«Ah».
Cathleen si bloccò di fronte alla porta che le aveva appena
indicato Freddie, con una smorfia sul viso.
«Se desidera una stanza in particolare...»,
iniziò a dire il domestico, ma il paramedico scosse il capo
con finta noncuranza e lo ringraziò prima di entrare.
Sentì Artù seguirla all’interno e per
spiegargli che cosa le era preso dovette raccogliere tutto il coraggio
che le era rimasto dopo il racconto sull’incidente di sua
madre.
Fece un mezzo giro su se stessa con le braccia aperte e si
fermò solo quando fu di fronte all’ex re di
Camelot; allora mimò un piccolo inchino, piegando appena le
ginocchia verso terra, ed esclamò: «Benvenuto
nella mia cameretta».
Lui si guardò intorno per una manciata di secondi,
soffermandosi sulle bambole di porcellana in posa sulle mensole, sulle
grandi vetrate che davano sulla piscina, sul dresser principesco e poi
sulla grossa custodia di velluto blu posata accanto a due grossi armadi
e un paravento. Quando finalmente tornò a concentrarsi su di
lei, Cathleen rabbrividì per
l’intensità con cui i suoi occhi blu la fissarono:
ogni volta era come se il mare stesso le entrasse dentro, agitandosi e
riportando in superficie emozioni che pensava di aver dimenticato.
«In questa stanza c’è così
poco della Cathleen che conosco... Da bambina dovevi essere
un’altra persona, prima che, insomma...».
«Oh no», lo interruppe, aiutandolo ad uscire
dall’intricato groviglio in cui si era infilato.
«Non sono cambiata a causa della morte di mia madre. Da
bambina facevo quello che mi veniva detto di fare, reprimevo la vera me
per non deludere papà. Crescendo, semplicemente, ho capito
che non potevo continuare a fingere di essere quella che non ero: ho
deciso di vivere la mia vita come volevo, ignorando ciò che
era già stato deciso per me e prendendomi la
responsabilità delle mie scelte».
Artù annuì con un sorriso mesto sul viso, come se
sapesse fin troppo bene quello che aveva passato prima di fare
ciò che le diceva il cuore – di essere un
po’ di più figlia di sua madre – ma non
fece in tempo a dire nulla che Freddie richiamò la loro
attenzione, come se fosse di fretta.
«Signor Pendragon, posso mostrarle la sua stanza?».
Artù la guardò chiedendole cosa fare e Cathleen
rispose: «Sì, certo, andiamo».
Per il paramedico in realtà fu un sollievo chiudersi fuori
da quella stanza ricca di ricordi, quella stanza che l’aveva
vista crescere e cambiare, ridere e piangere, amare e odiare. I muri
erano stati ridipinti, i poster tolti, le bambole sostituite... Era
come se quella camera fosse stata riportata all’origine, a
quando lei era una bambina; la sua adolescenza era stata cancellata,
come se lei fosse scappata con Zach a quindici anni –
l’età in cui era iniziata la sua ribellione
– e non a diciannove.
Non capiva perché Freddie aveva voluto prepararle proprio
quella stanza. Pensava davvero che ci avrebbe passato la notte? Forse
stava perdendo il tocco, se non addirittura qualche rotella.
«Eccoci, questa è la sua stanza»,
annunciò il maggiordomo una volta raggiunta la fine del
corridoio, voltandosi verso la porta alla sua sinistra. Cathleen sapeva
che quella sarebbe stata la camera di Artù ancor prima che
Freddie togliesse ogni dubbio, dato che quella di fronte apparteneva ad
Ash. Il fatto che fossero dirimpettai la fece sorridere in silenzio.
Entrarono in quella che era solo una delle varie stanze degli ospiti
disseminate per tutta la residenza, fatte con lo stesso stampino: una
zona notte con letto kingsize, un piccolo soggiorno con un paio di
poltrone e un tavolino e infine il bagno, grande il triplo di quello
del suo appartamento.
Il domestico spiegò sbrigativamente ad Artù che
se aveva bisogno di qualcosa lui era a sua completa disposizione e si
dileguò. Cathleen gli diede un poco di vantaggio, poi si
scusò con il sovrano e gli corse dietro.
«Freddie!», lo chiamò a pieni polmoni.
Questo si fermò ed irrigidì le spalle, per poi
rilassarle subito dopo e voltarsi con il solito volto inespressivo.
«Sì, signorina?».
«Dov’è che vai così di
fretta?», gli domandò.
Incredibile ma vero, a quella domanda il viso del domestico perse un
po’ della sua compostezza e i suoi occhi furono attraversati
da un lampo di insicurezza.
«Sputa il rospo, Freddie», lo esortò la
rossa, incrociando le braccia al petto.
Il maggiordomo non poté far altro che confessare:
«Sto andando da suo padre, signorina. È ora che
prenda le medicine».
Cathleen incassò il colpo senza fare una piega, nonostante
avesse sentito una crepa aprirsi nel suo petto. Quindi annuì
con determinazione, esclamando: «Ti accompagno».
«È sicura, signorina?».
«Via il dente, via il dolore», rispose scrollando
le spalle, ma la verità non poteva essere più
diversa: temeva il momento in cui avrebbe incrociato lo sguardo severo
di suo padre, temeva di non reggere alla pressione, e avrebbe voluto
Artù al suo fianco, proprio come aveva avuto Zach quando
aveva deciso finalmente di scappare dalla gabbia dorata in cui
l’aveva rinchiusa. Purtroppo però non sarebbe
accaduto: era una cosa che doveva fare da sola, una volta per tutte.
Dopo un profondo respiro, disse: «Vado ad avvisare
Artù. Tu aspettami qui».
Freddie annuì e Cathleen tornò nella stanza degli
ospiti che era stata preparata per il re di Camelot.
«È tutto okay?», fu la prima cosa che le
chiese quando la vide entrare con le mani nelle tasche dei pantaloni
stretti, dalla fantasia camouflage, e le spalle sollevate a nascondere
il collo, come se si aspettasse da un momento all’altro un
colpo alle spalle.
Sorrise teneramente, rendendosi conto di tutto il tempo che era passato
da quando qualcuno era riuscito a capire i suoi stati d’animo
solo guardandola, a vedere la realtà sotto la maschera che
indossava spesso e volentieri.
«Accompagno Freddie da mio padre»,
affermò, cercando però di convincere se stessa a
farlo veramente.
Artù si avvicinò e le posò le mani
sulle braccia, facendole scorrere lentamente verso le spalle. Le davano
i brividi, le sue carezze e i suoi fottuti occhi blu.
«Vuoi che venga con te?», le domandò con
un sorriso.
Le ci volle molta forza di volontà per tener fede al proprio
proposito e negare con un cenno del capo.
«Tranquillo, starò bene», lo
rassicurò, stirando un pallido sorriso che lui
ricambiò, sollevando una mano per accarezzarle la guancia.
Il pollice esitò sull’angolo della sua bocca e
Cathleen chiuse gli occhi, mormorando: «Hai intenzione di
baciarmi oppure no?».
Sentì il respiro di Artù farsi più
vicino, ma dopo qualche secondo di attesa aprì un occhio per
sbirciare: erano lì, i suoi occhi blu come il mare,
probabilmente divertiti dal suo broncio. Anche la sua bocca rideva
silenziosa quando le disse: «Non stai andando in
battaglia».
Lo vedremo,
pensò Cathleen, abbassando gli occhi proprio mentre
Artù le concedeva un bacio delicato sulla fronte,
aggiungendo: «Ci vediamo dopo».
Cathleen avrebbe voluto mostrarsi più infastidita con lui,
invece di dover trattenere una risata intrisa di gratitudine tra i
denti. Gli diede le spalle e sulla porta si voltò a
guardarlo un’ultima volta, poi accennò una
corsetta per raggiungere nuovamente Freddie.
***
Cathleen era andata via da qualche minuto e Artù aveva
giusto iniziato a prendere confidenza con la sua stanza, guardando i
quadri raffiguranti laghetti abitati da rane e ninfee e tastando il
materasso, quando ricevette un SMS da Merlino, un semplice:
“Tutto bene?”.
Artù, inconsapevolmente, accennò un sorriso: lo
stregone non poteva fare a meno di preoccuparsi per lui,
l’aveva fatto sin dal primo giorno, e lui non si sarebbe mai
sdebitato abbastanza.
Il sentimento di gratitudine che provava mentre rispondeva
però venne affiancato pian piano dall’irritazione:
non poteva continuare così per sempre, doveva fargli capire
che prima o poi avrebbe dovuto lasciarlo andare, prendersi
più cura di se stesso che di lui. Ma come?
Si lasciò cadere supino sul letto, senza vedere realmente lo
stucco in stile barocco che ornava il soffitto, col cellulare posato
sullo sterno. Si era completamente dimenticato del messaggio ora e per
un attimo si dimenticò persino dov’era, tanto che
fu Ash a riportarlo alla realtà.
«Ehi, bel manzo».
Artù corrugò la fronte e si sollevò
sui gomiti, trovando il fratellastro di Cathleen appoggiato allo
stipite della porta con una spalla e i capelli neri ancora un
po’ umidi che gli incorniciavano il viso, arrivandogli quasi
alle spalle, mentre un ciuffo gli sfiorava le sopracciglia sottili.
