei non ha mai avuto una pistola, vero signora?”, continuò l'uomo, scribacchiando alcuni appunti su un foglietto spiegazzato.
“Ma non dica sciocchezze! Non vede come sono ridotta? Sono dieci anni che devo usare il bastone per riuscire ad avanzare con questa gamba malata. Con la mano destra devo reggere il bastone, non potrei certo usarla per sparare!”
“A ogni modo le faremo la prova del guanto di paraffina. Lei mi capisce, dobbiamo prendere in esame tutte le possibilità”, abbozzò Tomas, allargando le braccia, quasi a dire che lui si rifaceva solamente alla prassi.
“D'accordo, fate come volete”, accettò la donna, sconcertata.
Naturalmente, la prova del guanto di paraffina dette esito negativo, le rilevazioni fatte sul luogo dettero ragione all'anziana signora, visto che il colpo era stato sparato da dietro il caseggiato dove lei aveva visto la donna e comparve pure un testimone, che avvalorò la storia della signora, raccontando di aver sentito lo sparo e di essersi affacciato alla finestra per vedere cosa succedeva. Così aveva visto la donna misteriosa porgere la borsetta alla vecchia e fuggire via.
 
***
 
Villas, Martedì 1 agosto 2000 ore 15.30
 
“Posso andare a giocare sulla spiaggia con Luke, mamma?”
“Certo! Ma non mettetevi nei pasticci, mi raccomando. E non fate il bagno dove l'acqua è alta, d'accordo?”
“Sta tranquilla!”, urlò Rudolf, un ragazzetto sui dieci anni, secco e alto, precipitandosi fuori, dove l'amico lo stava aspettando sulla bicicletta. Il bimbo prese la sua bici e i due si recarono sulla vicina spiaggia, dove si misero a giocare con la sabbia, costruendo un magnifico castello. Stavano ancora finendo di preparare il fossato con il ponte levatoio, quando la loro attenzione fu attirata da un oggetto che galleggiava sulle acque del mare, poco distante da loro, accanto al pontile in legno, che si spingeva fin dove il mare si faceva alto e pericoloso.
“Guarda laggiù, Luke. Che cos'è quello?”
“Non lo so. Abbiamo a vedere”. Raggiunsero il luogo e vi trovarono una stupenda zattera fatta di tronchi, legata al pontile, che si dondolava pigramente sulle onde.
“Wow! Che meraviglia! Di chi sarà?”
“Non lo so, ma mi piacerebbe molto provarla”.
“Che ne dici se ci saliamo?”
“Sei matto? E se poi arriva il padrone?”
“Mica gliela rubiamo! Ci saliamo solo un attimo, poi scendiamo subito. Così, solo per provare”.
“Nessuno in vista?”, s'informò Rudolf, scendendo sulla zattera.
“Nessuno!”, confermò Luke, imitandolo.
“È davvero una meraviglia stare qui!”
“Sembra di essere Robinson Crusoe”.
“Già. Potremmo giocare ai pirati”. Improvvisamente, la corda che teneva legata la zattera al pontile si spezzò e la piccola imbarcazione di fortuna iniziò a scivolare verso il mare.
“Accidenti! Ci stiamo muovendo!”, esclamò Rudolf, spaventato.
“Oh, no! La corda si è spezzata!”, constatò Luke.
“Che facciamo adesso?”
“Non lo so. Proviamo a chiamare aiuto”. E si misero a urlare.
“Guarda! Qualcuno ha sentito le nostre grida!”, lo rassicurò Rudolf, notando una figura umana, in piedi sul pontile.
I due bambini si alzarono in piedi, agitando le mani e gridando aiuto con quanto fiato avevano. La figura, anziché avvertire la guardia costiera, si tuffò in mare e, velocemente, raggiunse a nuoto la zattera.
“State tranquilli, ragazzi. Ora ci sono qua io”, disse la donna, poiché di una donna si trattava, mentre afferrava la corda della zattera e la trascinava nuotando verso riva. I ragazzi erano esterrefatti e spaventati, ma anche stupiti dallo strano abbigliamento della ragazza.
“Portava una maschera sulla faccia”, raccontò Rudolf ai suoi genitori, quando fu in salvo sulla spiaggia.
“Aveva una tuta come quella dei soldati, verde e marrone. Vedessi come nuotava, mamma! Sembrava un pesce!”
“E ci ha salvati”, aggiunse Rudolf.
“Le abbiamo chiesto come si chiamava e lei ci ha detto di chiamarsi Dania, o qualcosa del genere”.
“Ma che Dania! Era Dalia!”, intervenne l'altro bambino.
“Non era neppure Dalia! Era un'altra cosa!”
“Forse Dana!”, propose la madre.
“No, non era neppure Dana. Comunque, la cosa più incredibile è che ci ha accompagnati a riva, ci ha raccomandato di stare più attenti, la prossima volta, e se ne è andata via. Nel giro di un attimo non c'era più”.
“È saltata là, sopra quell'albero, e non l'abbiamo più vista”, raccontò Luke, concitato, additando una piccola macchia di pini marittimi.
“Voi guardate troppi cartoni animati!”, commentò il padre di Rudolf, prendendo il figlio in braccio per portarlo a casa.
“Ringraziate il Cielo che non vi siete fatti niente!”, commentò la madre di Luke, avviandosi verso il suo appartamento, con il bambino per mano.
La guardia costiera, che si era precipitata sul posto non appena aveva saputo dell'incidente, decise comunque di fare rapporto alle autorità competenti: una donna con una maschera sul volto che se ne andava in giro a salvare i bambini… non sapeva perché ma c'era qualcosa di storto, in quella faccenda.
 