Quel ragazzo androgino aveva uno strano fascino, cupo ed intimidatorio.
Gli ricordava moltissimo Morgana.
«Posso entrare?», gli domandò ad un
tratto, ma non aspettò la sua risposta e lo raggiunse sul
letto, gettandosi a pancia in giù al suo fianco, talmente
vicino che per Artù, il quale non era mai stato un fan del
contatto fisico tra uomini, specialmente se sconosciuti, fu automatico
spostarsi di lato di qualche centimetro.
Ash se ne accorse e sogghignò, esclamando:
«Cos’è, ti faccio paura?».
«No», rispose.
Da quella distanza, i suoi occhi erano ancora più ipnotici.
«Bene, perché di solito non mordo. Lo faccio solo
se qualcuno mi fa arrabbiare o in un altro frangente che, dai, non sto
a spiegarti».
Il sovrano si sforzò per non imbarazzarsi a
quell’allusione e dopo essersi schiarito la gola chiese:
«Hai bisogno di qualcosa?».
«Dritto al punto, eh? Mi piace». Sorrise
incrociando ancora una volta il suo sguardo, si sollevò e si
sedette a gambe incrociate, battendo i palmi delle mani sulle ginocchia
ossute.
«Okay. Sono quasi convinto che Freddie ti abbia sistemato in
questa camera per un motivo; riesci ad immaginare quale?».
Artù ci pensò su e prima che potesse giungere ad
alcuna conclusione, Ash gli spiegò con aria annoiata:
«Devo tenerti d’occhio, ovviamente, e scoprire che
intenzioni hai con Cath. Ma perché invece non ci veniamo
incontro? Risolviamo la cosa velocemente».
Gli piaceva il modo di fare di quel ragazzo ed era contento che ci
fosse ancora qualcuno, della sua famiglia, che si preoccupasse per lei.
Ciò nonostante, non voleva dargliela vinta troppo
facilmente: che cosa ci avrebbe guadagnato lui, confessandogli tutti i
suoi sentimenti per Cathleen? Forse il suo interesse poteva diventargli
utile, se non addirittura vantaggioso.
«Va bene, ci sto», esclamò, ricambiando
il sorriso sghembo di Ash. «Ad una condizione».
Il ragazzo si imbronciò, somigliando ancora di
più ad un bambino, e Artù dovette trattenere una
risata genuina, anche se singhiozzante: anche Morgana, da piccola,
reagiva in quel modo se non veniva accontentata. Poi aveva capito che
il metodo più efficace per ottenere qualcosa era
semplicemente andare a prendersela, con le sue sole forze. Mai, mai
avrebbe immaginato che quella stessa determinazione l’avrebbe
portata un giorno a rivoltarsi contro Camelot, contro suo padre, contro
di lui.
«Allora? Vuoi dirmi o no qual è questa
condizione?», ripeté scocciato Ash.
Artù si scrollò di dosso tutti i rimpianti e si
tirò su seduto perché i loro sguardi si
intrecciassero. Con tono serio, quasi inquisitorio, esclamò:
«Voglio sapere perché Cathleen è andata
via di casa e tu sei rimasto qui».
Gli occhi di Ash si oscurarono, diventando dello stesso colore plumbeo
del cielo notturno illuminato all’improvviso da una saetta.
Artù temeva di aver osato troppo e che il ragazzo
abbandonasse lo scambio, ma non lo fece.
Irrigidendo le spalle, spiegò atono: «Quando Cath
è andata via io avevo dodici anni e come minore ero sotto la
tutela di mia madre; non poteva di certo portarmi con sé e
non penso abbia mai preso in considerazione di farlo, a
quell’età. Le è dispiaciuto lasciarmi,
ne sono sicuro, ma... aveva Zachary. Voleva passare il resto della sua
vita con lui, fuori da queste mura, e costruire qualcosa di
loro».
«Lei ha detto che è stata una tua
scelta».
Ash si passò le mani sul viso, sospirando frustrato.
«Perché diamine vuoi sapere queste cose? Non ha
alcuna importanza!».
«Ne ha, per me». Ed era vero. Aveva riscontrato fin
troppe somiglianze tra la sua famiglia e quella di Cathleen ed uno dei
tanti sassolini che voleva togliersi dalle scarpe era proprio capire
che cosa fosse andato storto. E perché no, se se ne fosse
presentata l'occasione, avrebbe voluto dare una mano per fare in modo
che la famiglia Shaw non si sfaldasse come era successo ai Pendragon.
«Ascolta», aggiunse, continuando a fissare gli
occhi ora lucidi del ragazzo. «Anche io avevo una sorellastra
e nonostante l’amassi... tra noi non è andata a
finire bene. Avrei voluto fare di più per lei, starle
più vicino, capire ciò che le passava per la
testa, ma non l’ho fatto. È una delle cose che non
mi perdonerò mai».
«Non mi interessa», esclamò Ash, quasi
ringhiando. «Cathleen ha scelto di andare via, di farsi una
nuova vita con la sua anima gemella e non la biasimo per questo, anzi
la ammiro. Quando Zach è morto e lei ha perso il bambino le
ho chiesto di tornare qui, per non stare da sola, ma lei mi ha risposto
che se le volevo bene non avrei mai dovuto chiederle una cosa simile,
ma piuttosto offrirmi di raggiungerla. Io non l’ho
fatto».
Artù non se lo aspettava. Scioccato, riuscì a
pronunciare solo una parola: «Perché?».
«Perché non potevo colmare il vuoto lasciato da
Zach, semplicemente! Era anche un mio amico, sai?».
Ormai era sul punto di lasciar scorrere le lacrime, ma il suo orgoglio
impediva loro di superare la barriera delle ciglia.
«E poi, quando ho compiuto diciott’anni,
l’ho delusa di nuovo, rimanendo qui. Pensava che avrei
seguito il suo esempio, che avrei lasciato questo posto per
incominciare una nuova vita, ma la verità è che
non voglio andarmene. Perché dovrei?».
Scoppiò in una risatina isterica, aprendo le braccia ad
indicare tutto ciò che li circondava. «Qui ho
tutto quello che mi serve, senza alcuna fatica. E da quando il vecchio
è intrappolato nelle sue stanze, è tutto ancora
più facile: faccio quello che mi pare, quando mi
pare».
«Ma in questo modo è come se fossi anche tu
intrappolato qui, senza nulla di tuo nel mondo»,
ribatté Artù, irritato dal tono arrendevole di
Ash, come se non ci fosse nulla per cui valeva la pena di lottare.
Anche lui aveva avuto una vita agiata, ma aveva dovuto impegnarsi per
migliorare il regno lasciatogli da suo padre e rendersi valido agli
occhi del popolo, per diventare il re giusto e tanto amato che ora
quasi tutti reputavano una leggenda. Qualcosa di lui era rimasto nei
secoli, una specie di lascito, e non poteva credere che Ash non volesse
altrettanto.
«Non me ne frega niente!», urlò di nuovo
il ragazzo e, confermando la sua ipotesi, indicò fuori dalle
grandi finestre per spiegare: «Che senso ha cercare un posto
nella società, se poi basta un niente a distruggere tutto
quanto e a cancellarti dalla faccia della Terra?».
Di nuovo, il ricordo di Zachary gravava sulle loro spalle, specialmente
su quelle strette ed appuntite di Ash, così
fragili. Come quelle di Merlino.
Artù vi posò sopra le mani, stringendole piano ma
con decisione. «Non puoi lasciare che la vita ti passi
accanto: questo non è vivere, è esistere, e tu
meriti di più».
«Che ne sai tu di che cosa merito?», gli
domandò Ash con poca voce, senza riuscire più a
trattenersi: una lacrima gli scivolò sul viso, soffermandosi
poi sotto il suo mento.
Artù gli rivolse un sorriso sincero. «Niente.
Però vuoi bene a Cathleen e anche lei te ne vuole, e questo
mi basta per essere certo che ti meriti qualcosa di speciale. Se
Zachary fosse qui, sarebbe d’accordo con me».
Quell’ultima frase fu in grado di far reagire Ash, il cui
volto diventò paonazzo; le lacrime iniziarono a scendere
copiose, una dietro l’altra, come un fiume in piena. Alla
fine, aveva osato troppo.
«Non parlare di lui come se lo conoscessi!»,
latrò con la voce graffiata dal dolore. «Tu non
hai idea –! Vaffanculo!». Fu persino sul punto di
sollevare un pugno per colpirlo sul naso, quando ricalcolò
le possibilità di successo e saltò semplicemente
giù dal letto per correre fuori dalla sua stanza per
chiudersi a chiave dentro la propria.
Artù si alzò sbuffando, dandosi dello stupido per
aver nominato ancora una volta l’ex-fidanzato di Cathleen, e
raggiunse la porta bianca. Solo quando aveva già bussato una
dozzina di volte, realizzò che la reazione di Ash era un
tantino esagerata. Insomma... era l’ex-fidanzato di Cathleen,
non suo. Anche lui aveva perso moltissimi amici, alcuni al suo fianco
sin dall’infanzia, ma non aveva mai reagito così.
Solo per due persone aveva pianto: suo padre e il suo amore, Ginevra.
Un sospetto iniziò ad insinuarsi nella sua mente, tanto
sconvolgente che rimase col pugno sollevato in aria, a pochi centimetri
dalla porta. Ora tutte le allusioni e i commenti che aveva pensato di
fraintendere avevano acquistato un senso. Ash era gay ed era sempre
stato innamorato – lo era tutt’ora – di
Zachary. Lo amava e soffriva della sua mancanza tanto quanto la sua
sorellastra.
«Mi dispiace, io non… non lo sapevo»,
riuscì a mormorare, prima di voltarsi per tornare nella sua
stanza.
Era già dentro il rettangolo della porta, quando
sentì la serratura di quella di Ash scattare. Il ragazzo
uscì e non lo guardò fino a quando non si fu
lasciato scivolare sul pavimento del corridoio, con la schiena
addossata alla parete.
«Come avresti potuto?», gli domandò,
retorico. «Nessuno lo sa, nemmeno Cathleen».
Lanciandogli un’occhiata tagliente, inspiegabilmente ancora
più efficace a causa delle lacrime, lo minacciò:
«E non dovrà mai saperlo, intesi?».
«Hai la mia parola», rispose Artù.
Si sedette di fronte a lui, chiedendosi perché si fosse
lasciato scappare un segreto così grande con un perfetto
sconosciuto. Forse perché era più facile: non si
aveva paura di venire giudicati, di provocare delusione o vergogna.
Ash non dimostrava la sua vera età – se non aveva
fatto male i calcoli, aveva ventidue anni – e sembrava ancora
di più un ragazzino col volto arrossato e rigato dalle
lacrime e le braccia avvolte intorno alle gambe, le ginocchia strette
al petto scheletrico. Provò l’istinto di
abbracciarlo, di dirgli che tutto sarebbe passato, ma sapeva che non
l’avrebbe fatto: non era da lui e, cosa più
importante, Ash l’avrebbe preso sul serio a pugni in faccia
se solo si fosse avvicinato con quelle intenzioni.
La curiosità però l’ebbe vinta e
Artù chiese: «Com’è potuto
accadere?».
Ash parve infastidito da quella domanda, eppure rispose con calma e
precisione, quasi come se fosse una storia che aveva visto svolgersi di
fronte ai suoi occhi, da spettatore, e lui non fosse stato uno dei
protagonisti.
«Come saprai, o probabilmente no, Cathleen e Zachary si sono
conosciuti quando erano due ragazzini: lei aveva sedici anni
ed era nel pieno della sua ribellione, come ogni bravo adolescente
della sua età. Odiava suo padre e faceva di tutto per farlo
infuriare: si truccava pesantemente, indossava jeans strappati o gonne
cortissime, beveva i suoi alcolici, fumava di fronte a lui, ascoltava
sempre la musica a tutto volume, saltava spesso scuola, usciva nel
cuore della notte per andare chissà dove… Io
l’ammiravo moltissimo, mi sentivo così fortunato
ad avere una sorella così bella e forte, rispettosa solo
della propria libertà. Io la pregavo di portarmi con lei in
ogni sua spedizione alla scoperta del mondo e spesso mi accontentava.
Rubava la bicicletta di Freddie – la lasciava sempre senza
lucchetto, quasi come se volesse che la prendessimo – e Cath
mi faceva sedere sulla canna, tra le sue braccia. Mentre attraversavamo
il parco, il ponte e la cittadina, col vento tra i capelli, riuscivo a
capire perfettamente perché le piacesse tanto la
libertà. Mi sentivo leggero, felice, e non avevo mai la
sensazione di essere un peso, un fardello di cui volersi liberare, al
contrario di quando stavo in compagnia di mia madre e dei suoi
precedenti fidanzati: ero il bambino che non sarebbe dovuto nascere, un
errore di una notte, e anche se non l’ha mai detto a voce
alta sono certo che ogni tanto lo pensasse, glielo leggevo negli
occhi… Con Cath ero l’Ash vivo e amato.
«Un pomeriggio Cathleen disse a suo padre che sarebbe uscita
per andare al negozio di musica: era uscito l’ultimo CD di
una delle sue band preferite e doveva assolutamente comprarlo. Lui, che
amava solo la musica classica, le aveva proibito di uscire e aveva
rincarato la dose affermando che avrebbe chiamato il suo docente di
violoncello per una lezione extra. Lei odiava le lezioni di
violoncello, non scherzo: trovava quasi sempre il modo di saltarle.
Però lo strumento in sé non le dispiaceva, anche
se non l’ha mai ammesso. Qualche volta mi è
capitato di sentirla suonare, da sola nella sua stanza, e aveva
talento. Forse era per questo che suo padre si infuriava tanto,
perché conosceva il suo potenziale. Ad ogni modo quando non
riusciva a scappare si rifiutava di seguire gli spartiti che le
mettevano di fronte e suonava ciò che le passava per la
testa: motivi dei film, famosi pezzi rock… Lei lo faceva
ancor prima dei 2Cellos, pensa un po’».
Artù sorrise, anche se non aveva la più pallida
idea di chi o cosa Ash stesse parlando. Aveva solo intuito che la
grande custodia affusolata che aveva visto nella stanza di Cathleen
conteneva proprio quello strumento, il violoncello.
«Beh, Cath non si curava di ciò che le imponevano
e come molte altre volte le era bastato correre più veloce
della guardia del corpo che suo padre pagava profumatamente per non
farla uscire dalla Residenza. Era una vera frana, il povero Hank, ma
era anche vero che Cath ne sapeva una più del diavolo. Era
intelligente e testarda quanto suo padre, mentre da sua madre aveva
ereditato la bellezza e il desiderio di libertà, ma non
solo. Nel suo sangue c’era anche un po’ della sua
pazzia, anche se in dosi molto minori». Le labbra di Ash si
arricciarono all’improvviso in un sorriso divertito.
«Lo sai che una volta per uscire di casa si è
buttata giù da una finestra? Quella volta l’aveva
fatta grossa, disegnando baffi, occhiali o denti sporgenti a tutti i
ritratti degli antenati di suo padre, e Hank, mia madre, persino io e
Freddie, le eravamo corsi dietro per evitare che il signor Shaw le
facesse del male nel caso in cui fosse riuscito ad acchiapparla. Fino a
quel momento non l’aveva mai picchiata sul serio, ma temevamo
che un giorno potesse perdere le staffe, visto anche che le elevate
dosi di medicine che prendeva per l’agorafobia non lo
rendevano tanto lucido. Abbiamo corso per non so quanto, per i corridoi
del primo e del secondo piano... Ricordo solo che avevo la gola in
fiamme e avevo paura per la mia sorellona, perché alla fine
si è ritrovata in un vicolo cieco e suo padre
iniziò a ridere, certo che quella volta la vittoria fosse
sua. Cath si è voltata verso di noi, lentamente, e
sorridendo disse una frase che mi rimarrà sempre in testa,
tanto ero eccitato e allo stesso tempo terrorizzato. Disse:
“Voi potrete rinchiudere anche il mio corpo tra queste mura,
ma non avrete mai la mia anima”. Dopodiché
aprì la finestra alle sue spalle, scavalcò
rapidamente la ringhiera e si buttò di sotto».
Artù sgranò gli occhi, incredulo. «Si
è fatta tanto male?», gli chiese poi, smanioso che
continuasse subito con il racconto.
Ash sorrise, come se si fosse aspettato quella domanda e si fosse
preparato in anticipo la risposta perfetta. «Nemmeno un
graffio», esclamò, entusiasmato dal colpo di
scena. «Vedi, mentre correvamo eravamo così
concentrati a non perdere di vista Cathleen che non avevamo badato al
senso dell’orientamento. Quando l’abbiamo vista
tuffarsi nel vuoto abbiamo gridato tutti quanti, disperati che alla
fine la pazzia della madre l’avesse contagiata del tutto.
Avevamo fatto così tanto frastuono che non avevamo nemmeno
sentito lo
splash».
Rise, con la nuca posata sul muro e la gola candida esposta, per poi
gettare uno sguardo verso la finestra. «Cathleen era
perfettamente consapevole invece che sotto di lei ci fosse la piscina e
ha solo voluto farci spaventare, oltre che mettersi in mostra.
«Quando sono corso alla finestra, l’ho vista
nuotare verso la sponda più lontana, coi vestiti fradici e i
capelli incollati al viso, e quando mi ha fatto l’occhiolino
mi sono sentito sia orgoglioso che invidioso di lei, perché
sapevo che io non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Poi mia madre
le ha tirato dietro una ciabatta e tutta la poesia svanì,
proprio come Cathleen. Tornò all’alba e ovviamente
non disse a nessuno dove fosse andata, anche se io lo sapevo fin troppo
bene: era stata con Zach».
Artù non voleva risultare scortese o troppo impaziente, ma
non riuscì proprio a tenere a freno la lingua: «A
proposito di Zach, mi stavi raccontando come si sono
conosciuti».
«Già», mugugnò Ash, tornando
a stringersi le gambe al petto. «Dov’ero
arrivato?».
«Al punto in cui voleva andare a comprare il CD e suo padre
gliel’aveva proibito».
«Ah, sì. Come al solito, Cath è
riuscita ad uscire di casa e io l’ho raggiunta al ponte dopo
un po’, dicendo a mia madre che andavo a giocare in giardino.