***
 
Villas, Mercoledì 2 agosto 2000
 
Il telefono nell'ufficio di Tomas Raine squillò molto presto, quel mattino: qualcuno aveva aperto la gabbia degli alligatori, nello zoo della città, e ora quattro di quegli enormi bestioni se ne andavano tranquillamente in giro a fare shopping.
“Allora, capo, ci sono novità, stamattina?”, chiese James, entrando in ufficio in perfetto orario.
“Solo quattro alligatori in giro per la città”, bofonchiò Tomas, prendendo la pistola d'ordinanza e infilandosela nella giacca.
“Stai scherzando, vero?”, rise James, conoscendo il proverbiale umorismo del suo capo.
“Magari! È la pura verità. Forza, diamoci da fare”, disse, uscendo dalla stanza. Il suo cellulare suonò e lui rispose, poi avvertì il collega sugli sviluppi della situazione.
“Buone notizie: sembra che uno dei quattro bestioni sia già stato catturato dai proprietari dello zoo: era rimasto nei paraggi e lo hanno ripreso senza fatica. Un altro, invece, è stato addormentato vicino al parco, con una dose di sonnifero, questa notte. Una coppia di fidanzati dice che a sparare il colpo che lo ha mandato nel mondo dei sogni è stata una donna mascherata”.
“Ancora lei! Ne ho già sentito parlare, recentemente”.
“A chi lo dici! Ho già due dossier che la riguardano. Sembra che abbia ucciso a sangue freddo un uomo per salvare una vecchina e che abbia salvato due ragazzini su una zattera, e ora questo! Quello che è peggio è che sembra che esca soltanto di notte e che capiti sempre nel posto giusto al momento giusto, per poi sparire nel nulla a una velocità impressionante. Craig le sta dando la caccia da giorni, ma nessuno sa dire chi sia, o dove si trovi”.
“Ora concentriamoci su questi alligatori, a lei penseremo dopo”.
Prima di notte, i due alligatori ancora a piede libero erano stati rimessi nelle loro gabbie. Tomas tornò a casa sfinito, quella sera. Ciononostante, la faccenda della donna mascherata lo preoccupava non poco, così chiamò Craig al telefono, per avere notizie.
“Allora, Craig, come sta andando con la nostra vendicatrice mascherata?”
“Mi dispiace, Tomas: non ne so ancora nulla. Sembra che compaia solo quando sta per accadere qualcosa”.
“Maledizione! Se non fosse sospettata di omicidio non sarei così preoccupato. Del resto non ha fatto gravi danni alla comunità, finora. Ma c'è quel tipo che ha freddato con tanta tranquillità. Non vorrei che lo rifacesse”.
“Chissà, forse i rapinatori ci penseranno due volte prima di agire, ora che c'è in giro lei”, scherzò Craig.
“Non mi piace, Craig. Quella donna mi preoccupa. Credo che sia il caso di chiamare rinforzi”.
“Il capo sei tu. Del resto, io non so proprio che altro fare per ritrovarla”.
 