Siamo andati al negozio di musica e quando abbiamo chiesto il CD al
commesso, ci disse che aveva ricevuto solo un paio di copie e le aveva
già vendute tutte, l’ultima proprio pochi minuti
prima, al ragazzo che avevamo incrociato sulla porta e che ora mostrava
il proprio trofeo ai suoi amici, in sella ai loro motorini.
L’espressione sul volto di Cathleen mi spezzò il
cuore e per una volta nella mia vita volli essere tanto coraggioso e
pazzo quanto lei: senza farmi vedere da lei sgattaiolai fuori dal
negozio e raggiunsi il gruppetto di ragazzi. Mentre spiegavo quello che
volevo, sforzandomi di non balbettare, loro mi guardavano con un misto
di repulsione e pena, ridendomi in faccia. Tutti tranne uno, il ragazzo
che aveva acquistato l’ultima copia del CD: Zachary. Non so
se a nove anni sapevo già di essere gay, ma ricordo
perfettamente quello che pensai quando si inginocchiò di
fronte a me, in modo che i nostri sguardi fossero alla stessa altezza;
pensai che fosse il ragazzo più bello del mondo, con quei
suoi occhi blu elettrico e i capelli a spazzola con un ciuffo
più lungo color rosso fuoco».
«Non era verde?», gli domandò
Artù, interrompendo la sua descrizione.
Ash lo guardò aggrottando le sopracciglia, forse chiedendosi
dove potesse aver visto una foto di Zachary. Quando ci
arrivò, rispose semplicemente: «Si è
tinto quel ciuffo di quasi ogni colore, dipendeva dal momento. Quando
è morto il verde si stava già scolorendo: aveva
deciso di non tingersi più, di fare la persona seria per suo
figlio».
Artù ricordava che Cathleen gli aveva detto più o
meno la stessa cosa, al cimitero: entrambi avevano deciso di smetterla
coi pericoli, di sposarsi e vivere tranquillamente, come la
più ordinaria delle famiglie.
«Comunque sia», riprese Ash, schiarendosi la gola.
«Per me Zach aveva l’aspetto di un angelo caduto,
con quel suo sorriso dolce che poteva trasformarsi in un sogghigno
beffardo quando meno te l’aspettavi. In ginocchio di fronte a
me, aveva appena aperto la bocca per parlare, con un occhio chiuso come
se con l’altro mi stesse mettendo meglio a fuoco, quando
Cathleen mi afferrò per le spalle e mi tirò
indietro, scusandosi coi ragazzi. Iniziò a trascinarmi verso
l’altro lato della strada, col capo chino e le labbra strette
tra loro, e io non riuscivo a credere che la mia sorellona fosse capace
di sentirsi in imbarazzo. Esterrefatto com’ero, non mi ero
nemmeno accorto che Zachary ci aveva inseguito, scatenando le risate di
tutti i suoi amici. Si piazzò di fronte a noi e finalmente
potei sentire la sua voce, roca come quella di un fumatore incallito e
allo stesso tempo carezzevole, avvolgente…».
«Ci siamo
già visti da qualche parte?».
Cathleen si
fermò di colpo per non andare a sbattere contro il petto del
ragazzo, più alto di lei di una spanna, e Ash dovette fare
di conseguenza, trovandosi stretto tra loro, come un hamburger in mezzo
a due fette di pane.
«Hai
un’aria familiare…», aggiunse il
ragazzo, stringendo un occhio come aveva fatto poco prima con Ash.
«Frequentiamo la stessa scuola?».
Cathleen
intercettò per un attimo il suo sguardo, dandogli la
conferma che voleva.
Sorridendo, il ragazzo
le porse una mano. «Io sono Zachary. Zach per gli
amici».
Vedendo la sorella
esitare, Ash decise ancora una volta di agire per conto suo ed
esclamò con tono orgoglioso: «Lei si chiama
Cathleen».
Subito le dita della
ragazza si artigliarono sulle sue fragili spalle, facendogli male, e
Ash capì di aver commesso un errore non appena si rese conto
della reazione di Zach, il quale arricciò il naso in una
smorfia di disprezzo e ritirò la mano, chiedendo:
«Quella Cathleen? La figlia di Shaw? Lo sai che il mese
scorso, e quello prima ancora, stavamo quasi per essere sfrattati per
colpa sua? Qualcuno deve spiegargli che alla gente normale i soldi non
escono dal culo».
Si voltò un
attimo per guardare verso la collina su cui si ergeva il maniero e
quando tornò a guardare verso di loro, la rossa era
finalmente pronta ad affrontarlo, nonostante le sue guance si fossero
abbinate ai capelli.
«Sì,
abito lassù», rispose. «Ma non
c’è niente che mi accomuni a mio padre. Se vuoi la
verità, lo odio quanto tutti voi».
Zachary la
fissò con gli occhi sgranati per la sorpresa, ma non fu del
tutto convinto della sua confessione. Si allontanò di un
passo e senza degnarla più di uno sguardo si
inginocchiò di nuovo di fronte ad Ash. Tirò fuori
il CD dalla borsetta a tracolla e glielo sventolò sotto al
naso.
«Sei stato
molto coraggioso a venire da me da solo per questo. Devi volerle molto
bene, uh?».
Ash sorrise a trentadue
denti ed annuì, portando le mani su quelle di Cathleen.
«La mia sorellona è la migliore.
È… speciale».
«Ah
sì?», le gettò una rapida occhiata di
sottecchi e si alzò, scompigliando i capelli al bambino.
Sorridendo, aggiunse: «Staremo a vedere».
Quindi si allontanò a grandi falcate, tornando verso la sua
compagnia.
«Ehi!»,
gli gridò dietro Cathleen, preoccupata. «E questo
cosa vorrebbe dire?».
Ma Zachary non rispose;
si limitò a saltare sul suo motorino truccato e a sparire
dietro l’angolo, lanciando loro un’ultima occhiata
ridente.
«Cathleen mi raccontò che il lunedì
successivo, a scuola, non poté evitare di incrociare lo
sguardo di Zach. Sembrava quasi che la stesse aspettando, seduto sulle
gradinate all’ingresso. Le diede il CD, dicendole soltanto
che lo rivoleva indietro non appena avesse finito di ascoltarlo.
Cathleen pensava che avrebbe dovuto restituirglielo a scuola, ma
all’interno della custodia trovò un biglietto con
un indirizzo. L’aveva invitata a casa sua.
«Io so solo quello che lei mi raccontava, perciò
non so dirti se successe dell’altro quella sera. Cathleen
uscì poco dopo cena, passando attraverso gli alloggi dei
domestici, e andò all’indirizzo segnato sul
foglietto. Si trattava di una piccola casa in mattoni, subito prima del
ponte che segnava l’inizio e la fine delle
proprietà della famiglia Shaw. Cathleen si
affacciò ad una delle finestre sulla facciata e vide Zach e
sua madre seduti a tavola, intenti a cenare. Stavano guardando un quiz
in TV e ridevano. È una cosa che Cathleen continuava a
ripetermi, quando me l’ha raccontato. Ridevano. Ridevano
anche se ogni mese rischiavano lo sfratto, anche se i piatti che
avevano davanti erano sbeccati, anche se il segnale della televisione
era disturbato. Ridevano ed erano felici perché erano
insieme, ed era l’unica cosa che contava. Qui avevamo tutto,
ma non eravamo mai stati così felici. Cathleen mi disse che
l’ultima volta che aveva visto suo padre ridere era stato
ancor prima che sua mamma morisse.
«Ad ogni modo lei non trovò la forza per bussare
alla porta e fu Zachary ad andare da lei. Quando uscì per
fumarsi una sigaretta, la trovò seduta sotto la finestra,
con il viso nascosto tra le braccia, e le porse semplicemente una mano.
Cathleen fece per restituirgli il CD, ma Zach la fece alzare e la
condusse all’interno della casa, dove conobbe sua madre, una
persona squisita. Era rimasta incinta da ragazza e il padre di Zach non
aveva voluto saperne, li aveva abbandonati al loro destino. La donna
non fu sorpresa di vedere Cathleen e la invitò ad unirsi a
loro per il dolce. Lei provò a rifiutare – si
sentiva estremamente a disagio – ma alla fine si
ritrovò seduta accanto a Zach, davanti ad una fetta della
torta di mele più buona che avesse mai assaggiato.
Passò una delle serate più felici e spensierate
della sua vita e quando fu l’ora dei saluti avrebbe voluto
chiedere se poteva tornare, ma non lo fece, certa che Zach non si
sarebbe mai interessato ad una come lei. Ovviamente si sbagliava, ma ci
volle del tempo prima che se ne rendesse conto.
«Da quel giorno Cathleen cambiò: celò
tutto il rancore che provava per suo padre, facendo buon viso a cattivo
gioco. Si interessò alle proprietà, portandolo a
credere che fosse rinsavita all’improvviso e volesse
dimostrarsi una degna erede del suo piccolo impero. In
realtà tutto ciò che le interessava era rendere
migliore la vita di tutte le persone che vivevano nelle loro case,
quella di Zach in primis. Riuscì a convincere suo padre a
farle fare una specie di stage dal contabile che gestiva i loro
contratti e più di una volta finse di aver ricevuto
l'autorizzazione per far apportare alcune modifiche alle case:
sistemò le antenne, gli impianti di riscaldamento,
truccò anche le scadenze dei pagamenti. Mantenere quella
facciata di brava figlia di papà le costava
un’immensa fatica: faceva tutto quello che lui le imponeva
– andava regolarmente a scuola, si vestiva in modo sobrio e
non si truccava… era persino tornata a suonare il
violoncello! – e non lo contraddiceva mai, nemmeno quando la
scambiava per Helena.