***
 
Filadelfia, Giovedì 3 Agosto 2000
 
Steve rigirò fra le mani il dossier che Donald gli aveva appena messo sulla scrivania, lo soppesò, e  finalmente si decise ad aprirlo. Lesse tutto il contenuto, poi fece il numero dell'ufficio di Livienne. Lei gli rispose dopo numerosi squilli.
“Chi è?” La sua voce sembrava piuttosto affannata.
“Ti ho fatto correre?”, chiese Steve, immaginando che non fosse stata in ufficio.
“Un po': stavo uscendo”.
“Sei libera, oggi?”
“Stavo per stilare un articolo su una certa pazza che se ne va in giro mascherata a salvare la gente oppure a ucciderla, ma se tu hai qualcosa di meglio da offrirmi…”
“Temo di no: ho sulla scrivania il dossier che riguarda proprio questo caso. Ci vediamo tra mezz'ora all'aeroporto”.
“Okay”.
Prima di mezzogiorno erano a Villas, al cospetto di Tomas Raine che li guardava severo, dopo aver esposto a voce i fatti degli ultimi giorni.
“Questo è l'identikit della donna”, spiegò, mostrando un disegno fatto a computer della misteriosa donna mascherata.
“E non avete idea di chi possa essere questa specie di Catwoman?”, chiese Steve.
“No. Non ancora, almeno. Speriamo che voi possiate aiutarci a fare luce su questo caso. A proposito, chi è la signorina che è con lei? Non si è qualificata. È la sua collega?”
“Non proprio, comunque lavora con me”, tagliò corto Steve.
Lui e Livienne trovarono alloggio in un albergo della città. Mentre pranzavano, Livienne cominciò ad analizzare il caso:
“Abbiamo una strana tipa che se ne va in giro mascherata. Direi che il primo interrogativo da porsi è: perché lo fa?”
“Per farsi notare. Oppure perché vuole apparire come una vendicatrice mascherata, una specie di Superwoman”.
“Buona la prima”, commentò Livienne. “Se volesse fare la parte del supereroe, o meglio, della supereroina, non avrebbe ucciso nessuno, mi pare”.
“Non è detto che sia stata lei”.
“La signora Lucy Willmor l'ha vista con la pistola in mano e l'autopsia ha stabilito che il colpo proveniva proprio da dove si trovava questa strana donna. Perlomeno da dove Lucy l'ha vista arrivare”.
“Non abbiamo prove contro di lei per incriminarla di omicidio, per il momento. Se la trovassimo in possesso dell'arma che ha utilizzato per sparare, potremmo stabilire se è stata veramente lei, dato che la pallottola è stata ritrovata: un esame balistico confermerebbe questa tesi. Ma per ora è pura fantascienza: prima di tutto dobbiamo trovarla”.
“Io credo che se scoprissimo perché si traveste, avremmo quasi risolto il caso”.
“Può darsi, ma non è così semplice. Non abbiamo nulla da cui partire, a parte l'identikit. Chi può essere questa donna? E chi può essere la donna che cerca di impersonare?”
“Non lo so, ma credo che la nostra ricerca dovrebbe cominciare da qui”, disse Livienne, fissando il foglio con l'identikit della sospetta.
Una volta in camera, Steve si collegò al computer dell'FBI tramite il portatile, e cercò, scorrendo i vari schedari, di scoprire a cosa corrispondeva il travestimento della donna.
“Niente! Zero assoluto! Non c'è nulla che si riferisca a un tale travestimento”, bofonchiò Steve.
Si sedette sul letto e fissò intensamente Livienne.
“Il punto è che non mi quadra l'intera faccenda: una donna è in pericolo e lei arriva, proprio in tempo. Due ragazzini sono nei guai grossi da qualche minuto ed ecco che lei arriva, puntuale come un orologio svizzero. Quattro alligatori scappano dallo zoo e, la sera stessa, lei ne addormenta uno con un colpo di fucile caricato con del sonnifero. Come faceva ad avere un fucile del genere? Mi sembra che tutto questo faccia parte di un piano ben organizzato! Quella tizia vuole farsi notare, vuole passare per una star, una grande supereroina. e per fare questo, forse, è disposta persino a preparare delle trappole, per farvi cadere alcune persone, liberarle e farsi conoscere!”
“Pensi che sia lei stessa a costruire l'intera faccenda? Pensi che fosse d'accordo con le persone che ha salvato? Che abbia inscenato tutto?”