«I suoi sforzi però la ripagarono,
perché Roger le permise di mettere di nuovo mano sul suo
conto bancario, quello destinato al suo futuro, e soprattutto la
riavvicinarono a Zachary. All’inizio non fu facile: lui si
arrabbiò moltissimo, sosteneva che non l’aveva
invitata a casa sua per farle compassione e non voleva essere in debito
con lei. Cath, quella tonta, non capiva il vero motivo per cui
l’aveva fatto e non glielo chiese, rispondendogli a tono che
era intervenuta solo perché era la cosa giusta da fare, e
aveva atteso anche troppo. Comunque Zach si intestardì e fu
così che le chiese di uscire per la prima volta. Non fu
nulla di che: le offrì un panino e una birra, ma quando
tornò a casa Cathleen aveva il sorriso più bello
e felice del mondo».
Ash si fermò, gli occhi fissi su un punto indefinito sulla
parete, poco sopra la testa di Artù. I ricordi
però continuavano a scorrere dietro i suoi occhi malinconici
e il sovrano avrebbe voluto conoscerli tutti, ma sapeva che se lo
avesse forzato avrebbe ottenuto l’effetto contrario.
Il moro si portò all’improvviso le mani sul volto,
forse per impedirgli di vedere le lacrime che gli avevano inumidito gli
occhi.
«Non so come sia successo», mugugnò da
dietro la barriera delle dita. «Non c’era coppia
più perfetta di loro, erano l’uno la
metà dell’altro… E c’erano
dei giorni in cui io li odiavo, perché…
perché era grazie a me che si erano conosciuti e anche io
meritavo qualcosa di così speciale. Ma tutto ciò
che ottenni fu un fratello maggiore che non volevo ma di cui avevo un
disperato bisogno. Potevo sopportare che mi trattasse come se fossi
sangue del suo sangue, che baciasse Cathleen di fronte ai miei occhi,
ma non potevo assolutamente allontanarlo da me, anche se, col senno di
poi, mi sarei evitato altro male. Allora non capivo ancora quanto e
soprattutto in che modo tenessi a Zach, ma di una cosa sono certo:
quando la diciottenne Cathleen mi confidò che tramite un
legale era riuscita a trasferire in un conto a suo nome, assolutamente
intoccabile per suo padre, abbastanza soldi per potersene andare ed
iniziare una vita con Zachary, io… io diedi di matto.
Chiamai immediatamente Zach e gli chiesi se poteva raggiungermi ai
frangiflutti. Lui e Cath si erano appena messi insieme quando mi
portò lì per la prima volta, a pescare granchi.
Avevo nove anni». Ash si tolse le mani dal viso su cui
aleggiava un sorriso umido quanto i suoi occhi. «Eppure me lo
ricordo come fosse ieri. Due anni più tardi, in quello
stesso posto, capii che cosa voleva dire amare una persona. Quello che
provavo per Zachary era un amore puro, ingenuo… nulla a che
vedere con la sessualità. L’unica cosa che sapevo
perfettamente era che non potevo stare senza di lui, proprio come non
potevo stare senza Cathleen. Era il mio migliore amico, il padre che
non avevo mai avuto, e qualche anno dopo divenne anche
l’ossessione della mia pubertà.
«Alla nostra spiaggia, Zachary mi promise che ci saremmo
visti ancora, che quando sarebbero passati a salutare sua madre
sarebbero passati anche da me. Mantenne la sua promessa – lo
faceva sempre – e ogni volta per me era come morire e
rinascere contemporaneamente, ma in qualche modo riuscii a nascondere a
tutti il mio amore per lui, almeno fino al giorno del mio quindicesimo
compleanno. Quella sera stavo peggio del solito e nonostante sapessi
che Cathleen aveva organizzato qualcosa per festeggiare, mi nascosi ai
frangiflutti, dove solo Zachary sarebbe venuto a cercarmi».
Ash sentì il
rombo di una moto avvicinarsi e sollevò gli occhi verso la
strada, dove scorse la figura esile e snella di Zachary scendere dalla
sella e togliersi il casco. Come aveva immaginato, era solo.
Scivolò sulla
sponda di sabbia ed erba secca e lo raggiunse spolverandosi i jeans
strappati. Quando fu ad un passo da lui, in bilico sui frangiflutti, lo
prese per i capelli e tirandogli indietro il capo esclamò a
denti stretti: «Dammi un valido motivo per cui non dovrei
prenderti a calci in culo. Conterò fino a tre:
uno…».
Ricacciando indietro le
lacrime per il dolore dovuto alla stretta vigorosa di Zachary, Ash
rispose con voce atona: «Non c’è nulla
da festeggiare».
Il ragazzo strinse un
occhio, inquadrandolo meglio nel proprio mirino.
«Due…».
«La mia vita
fa schifo, vorrei non essere mai nato!».
«Tr-».
«E amo una
persona che non potrò mai avere!», urlò
interrompendo l’implacabile conteggio di Zachary.
Urlò così forte che persino le onde parvero
ritirarsi.
L’espressione
ferita negli occhi di Ash colpì così tanto il
motociclista che allentò la presa sui suoi capelli, una
mossa che permise al ragazzino di alzarsi e spintonarlo via da
sé, tanto bruscamente da fargli quasi perdere
l’equilibrio sulle rocce. All’ultimo momento
però Ash gli afferrò la mano e lo
salvò da un bel bagno, mentre le sue guance si infiammavano
per l’imbarazzo. Cercò di interrompere nel
più breve tempo possibile quel contatto, ma non ci
riuscì: Zachary tenne stretta la sua mano e con
l’altra gli prese il mento e lo costrinse a sollevare gli
occhi nei suoi.
«Io amo tua
sorella, Ash».
Quelle parole e tutti i
loro sottintesi crollarono sulle esili spalle del ragazzino con tanta
forza che temette di rimanerne schiacciato, come Atlante sotto il peso
del mondo.
Non appena
trovò il coraggio per aprire bocca, mormorò:
«Tu lo sapevi».
«Ma certo che
lo sapevo», replicò Zachary, sorridendo
teneramente. «Non sono stupido, sai?».
«Da…
da quanto?».
«Abbastanza
per assicurarti che io non sarò di certo l’ultima
persona di cui ti innamorerai».
Ash gli rivolse uno
sguardo carico d’astio. «Come fai a dirlo? Cathleen
non ha mai amato nessun altro al di fuori di te».
«Proprio per
questo posso dirtelo per certo: io e lei ci apparteniamo l’un
l’altro, siamo destinati a stare insieme, e nel mondo
c’è qualcuno che è destinato a stare
con te».
«Cazzate»,
sputò, scrollando il capo per liberarsi della sua stretta.
«È
così, Ash, te lo posso assicurare. Noi siamo stati fortunati
a trovarci».
«Cazzate!»,
ripeté rabbiosamente. «Non troverò mai
una persona migliore di te, non la voglio!».
Nonostante gli desse le
spalle, Ash riuscì ad immaginarsi il ragazzo stringersi
nelle spalle ed abbassare il capo, senza sapere più che cosa
dire per uscire da quella situazione. Alla fine qualcosa disse, la cosa
peggiore: «Mi dispiace».
Ash si voltò
di scatto e come una belva si avventò contro di lui, con una
forza e una determinazione che rese praticamente inutile ogni tentativo
di difesa da parte di Zachary. Caddero sulla passerella di cemento e
rotolarono per un bel pezzo, graffiandosi e lasciandosi lividi su ogni
parte del corpo. In tutto ciò, Ash gridava: «Non
dire che ti dispiace! Non compatirmi! Perché sei sempre
così giusto? Fottiti! Ti odio!».
Quando Ash ne ebbe
abbastanza, sfinito e col viso rigato di lacrime, cadde sdraiato
accanto a Zachary.
«Non
è vero che ti odio», sussurrò guardando
il cielo punteggiato di stelle.
«Lo
so», rispose Zach. «Va meglio, ora?».
Ash lo guardò
negli occhi e si rese conto che sì, stava davvero meglio,
anche se sapeva che presto o tardi il dolore che tanto conosceva
sarebbe tornato a tormentarlo. Ciò nonostante
abbozzò un sorriso ed annuì.
«Bene. Allora
andiamo, tua sorella sarà preoccupata a morte».
Si sollevò e
gli porse la mano, che Ash prontamente afferrò per tirarsi
su.
Diretti verso la moto di Zach, il ragazzino gli fece promettere che
non avrebbe detto nulla di quello che era successo a Cathleen.
Zachary
promise.
Artù rimase in silenzio, chiedendosi come certe persone
potessero convivere con segreti del genere per mesi, addirittura anni.
Persone come Ash, persone come Merlino: tanto fragili se visti
dall'esterno eppure tanto forti dento.
Provava pena per lui, avrebbe voluto aiutarlo, ma allo stesso tempo
sapeva fin troppo bene che dolori come quelli erano incancellabili.