“Non proprio: le persone che sono state salvate da lei non erano a conoscenza dei fatti, ma lei sì: ha fatto in modo che cadessero nelle sue trappole, per poi poterle salvare. Altrimenti non si spiegherebbe la sua presenza sul posto nel momento esatto del bisogno. Da quando in qua una se ne va in giro di notte, nel parco cittadino, con un fucile e una dose di sonnifero, sufficiente ad addormentare un alligatore, a propria disposizione? Purtroppo, se è come penso, questo significa che continuerà a causare guai alla popolazione, per poterla salvare”.
“E se una volta il salvataggio non funzionasse?”, chiese, preoccupata, Livienne.
“Già. Mi chiedo fin dove possa arrivare. In ogni caso dobbiamo fermarla, prima che causi qualche danno serio alla comunità”.
“Ma come facciamo se non sappiamo dove si nasconde?”
“Ancora non lo so. Devo scoprire qualcosa in più, su di lei”, sussurrò Steve, quasi fra sé e sé.
La mattina seguente Steve e Livienne furono convocati d'urgenza: una colonia estiva era andata a fuoco improvvisamente. Parecchi bambini erano stati salvati dalla donna misteriosa, che era entrata da una finestra e li aveva portati in salvo. Un gruppetto di bimbi, però, era rimasto intrappolato dalle fiamme e, se non fosse stato per il tempestivo intervento dei vigili del fuoco, i piccoli sarebbero morti tutti quanti. Naturalmente, quando i pompieri e la polizia giunsero sul luogo, della misteriosa donna non c'era più alcuna traccia.
“È successo quello che temevo”, commentò Steve.
“Per fortuna i pompieri sono intervenuti in tempo”, sussurrò Livienne, osservando inorridita la scena: la colonia era ancora in fiamme e i vigili del fuoco stavano cercando si spegnere l'incendio.
“Già, ma anche quella donna ha fatto la sua parte. Mi domando ancora chi sia, e perché lo fa!”, esclamò Tomas, scuro in volto.
“Quel che è peggio, è che probabilmente è stata lei stessa ad appiccare l'incendio”, annunciò Steve.
“A quanto pare non sono l'unico a pensarla in questo modo”, asserì Tomas.
“Dev'essere stata lei per forza! Come avrebbe potuto, altrimenti, trovarsi qui in meno di cinque minuti? Gli stessi pompieri ci hanno messo un quarto d'ora, prima di arrivare”.
“Quello che mi chiedo è cosa dovremo aspettarci adesso. Cos'altro combinerà quella pazzoide?”
“Non lo so. Se potessimo prevedere le sue mosse potremmo catturarla”.
Le rilevazioni effettuate alla colonia rivelarono che l'incendio era di origine dolosa, il che avvalorava la teoria di Steve e Tomas.
Nel pomeriggio, dopo essersi fatto una doccia, Steve si sedette sul divano, al buio, a pensare. Non riusciva a capire cosa spingeva una persona adulta e matura a compiere gesti tanto insani, mettendo a repentaglio la vita di tante persone. Anche se aveva stilato un profilo della donna in questione, non era affatto sicuro che questo servisse per catturarla: non avevano il minimo indizio per identificarla a colpo sicuro. Il telefono squillò. Era Donald.
“Allora, Steve, a che punto sei?”, chiese.
“A un punto morto”.
“Che dati hai sinora a disposizione?”
“Solo quelli dell'identikit: donna, giovane, sui venticinque anni, carnagione chiara, altezza uno e sessanta, capelli neri, occhi neri leggermente a mandorla, probabilmente uno dei genitori o dei nonni era di origine asiatica. Segni particolari: una grande agilità. Non sappiamo altro. Sembra però che sia lei stessa a creare le situazioni in cui si getta per salvare le persone, il che porta a pensare che si tratti di un individuo disturbato, con gravi turbe psichiche e manie megalomani. È probabile che sia affetta da psicosi paranoide. Altro non mi è dato di sapere, per il momento”.
“Che hai intenzione di fare, allora?”
“L'unica cosa possibile, per ora: controllare negli ospedali se qualche paziente malata di mente assomiglia all'identikit, e poi sguinzagliare per la città tutte le squadre e cercare di trovarla”.
Dopo aver salutato Donald, Steve tornò alle sue congetture, osservando in silenzio l'identikit della ragazza. Una serie di colpi alla porta lo fece sussultare.
“Steve! Steve! Sono io! Apri, presto!”, chiamò Livienne, piuttosto concitata.
Steve era praticamente in mutande, a torso nudo e scalzo, ma il tono d'urgenza nella voce di Livienne lo convinse ad aprire subito, anche se con un po' di imbarazzo a mostrarsi così davanti alla ragazza. Lei però non lo degnò neppure di uno sguardo: entrò a precipizio nella stanza, con il computer portatile acceso in mano, si sedette sul letto ed esclamò:
“L'ho trovata, Steve! So chi è! O meglio, so da chi si traveste!”
“Cosa? Come hai fatto?”, chiese, incredulo.
“Ho aperto una e-mail che avevo sul mio computer, una di quelle solite pubblicità che invadono la rete continuamente. Stai a vedere!”
Riaprì di nuovo l'e-mail e apparve una schermata: la figura di una donna mascherata che somigliava moltissimo alla ragazza che stavano cercando. Il costume e la maschera, poi, erano identici.
“È la pubblicità di un nuovo videogioco: si chiama "Diana Superwoman". C'è anche il demo. Guarda un po' cos'ho scoperto!”
Livienne azionò il gioco, che mostrò un vicolo buio e sinistro, dove una vecchietta stava attraversando la strada, quando un ragazzo le si parò di fronte con una pistola in mano. L'eroina del gioco doveva sparare al giovane, ucciderlo e restituire la borsetta alla donna per riuscire a passare al secondo schermo.
“È incredibile! Sta facendo gli schermi del videogioco su scala cittadina!”, esclamò Steve.
“Dobbiamo procurarci subito una copia del gioco! Vieni, andiamo in un negozio di videogiochi, prima che chiudano!”, esclamò Livienne.
“Forse sarà meglio che mi vesta, prima”, rise Steve, rendendosi conto che Livienne non si era  neppure accorta del suo ben misero abbigliamento. Lei lo fissò e si avvide finalmente che  indossava soltanto un paio di boxer a righe bianche e blu. Non era certo la prima volta che vedeva un uomo seminudo, ciononostante arrossì violentemente, voltandosi dall'altra parte.
“Scusa. Non volevo essere indiscreta”.
“Guarda che puoi anche voltarti, se vuoi. Non me ne frega niente se mi vedi in mutande!”, sbottò Steve divertito, prendendo una maglietta. Inaspettatamente, lei si voltò, restando senza fiato. Steve era davvero un bel tipino; muscoloso, ben fatto, le spalle piuttosto larghe… Livienne non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.
Quando si fu rivestito raggiunsero il più vicino negozio di videogiochi e acquistarono una copia di "Diana Superwoman". Una volta tornati in albergo, si cimentarono per tutta la sera con il gioco, riuscendo a finire i primi tre schermi.
“Nel secondo schermo Diana salva due bambini che stanno per affogare su una zattera, in alto mare, nel terzo addormenta un coccodrillo nelle fogne di New York. Non c'è dubbio: sta proprio emulando i vari schermi. Con la sola differenza che è lei stessa a creare le situazioni pericolose”, confermò Livienne.
“Il peggio è che non si tratta più di un videogioco, ma di un pericoloso gioco di morte. Quei bambini avrebbero potuto morire, là dentro”, continuò.
“Immagino che il quarto schermo sia un salvataggio a una scolaresca in fiamme, ma ora sono troppo stanco per proseguire: è mezzanotte passata e stiamo giocando da cinque ore, senza aver neanche cenato. Credo che possa bastare. Domani interrogheremo il padrone della Chip S.p.A., l'industria che ha prodotto il videogioco. Dovrà dirci come sono gli altri schermi, in questo modo potremo prevedere le prossime mosse di Diana”.
La mattina seguente, ancora allucinati dalla serata passata davanti al video, Steve e Livienne raggiunsero la sede della Chip S.p.A., a New York. Qui, chiesero di vedere immediatamente Raf Kendal, maggiore azionario della società.
Un uomo alto, vestito interamente in grigio, con un completo molto elegante, li accolse con un sorriso beffardo, quasi antipatico. Steve gli strinse la mano e Livienne piegò impercettibilmente il capo in segno di saluto. Non le piaceva quell'uomo, Steve se ne rese immediatamente conto e sorrise tra sé e sé: non piaceva neppure a lui.
“A cosa debbo l'onore di questa visita?”, chiese Raf, con una sfumatura ironica nella voce. Evidentemente si aspettava già che qualcuno si sarebbe interessato al videogioco.
“Siamo qui per parlare con lei dell'ultimo gioco della Chip”, cominciò Steve, mostrando il cd-rom di Diana.