«Qualche mese dopo, Cathleen mi chiamò per dirmi
che aspettava un bambino e che lei e Zach avevano deciso di
sposarsi», riprese Ash, con la voce rotta e i pugni
strettisulle ginocchia. «Volevo morire. Lo volevo sul serio,
ma non
bastava: ci voleva anche il coraggio. Ci ho provato, eccome…
Sono rimasto per ore di fronte alla finestra, a mollo in piscina, con
le forbici fredde posate sul polso, con un barattolo delle medicine di
Roger stretto in pugno… Io, che desideravo così
ardentemente la morte, non sono mai riuscito ad andare fino in fondo.
Zachary, invece, che amava la vita, che aveva ancora così
tanto da fare…». Tirò rumorosamente su
col naso e inchiodò gli occhi lucidi nei suoi.
«Perché?».
Artù rimase in silenzio fino a quando non
realizzò che Ash lo stava fissando, quasi implorandolo,
perché desiderava una risposta. Allora sgranò gli
occhi per la sorpresa: che cosa avrebbe dovuto dirgli? Non era nemmeno
sicuro di quale fosse la domanda.
«Io non…», iniziò a
balbettare, ma Ash lo interruppe per chiarire.
«Perché la sua assenza mi fa ancora
così male? Il suo ricordo… è una
tortura».
Non erano mai state pronunciate parole più vere. Anche per
lui, a volte, il pensiero di Ginevra, di suo figlio o di qualunque
altra persona che si era lasciato alle spalle, era troppo doloroso da
sopportare. L’unica sua consolazione era che non li aveva
visti morire: non aveva dovuto piangere sulle loro tombe né
vedere il sole sorgere come se nulla fosse accaduto. Solo in quel
momento realizzò che invece sua moglie e Merlino –
soprattutto Merlino, l’ultimo ad averlo tenuto tra le braccia
– avevano dovuto convivere con l’atroce dolore
della perdita e andare avanti, per Camelot. Nel caso del mago, erano
trascorsi secoli prima che il suo cuore potesse trovare un
po’ di pace, e Artù non riusciva nemmeno ad
immaginare, di nuovo, come avesse fatto a tirare avanti fino a quel
momento.
Da giovane era stato tanto stupido da sottovalutarlo, più e
più volte, e a quanto pareva non avrebbe mai imparato la
lezione. Ad occhi chiusi, promise che una volta a casa si sarebbe fatto
perdonare.
Quando incrociò nuovamente lo sguardo di Ash, ancora puntato
su di lui, in attesa, disse l’unica cosa che valeva la pena
di essere detta: «Io le voglio bene. Non saprei dirti se mi
sto innamorando, ma di una cosa sono sicuro: non ho alcuna intenzione
di ferirla».
Ash rimase per un attimo interdetto, preso alla sprovvista da quella
risposta, poi la sua fronte si distese e riuscì persino ad
accennare un sorriso.
«Sei sicuro di quello che dici? Cathleen non ti
amerà mai come ha amato Zachary».
«Lo so». Artù scrollò le
spalle, stirando le gambe indolenzite per alzarsi dal pavimento.
«Lei mi fa stare bene e se anche lei prova lo stesso in mia
compagnia, mi basta».
Il sorriso di Ash si allargò e mentre Artù si
alzava continuò a guardarlo dal basso, fino a
quando il sovrano non gli domandò perché avesse
quell’espressione soddisfatta sul viso.
«Perché lo sono: Cath è in buone
mani».
«E tu?».
«Io?».
Artù gli porse le mani per aiutarlo a tirarsi su e
ripeté: «Sì, tu. Tu ti sei confidato
con me, perché? Come fai a sapere che non le dirò
tutto alla prima occasione?».
Ash guardò le sue mani aperte e dopo qualche attimo di
esitazione le afferrò e si diede la spinta necessaria a
mettersi sulle proprie gambe.
«È più facile confidarsi con dei
perfetti sconosciuti, non trovi? Non si temono le loro reazioni. Ad
ogni modo tu non hai la faccia di uno spione, anzi… ho il
sospetto che faresti di tutto, anche tradire i tuoi stessi principi,
per una buona causa».
Artù ripensò a tutte le volte in cui era andato
contro suo padre, il massimo esponente ed esempio da seguire in materia
di principi morali, per aiutare Ginevra, Merlino o la stessa Morgana.
Molte scelte l’avevano cacciato nei guai, ma si era sempre
addormentato con la coscienza pulita e non ne rimpiangeva nessuna. E
gli piaceva pensare – sempre più spesso,
ultimamente – che se Merlino gli avesse confidato prima di
essere uno stregone gli avrebbe coperto le spalle, aiutandolo a
mantenere il segreto tra le mura del castello e fuori.
«Ho indovinato?», gli chiese Ash, gli occhi
brillanti anche se ancora un po’ arrossati dalle lacrime.
Artù evitò di rispondere, ma il suo volto doveva
essere un libro aperto dato che il fratello di Cathleen
annuì ed aprì la porta della sua camera. Prima di
chiudersela alle spalle, tornò serio per ringraziarlo. Senza
aspettare la sua risposta, sparì dietro il legno massiccio.
Artù chinò il capo e tornò in camera
sua, dove trovò il cellulare abbandonato sul letto, col
messaggio indirizzato a Merlino scritto a metà. Lo
cancellò e lo chiamò direttamente: aveva bisogno
di sentire la sua voce e di ringraziarlo per non aver mai perso la
speranza.
***
«Posso chiederti una cosa, Freddie?».
«Ho scelta, signorina?».
Cathleen non si sarebbe mai abituata alla stranezza del sarcasmo del
maggiordomo accompagnato dalla totale inespressività del suo
viso.
«Da quanto tempo mio padre è rintanato nelle sue
stanze?», gli domandò.
Freddie sospirò e scosse leggermente il capo, come se non
fosse contento di quel quesito. Infatti non rispose e gliene pose un
altro: «Perché è tornata qui,
signorina? Perché adesso?».
«Non… Non avrei dovuto?», gli chiese
ancora, fissando il pavimento ricoperto di morbida moquette.
«Non sto insinuando questo, signorina. La mia è
semplice curiosità».
Cathleen esitò, riordinando i pensieri che
l’avevano spinta ad attuare quella folle idea: il battibecco
con Artù, la nostalgia, il senso di colpa, il desiderio di
condividere con lui quell'enorme peso.
«Si tratta del signor Pendragon, vero?».
Cathleen guardò Freddie e, scioccata, trovò un
sorriso sulle sue labbra. Aveva dimenticato come fosse,
perché i casi in cui ne mostrava uno erano estremamente
rari; ma ne aveva già visto qualcuno nel corso degli anni:
quando aveva imparato ad andare in bicicletta grazie al suo aiuto,
quando dopo ore di studio con lui aveva preso il voto massimo al
compito di matematica, oppure ad uno dei suoi compleanni, quando gli
aveva chiesto di aiutarla a soffiare sulle candeline.
Era strano e triste, ma Freddie era stato un padre migliore del suo.
Non avrebbe mai avuto la forza di dirglielo e ringraziarlo,
perciò gli strinse una mano e decise di essere onesta:
«Sì, è per Artù che sono
tornata. Volevo che vedesse dove sono cresciuta, fargli capire che i
soldi, la nobiltà… non fanno la
felicità».
Il domestico diede una pacca leggera al dorso della sua mano e
finalmente rispose alla sua domanda iniziale: «Quando ha
lasciato questa casa, il signor Shaw ha avuto un crollo nervoso e
quando si è ripreso, ha lentamente iniziato a restringere i
suoi spazi vitali. La sua agorafobia peggiorava di giorno in giorno:
diceva che non poteva controllare ciò che gli stava intorno,
se non era riuscito nemmeno a capire che cos’aveva in mente
la sua stessa figlia. Alla fine non riuscì più a
varcare la soglia della sua stanza e da qualche mese a questa parte ha
persino vietato alla signora Shaw di dormire con lui. Vive in totale
isolamento ormai, l’unico che può entrare nelle
sue camere sono io, ma solo per portargli i pasti e somministrargli le
medicine. Non vuole che tocchi nulla, perciò… non
si spaventi, se troverà un po’ di
confusione».
Cathleen deglutì, sentendo il cuore batterle furiosamente in
gola, mentre Freddie apriva la porta dopo aver bussato in codice
– l’ennesima prova del disturbo ossessivo di suo
padre.
Il maggiordomo era stato gentile, quando aveva detto che ci sarebbe
stata “un po’ di confusione”. In
realtà, la stanza era un vero disastro: l’aria
così viziata che Cathleen dovette sforzarsi per non gridare
di aprire una delle numerose finestre, tutte rigorosamente protette
dalle inferriate. Il letto era disfatto e le lenzuola stropicciate come
carta velina; sui mobili e sulle mensole la polvere era tanto alta da
nascondere il colore naturale del legno e del marmo.
In generale, tutto era grigio e spento, proprio come l’uomo
seduto sulla poltrona di fronte all’unica finestra non celata
dalle pesanti tende di velluto blu: suo padre.
Quasi non riuscì a riconoscerlo, come se la polvere avesse
ricoperto anche la sua vera essenza. Un tempo era stato un uomo forte,
ambizioso, pieno di carisma. Ora era il fantasma di se stesso, un uomo
vecchio e malato, rancoroso e sprezzante. Cathleen realizzò
tutto questo non appena si voltò verso di loro e li
squadrò con i suoi occhi scuri una volta affamati di vita e
ora straripanti di odio.
I folti capelli neri che usava portare pettinati all’indietro
ora erano candidi, radi in molti punti e scompigliati sulla testa, del
tutto trascurati. Il volto dalla pelle sottile era solcato da un
reticolo di rughe e vene bluastre e le sopracciglia importanti erano
contratte in un’espressione feroce, come le labbra, spaccate
dalla scarsa idratazione, tirate sui denti in un ringhio silenzioso.
«Ciao papà», esordì con voce
tremante, incapace di schiodarsi dalla soglia della stanza.
«Sono Cathleen, tua figlia».
I suoi occhi opachi furono in grado di passarle attraverso e dopo
attimi di straziante silenzio, sibilò: «Mia figlia
è morta».
La rossa sbarrò gli occhi, mentre un dolore sordo le
schiacciava il cuore. Aveva previsto che non la accogliesse a braccia
aperte, ma venire a sapere che la considerava morta... Questo non
l’avrebbe mai immaginato.
Freddie le rivolse uno sguardo carico di apprensione –
secondo i suoi standard – e riempì
d’acqua un bicchiere di vetro, per poi porgerlo al signor
Shaw con una manciata delle pillole più disparate. E fu
proprio quello sguardo a riscuoterla dal torpore.
Infervorata, rispose con tono fermo: «Ti sbagli,
papà. Mamma è morta, Zachary è morto.
Io sono viva e vegeta e soprattutto sono qui, nonostante avessi giurato
a me stessa che non avrei più messo piede in questa
casa».
Il signor Shaw la fissò con ancora più astio e ad
un tratto tutta la sua rabbia esplose in un gesto imprevedibile:
colpì la mano tesa del maggiordomo e il bicchierino e i
piccoli confetti bianchi rotolarono sul pavimento impolverato; quindi
si alzò dalla poltrona, le gambe tremanti che quasi non lo
sostenevano, e paonazzo in viso urlò: «Nessuno ti
ha chiesto di tornare!».
«Signor Shaw, la prego». Freddie tentò
inutilmente di calmarlo e farlo risedere, ma l’uomo lo
allontanò ancora una volta, minacciandolo col pomo dorato
del suo bastone da passeggio, fino ad allora appoggiato contro un
bracciolo della poltrona.
«Mi hai ingannato, hai agito alle mie spalle, sei scappata di
casa e non mi hai rivolto la parola per anni. Nemmeno per dirmi che
sarei diventato nonno hai avuto il fegato di chiamare!».
Fece una pausa per riprendere fiato, ma non sembrò aiutarlo
in alcun modo: i suoi respiri erano rantoli e la sua voce si spezzava
di continuo, come se non fosse più abituato a pronunciare
più di qualche parola al giorno.
Freddie ci ritentò, posando una mano sulla sua schiena
ingobbita e piegandosi un poco verso il suo volto: «Signor
Shaw, credo davvero che dovrebbe stendersi un attimo».
«Lasciaci soli», abbaiò in risposta suo
padre. «Subito, Freddie».
Il maggiordomo chinò il capo e con riluttanza
lasciò la stanza, anche se prima consegnò delle
nuove dosi di pillole a Cathleen. La ragazza osservò il
bicchierino pieno e si chiese quante portassero il suo nome sulle
ricette dei vari psicologi che avevano in cura suo padre. Non ebbe
però il motivo materiale per farsi un’idea,
perché Roger si accasciò con un gemito sulla
poltrona e riprese da dove si era interrotto.
«Dopo l’incidente in cui hai rischiato la vita, ho
pregato tuo fratello perché ti convincesse a tornare qui.
Volevo ricominciare, rimediare ai miei sbagli... volevo che la mia
famiglia fosse di nuovo felice. Tu però ti sei rifiutata e
io ho dovuto fingere che anche tu fossi morta contro quel guardrail. Se
non me ne fossi convinto... non sarei mai riuscito a sopportare il peso
dei miei fallimenti».
Cathleen finalmente si avvicinò e si chinò per
avvolgergli le braccia intorno al collo con delicatezza e massaggiargli
la schiena tremante a causa dei singhiozzi.
«Ho dovuto quasi perderti per sempre, per capire che razza di
padre sono stato», aggiunse contro la sua spalla.
«Terribile, terribile. Ho capito perché mi odi
tanto».
«Shhh». Cathleen chiuse gli occhi a loro volta
umidi di lacrime e sciolse la presa solo per inginocchiarsi al suo
cospetto, le mani strette intorno alle sue.
«L’importante è che sono qui, adesso, e
ti prometto che mi farò perdonare per tutto il tempo che ho
trascorso lontana da questa casa, lontana da te. Mi dispiace tanto,
papà».
Le labbra del signor Shaw si spaccarono ulteriormente a causa di un
sorriso, il primo dopo chissà quanti anni, e passando le
dita, scosse da lievi tremori, sulle guance di Cathleen,
iniziò a sussurrare: «La mia bambina. La mia
bellissima bambina».
Lei non lo corresse, nonostante fosse certa di aver ben poco ormai
della bambina: il suo cuore aveva amato e sofferto troppo, i suoi occhi
avevano visto troppe cose e ogni traccia di innocenza era svanita. Una
cosa tipica dei bambini però stava rinascendo nella sua
anima, una piccola fiamma accesa da Artù e che, col passare
dei giorni, stava diventando sempre più forte e alta: la
speranza.
«Forza, prendi le tue medicine e lascia che Freddie e Cecilya
si occupino di dare una ripulita a questa stanza: ne ha davvero
bisogno».
«Solo Freddie», esclamò Roger
ansiosamente.
Cathleen esitò, ma capì che non poteva pretendere
troppo da suo padre. Ci sarebbe voluto del tempo e tanta buona
volontà perché riuscisse a migliorare.
«Va bene, vorrà dire che gli darò una
mano io», rispose dolcemente, porgendogli il bicchiere
d’acqua.
Osservò suo padre inghiottire un paio di pastiglie alla
volta, quasi in maniera meccanica, e il senso di colpa la
colpì forte alla bocca dello stomaco, tanto che dovette
distogliere lo sguardo.
Suo padre aveva commesso molti sbagli, ma il
suo comportamento era stato altrettanto deplorevole. Come aveva potuto
essere tanto egoista?
Era talmente immersa nei suoi pensieri che suo padre dovette toccarle
il braccio per attirare la sua attenzione.
«Hai detto qualcosa?», gli chiese, prendendogli di
mano il bicchiere vuoto.
Il signor Shaw ripeté ciò che le aveva chiesto:
«Chi era il ragazzo che ho visto con te ai campi da
tennis?».
Cathleen ritrovò il sorriso. «Una persona molto
speciale».
***
Hala entrò nella stanza di Abby dopo aver bussato piano alla
porta. Guardando la ragazzina e sua nonna, sedute vicine e mani nelle
mani, ebbe come la sensazione di aver interrotto qualcosa ed
indietreggiò di un passo.
«Scusate, torno tra un po’».
«Hala, entra pure. Stavo giusto andando a prendere la
colazione per Abby».
La signora Chapman si alzò dal letto dopo aver posato un
bacio sulla fronte della nipote e le accarezzò un braccio
uscendo dalla camera.
Rimaste sole, Hala e Abigail si scambiarono
un’occhiata da lontano, studiando ognuna la propria mossa.
Fu la ragazzina a parlare per prima, con tono stanco: «Tu e
Baqi non avete proprio intenzione di lasciar stare Merlino,
vero?».
Hala esitò, mordendosi le labbra, ma non poteva tirarsi
indietro proprio ora che era a tanto così dallo scoprire la
verità. Negò col capo ed avvicinò una
sedia al letto di Abby, chiedendole: «Tu lo
faresti?».
«Tu non capisci, Hala. Merlino è la persona
più buona e gentile di questo mondo, forse
dell’Universo, e tutto ciò che vuole è
evitare che il suo segreto venga rivelato. Ti rendi conto di
quello che accadrebbe, se si sapesse che è
immortale?».
Per qualche secondo, paralizzata dallo shock, la pakistana non
riuscì ad aprire bocca. Quando finalmente ritrovò
il controllo di sé, l’unica cosa che disse fu:
«Allora è vero».
Il volto di Abby si infiammò come se qualcuno avesse appena
acceso una candela dentro il suo cranio –
un’inquietante zucca di Halloween umana.
«Certo che è vero», esclamò,
allungandosi per prendere dal primo cassetto del comodino il diario di
Louise. «Credi che la mia bisnonna fosse pazza?».
«Io non...».
«Se tutto ciò che c’è scritto
qui non fosse vero, allora il suo nome sarebbe segnato sulla targa
commemorativa che c’è vicino alla cappella, non
trovi?».
Di nuovo Hala provò a parlare, ma la voce di Abby la
sovrastò: sembrava un fiume in piena, incapace di
arrestarsi, e l’unica cosa che poteva fare era aspettare che
la tempesta passasse da sé.