“Un vero successo! Ne abbiamo già vendute migliaia di copie!”, rispose, sedendosi e facendo segno ai due di fare altrettanto.
“Già. Il punto è che qualcuno si sta divertendo a emulare l'eroina del gioco, ricreando le situazioni pericolose che vi sono contenute e mettendo in serio pericolo i cittadini di Villas”.
“Sì, ho sentito qualcosa del genere, al telegiornale locale. La cosa, comunque, non mi riguarda affatto: io declino ogni responsabilità su quello che le menti contorte possono arrivare a inventare. Sta a voi mettere le mani su questi delinquenti”.
“E se si riuscisse a dimostrare che in qualche modo il videogioco ha innescato qualcosa, in questa mente deviata? Se in qualche modo il gioco fosse stato il catalizzatore di qualcosa già in embrione, o, peggio ancora, l'elemento scatenante di una violenza sempre sopita?”, insinuò Steve.
“Non credo che sia così semplice dimostrarlo, agente Rowling”, rispose, per nulla turbato, sorridendo malignamente.
“In ogni caso, abbiamo bisogno di sapere di quanti schermi è formato il videogioco e dobbiamo conoscere le situazioni degli schermi dal quarto in avanti. È di vitale importanza scoprirlo”.
“Non lo chieda a me: io li vendo, non li invento di sicuro”.
“Chi può saperlo?”
“Chi ha finito il gioco o chi lo ha programmato”.
“Può darci il nome del programmatore?”
“Jonathan Sheldon. In questo momento lo può trovare al primo piano, dove sta lavorando a un nuovo videogioco per bambini”.
“Grazie”. Steve e Livienne raggiunsero il primo piano, dove poterono incontrare il signor Sheldon: un uomo sulla quarantina, alto e già leggermente brizzolato. Li accolse in una stanza piena di computer, dove decine e decine di luci rosse e verdi si rincorrevano, si accendevano e si spegnevano, in una danza misteriosa e allucinante.
“Ci dica da quanti schermi è formato il videogioco di Diana”, chiese Steve, senza tanti preamboli.
“Sono sette schermi, in un crescendo di situazioni pericolose”, sorrise orgogliosamente lui.
“Fantastico!”, esclamò ironicamente Steve.
“Il quarto schermo: com'è'?”, continuò.
“Perché non provate a risolverlo? È divertente!”
“Non abbiamo tempo da perdere! Ci serve di saperlo subito”.
“È un incendio, in una scuola. L'eroina deve portare i ragazzi fuori dalla scuola in tempo”.
“Quinto schermo”, lo incitò Steve, prendendo appunti.
“Il quinto schermo è un bonus, per chi ci arriva, naturalmente. La ragazza entra in un penitenziario dove i carcerati, rinchiusi nel braccio della morte, sono riusciti a fuggire, hanno massacrato le guardie e sono ormai padroni dell'intero edificio. Ovviamente, Diana deve ucciderne il più possibile. Più ne uccide, più punti guadagna. Non c'è bisogno che lei prenda appunti”, aggiunse. Pigiò qualche tasto sulla tastiera di un computer e, subito dopo, un foglio uscì da una stampante laser.
“Ecco, tenga. È la soluzione dell'intero gioco. Il sesto schermo prevede una bomba in un grande magazzino. Diana entrerà da una porta di servizio, per non essere vista, troverà la bomba, vagando per tutti i corridoi e le varie stanze e poi la disinnescherà, salvando l'intero quartiere”.
“E il settimo schermo?”, chiese Livienne, aspettandosi ormai il peggio.
“Diana entra alla Casa Bianca e salva il presidente da un attentato. Pensi, per realizzarlo abbiamo utilizzato la vera pianta della Casa Bianca, riproducendola nei minimi dettagli”.
“Andiamo bene!”, esclamò Steve, fissando Livienne sconsolato.
“Forza, al lavoro”, continuò, uscendo e prendendo contemporaneamente in mano il telefono per chiamare Tomas.
“Siamo riusciti a scoprire cosa sta combinando quella donna: le sembrerà assurdo, ma sta seguendo gli schermi di un videogioco, di cui si crede la protagonista. La prossima mossa sarà sedare una rivolta all'interno di un carcere. Dovrete mettere tutte le vostre squadre disponibili a guardia di tutti i penitenziari della città e della zona: state attenti, sparerà a tutto e tutti! Questo le farà guadagnare più punti, capisce?”
“Capisco che è completamente pazza”.
“Già, e questo complica le cose. State molto attenti”.
 
***
 
Villas,  Domenica 6 agosto 2000, ore 03.15
 
Il telefono di Steve squillò imperiosamente, come un urlo nella notte. Steve si precipitò a rispondere.
“L'avete presa?”, chiese, vedendo che il numero sul display era quello di Tomas.
“Niente da fare, Steve: ci ha giocati. Non ha preso di mira un penitenziario, ma una bisca clandestina. Neppure noi sapevamo della sua esistenza. Ha fatto una strage”.
“Maledizione! Non capisco perché abbia cambiato tattica. Forse perché ha notato che i penitenziari erano sotto controllo. Ora andrà in un supermercato, ci metterà una bomba e poi, qualche minuto prima che esploda, la porterà fuori dal locale. Dovrete mettere delle guardie in borghese, disseminate nei supermercati, e delle telecamere a tutte le porte, comprese quelle di servizio: se non ho capito male, Diana porterà la bomba all'interno del supermercato senza mascherarsi, usando la sua solita identità, così, se riusciremo a vedere qualche sospetta, potremo riuscire a scoprire di chi si tratta. Registrate ogni persona che entra ed esce da tutti i supermercati”.
“D'accordo. Ma se cambia di nuovo idea?”
“Non so che dirvi: è tutto quello che possiamo fare”.
 
***
 
Villas, Lunedì 7 agosto 2000 ore 19.30
 
Steve e Livienne stavano pattugliando le strade intorno al supermercato "Big", quando il telefono suonò.
“Steve, vieni subito al "Maxi Market", presto! È stata vista qui!”, avvisò Tomas.
Steve voltò la macchina e raggiunse in fretta il parcheggio del supermercato. Pistola alla mano, corse verso l'entrata, con Livienne sempre alle costole.
“Livi, tu resti fuori!”, le annunciò imperioso mentre raggiungeva l'ingresso.
“Io vengo con te”.
“Non dire sciocchezze: non vedi? Stanno già evacuando l'intero palazzo”.
“Ma io voglio darti una mano”.
“Allora resta qui!”, continuò imperterrito Steve.
“Ma…”
Steve prese una mano della ragazza fra le sue.
“Livienne… tu resti qui. Non voglio sentire altro”.
Le sfiorò il viso con una carezza e, a quel tenero gesto, lei sussultò, confusa. Finalmente si convinse e rimase all'esterno.
Steve aprì la porta ed entrò. Tomas era vicino all'ascensore. Due poliziotti bloccavano le altre uscite.
“È ancora qui. Alcuni clienti dicono di averla vista”.
“Le telecamere?”
“Non risulta niente. Non sappiamo da dove sia entrata”.
“Salgo ai piani superiori. Ho finito lo schermo, ieri sera: la bomba era al secondo piano”.
“Stai attento, Steve. Quella pazza potrebbe farla scoppiare”.
“Tenete Livienne fuori di qui!”, esclamò, iniziando a salire le scale. Giunse al secondo piano e scivolò lentamente nel corridoio, controllando fra le varie file di scaffali. Tutto era silenzioso. All'improvviso udì aprirsi una porta. Sbirciò al di fuori: era lei.
“Ferma dove sei!”, esclamò, uscendo dal nascondiglio e puntando la pistola contro la donna.
Con un balzo fulmineo, la ragazza saltò su una scatola, poi al di là della scansia. Steve sparò, ma non riuscì a colpirla. Un boato spaventoso squarciò all'improvviso la parete. Steve si gettò a terra, mentre calcinacci e scatolette gli piovevano addosso, ferendolo e frastornandolo. Si rialzò, scrutando fra la polvere che gli annebbiava la vista, e riuscì appena a vedere che la ragazza stava uscendo da una finestra. Si precipitò a vedere dove stava andando ma, quando guardò giù, sui tetti delle case accanto al supermercato, lei era scomparsa.
Tomas lo raggiunse.
“Stai bene?”
“Sì. L'ho vista. Ho cercato di spararle, ma è fuggita. Poi la bomba è esplosa e lei si è dileguata dalla finestra”.
“Maledizione! Non la beccheremo mai, se continuiamo così! Qual è il prossimo schermo?”
“Attentato al presidente degli Stati Uniti”, disse mestamente Steve, sospirando.
“Stai scherzando?”
“Niente affatto”.
“Non è possibile! Dobbiamo avvertire immediatamente la Casa Bianca! Craig, presto! Telefona a Wonder e spiegagli il problema”.
“Subito capo!”, ubbidì.
“Aspetta! C'è un'altra possibilità”, ipotizzò Steve, rivolto a Tomas.
“E quale sarebbe?”
“Diana non è riuscita a portare via la bomba. Non capisci? Non ha finito il sesto schermo! Lo dovrà rifare!”
“Vuoi dire che metterà un'altra bomba in un altro supermercato?”
“Penso proprio di sì. Ora però voglio vedere le registrazioni di quest'oggi: se è entrata senza maschera, dovremmo riuscire a capire di chi si tratta. Scommetto che è passata tranquillamente dalla porta principale, portando qui la bomba per sistemarla. Poi, probabilmente, è entrata in un bagno e si è cambiata, indossando la maschera e la tuta da Superwoman. Inoltre, dev'essere per forza salita qui, al secondo piano. Ci sono delle telecamere anche qui, non è vero?”
“Sì, certo”.
“Bene. Allora la rosa si stringe”.
In quel momento, Livienne raggiunse Steve, accompagnata da un poliziotto.
“Steve! Ho sentito l'esplosione. Grazie al Cielo stai bene”, disse, abbracciandolo di slancio.
“Sei ferito?”, chiese, vedendo che Steve era un tantino ammaccato.
“Nulla di grave. Seguimi: mi devi dare una mano”.
Steve fece scorrere le varie registrazioni, aiutato da Livienne, Tomas e alcuni altri agenti.
“Ecco! Guardate qui! Una ragazza mora, occhi leggermente a mandorla. È lei!”, confermò Steve, convinto. Inserì l’immagine della ragazza nel computer e si collegò allo schedario dell'FBI.
“Niente da fare: nello schedario non c'è. Dev'essere incensurata”.
“Hai detto che ha delle origini asiatiche. Magari ha dei parenti all'estero. Potrebbe avere un passaporto”, propose Livienne.
“Già”. Steve cercò fra le foto dei passaporti e finalmente la trovò.
“Eccola qui! Susy Windam. Quinta Avenue, 1237. Vieni Livi”, la chiamò, uscendo dalla stanza.
Steve, Livienne e Tomas si recarono immediatamente all'indirizzo della donna, ma la portinaia dello stabile disse loro che la ragazza non si faceva vedere ormai da una settimana.
“Vorremmo vedere ugualmente il suo appartamento, per cortesia”. Steve sperava di trovare qualche indizio che lo aiutasse a capire meglio la personalità della ragazza e, magari, qualcosa che potesse far capire dove si era trasferita.
“Certo, venite”. La donna aprì loro con la propria chiave. L'appartamento era nel caos più totale: alcuni cassetti erano aperti e degli abiti era stati tagliati e cuciti insieme, probabilmente per ricavare la tuta che Susy indossava ora. Il computer era acceso, sul video ancora l'immagine di Diana, nell'ultima scena del videogioco.
“Susy ha finito il gioco sul computer e l'ha cominciato in città”, comprese Steve.
“Terremo d'occhio i supermercati: questa volta la prenderemo. Ora sappiamo chi è”, lo rassicurò Livienne.
“In ogni caso, il presidente è già avvertito e ha lasciato la casa bianca in assoluto segreto. Un suo sosia lo sta sostituendo da più di un'ora”, disse Tomas.
“Perfetto”.
Steve tolse dal computer il dischetto di Diana Superwoman, lo infilò nella sua custodia e mise tutto in una busta.
“Questo lo voglio far controllare all'FBI”, disse.
 
***
 
Villas, Martedì 8 agosto 2000 ore 12.35
 
“Sospetta identificata all'ingresso del discount "Gibson"”. La voce che aveva parlato era quella di Tomas. Steve e Livienne si recarono subito al supermercato. Proprio in quel momento, due poliziotti stavano accompagnando fuori Susy, tenendola sotto tiro. Uno di loro reggeva l'ordigno che la ragazza stava portando nel locale, nascosto nella borsetta.
“Così siamo riusciti a prenderla, finalmente!”, esclamò Steve sorridendo, ora più sereno.
“Già”, disse Tomas, tirando un sospiro di sollievo”. Grazie a te”, continuò. “Che farete adesso?, domandò, rivolto a Steve e Livienne.
“Penso che io e Livienne ce ne torneremo a Filadelfia”.
“Arrivederci e grazie ancora”. Il capo della polizia tese la mano a Steve, che gliela strinse, poi salutò anche Livienne.
“È stato bello lavorare con te. Sei un tipo in gamba”, gli disse Steve.
 
***
 
Filadelfia, Mercoledì 9 agosto 2000 ore 10.15
 
Donald entrò nell'ufficio di Steve, che stava stendendo il rapporto sull'ultimo caso.
“Che succede?”, chiese Steve, voltandosi verso il suo capo.
“Avevi ragione tu: Susy soffriva di psicosi paranoide. Ho i risultati dei test e delle visite che le hanno fatto. Ma non è tutto: ho ricevuto notizie riguardanti il dischetto di Diana Superwoman. Pare che l'operatore che doveva controllarlo, qui, all’FBI, sia improvvisamente impazzito dopo aver finito il primo schermo: non riuscivano a staccarlo dal video!”
“Quindi la causa di tutto è stata veramente il dischetto?”
“Già. Per sicurezza, stiamo diffondendo dei comunicati sulla pericolosità del gioco e abbiamo già costretto Raf Kendal a ritirarlo dal mercato e a rimborsare chi gli restituirà i dischetti”.
“Ben fatto. Ma mi domando cosa può aver reso pericoloso quel dischetto, e solo quello, visto che finora non ci sono stati altri casi”.
“Non lo sappiamo. Il cd-rom è ancora in laboratorio. Lo stanno studiando”.
Steve annuì, pensoso, e Donald uscì dall'ufficio. L'attenzione di Steve cadde sul video del computer, acceso quindici ore al giorno.
"Quanti impulsi riceviamo dalla tivù, dal computer e dai videogiochi? Quante immagini assimiliamo senza neppure rendercene conto? Quanti pericoli si celano fra i sorrisi innocenti della pubblicità e le frasi dei messaggi che leggiamo ogni giorno?", si chiese.
Con questi pensieri in testa, si alzò, allungò una mano e spense il computer.
 




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