«Io non riesco nemmeno ad immaginare che cosa abbia voluto
dire per lui vivere così a lungo, sopravvivere a tutte le
persone che amava, soffrire in silenzio senza mai potersi confidare con
qualcuno... Adesso che finalmente sembra aver trovato un equilibrio,
che sembra addirittura felice, voi volete rovinare tutto per uno
stupido scoop?». Fece una breve pausa, necessaria
solo a riprendere fiato e a rivolgerle lo sguardo più serio
e determinato che le avesse mai visto fare, poi aggiunse:
«C’è un motivo, se a Merlino
è stata donata l’immortalità; non so
quale sia, ma sono convinta che si tratti di un
ottimo motivo. E ti
giuro che non permetterò a nessuno di intromettersi nel suo
destino, fosse anche l’ultima cosa che
farò».
Hala era impressionata. Non aveva mai sentito Abby parlare
così – la sua dolce e fragile Abby –
né l’aveva mai vista così convinta
riguardo alla sua posizione. Aveva trovato un nuovo obiettivo, qualcosa
per cui lottare veramente, e fintanto che il suo cuore avesse
continuato a battere non avrebbe smesso.
Ciò nonostante, la sua risposta risultò sterile
ed
inconcludente come poche: «Ne parlerò con
Baqi». Dopotutto era la sua indagine, o come
l’aveva definito Abby, il suo “scoop”.
La ragazzina continuò a fissarla, come se si aspettasse
dell’altro, ma Hala si alzò e uscì
dalla stanza come un automa. Era tanto sconvolta da non riuscire
nemmeno a manifestarlo, anche se non per il motivo per cui avrebbe
dovuto esserlo. Ciò che la turbava profondamente era la
sensazione che aveva provato non appena aveva ottenuto la confessione
di Abby, la sensazione che non fosse abbastanza. Sì, Abby
era una delle persone più vicine a Merlino, ma le sue parole
non pesavano quanto quelle del diretto interessato. E poi, le sole
parole non dimostravano un bel niente. Quello di cui avevano bisogno
erano prove, ben più concrete ed inconfutabili di una foto
sbiadita, il diario di una donna malata e della parola della bisnipote
di quest’ultima.
Hala si lasciò cadere seduta su una delle poltroncine della
sala di aspetto e si prese il volto tra le mani. Non era nemmeno sicura
che lei sola potesse procurarsi delle prove vere e proprie: insomma,
come si dimostrava l’immortalità? Forse dovevano
davvero lasciar perdere, prima di ficcarsi davvero nei guai.
Forse…
***
Darrell parcheggiò proprio di fronte alla villetta di
Alexandra e rimase per qualche secondo a fissarla, ricordando la sera
in cui si era precipitato lì per cogliere un ladro sul
fatto. Ora non solo non era sicuro che si fosse trattato di un reale
tentativo di furto, ma dubitava persino
sull’onestà dell’infermiera.
L’unica certezza che possedeva al momento era che gli stava
nascondendo qualcosa, qualcosa di grosso.
Sospirò, massaggiandosi gli occhi stanchi con due dita, e si
diresse verso la villetta accanto. Trovò il piccolo cancello
aperto, perciò percorse il vialetto e suonò
semplicemente il campanello. Poco dopo la signora Levinson lo fece
accomodare nel suo salotto, seduto su un morbido divano dalla
tappezzeria floreale e con una tazza di tè tra le mani.
Era una bella casa, con morbida moquette rosa sui pavimenti e tante
fotografie sulle pareti, quasi esclusivamente di famiglia. Sopra il
caminetto c’era una grande cornice d’argento che
conteneva un collage il cui soggetto principale era un uomo dai capelli
bianchi e il sorriso bonario, probabilmente il marito della donna.
La signora Levinson uscì dalla cucina con un piatto colmo di
biscotti appena sfornati, il cui profumo invase tutto il soggiorno,
mescolandosi a quello dei fiori freschi colti dal giardino. Si sedette
sulla poltrona accanto al tavolino e sorrise dolcemente al barboncino
toy bianco che andò subito ad accucciarsi ai suoi piedi.
Mentre gli faceva un grattino dietro un orecchio gonfio di
pelo, il cane iniziò a scodinzolare di felicità
ma non emise un suono. Darrell ne fu particolarmente colpito,
perché anche una sua ex ragazza possedeva un toy e ricordava
bene quanto fosse rumoroso, specialmente con gli sconosciuti. O il cane
della signora Levinson era estremamente quieto, oppure aveva qualcosa
che non andava, perché quando era entrato si era limitato a
fissarlo, anche se coi denti leggermente sporgenti in un ringhio muto.
«Signora Levinson, perdoni la mia curiosità, ma ho
notato che il suo cane non abbaia e mi
domandavo…».
L’anziana lo interruppe con un gesto della mano e rivolgendo
un altro sorriso all’animale rispose: «Non
è sempre stato così. C’era un tempo in
cui era molto difficile tenerlo a bada. Circa un mese fa, era con me in
giardino, che mi teneva compagnia mentre davo del fertilizzante alle
mie piante, quando all’improvviso si è ammutolito.
Pensavo avesse visto qualcosa che lo aveva spaventato e mi sono girata
per capire, ma vidi solo Alexandra alla finestra, che beveva una tazza
di caffè».
Uno sgradevole sospetto gli fece passare l’acquolina per i
biscotti della signora Levinson, tanto che lasciò sul
proprio piattino quello che aveva preso dal vassoio.
«Vada avanti», la esortò, serissimo.
La donna scrollò le spalle. «Beh, non
c’è molto altro da dire. L’ho portato da
due diversi veterinari, ma nemmeno loro sono riusciti a capire quale
fosse il problema. Hanno ipotizzato che fosse la sua reazione alla
scomparsa di mio marito, ma è successo ormai tre anni fa e
non si era mai comportato così, prima».
«No, intendevo…». Darrell si
sentì infinitamente stupido, ma doveva sapere tutto
ciò che poteva su Alexandra. «Riguardo alla
signorina Greenwood. L’ha vista alla finestra e
poi?».
«In che senso? L’ho salutata e lei ha ricambiato,
tutto qui. Avrei voluto dirle che mi dispiaceva se Rolly
l’aveva svegliata, ma è andata via prima che
potessi farle cenno di aprire la finestra». Angela aveva gli
occhi sgranati per la stranezza di quella domanda e infatti volle
sapere: «Che cosa c’entra questo con
l’effrazione?».
«Niente, niente», tossicchiò,
imbarazzato. «Non voglio rubarle troppo tempo,
perciò per lei va bene se le mostro alcune
fotografie?».
«Certamente. Si tratta dei possibili indiziati?».
«In un certo senso», mugugnò Darrell,
tirando fuori dalla borsa a tracolla il proprio tablet.
Trovò il file che aveva scaricato poco prima in Centrale e
si spostò nell’angolo più esterno del
divano, così da poter porgere tranquillamente lo schermo
alla signora Levinson. La prima fotografia che le mostrò fu
quella della patente di guida di Cathleen Shaw, la sua principale
indiziata.
«L’ha mai vista nel quartiere?».
Angela si infilò gli occhiali sulla punta del naso e dopo
aver fissato i lineamenti della ragazza per qualche secondo, scosse il
capo. «No, non mi pare proprio. Chi è?».
«Un’amica della Greenwood. Lavora con lei
all’ospedale, fa il paramedico».
«E per quale motivo una sua amica avrebbe dovuto entrare in
casa sua per rubare?».
«Ecco, questa è una delle tante domande a cui
voglio trovare una risposta. Ma andiamo avanti».
Fece scorrere un dito sul touch-screen del tablet e le fece vedere la
seconda fotografia, ricavata dal passaporto di Artù
Pendragon. Perché lo considerava un sospettato?
Innanzitutto, il secondo testimone – da cui sarebbe andato
più tardi – aveva affermato di aver visto due
persone uscire dalla villetta di Alexandra; poi, ricordava fin troppo
bene la sera in cui Myra lo aveva portato in centrale, armato di una
balestra e altre armi poco convenzionali. Lui e Cathleen si conoscevano
e forse il paramedico, qualunque fosse il suo intento, lo aveva
persuaso ad aiutarla.
«Questo ragazzo l’ho già
visto…», esclamò la signora Levinson,
improvvisamente preoccupata.
Darrell rischiò quasi di fare un salto sul divano, smanioso
di sapere. «Quando? Dove? Mi racconti tutto».
«È successo quasi due mesi fa. Fuori pioveva a
dirotto ed io ero seduta lì dove è lei, a
guardare la televisione. Ad un certo punto ho sentito il rumore di una
brusca frenata e incuriosita sono andata alla finestra. Fu allora che
vidi questo ragazzo: era svenuto e aveva addosso una specie di
armatura, ha presente?, quelle dei cavalieri nei film. Alexandra e un
uomo di mezz’età l’hanno portato in
casa, ma non ho mai saputo che cosa fosse successo. Qualche volta fui
ad un passo dal chiederle delle spiegazioni, però ho sempre
cambiato idea: Alexandra è una così cara ragazza
e non mi andava di farmi gli affari suoi. La mia ipotesi è
che quel ragazzo abbia avuto un malore e lei lo abbia portato a casa
sua per aiutarlo. Dopotutto è
un’infermiera».
«Se fosse davvero come dice lei, perché non
l’ha portato in ospedale?», ribatté
Darrell, massaggiandosi il mento. «No,
c’è qualcosa che non torna».
Angela sgranò gli occhi, agitandosi tanto sulla sua poltrona
che persino Rolly alzò la testa per ringhiargli
silenziosamente contro.
«Sta per caso insinuando che
Alexandra…?».
«Non si preoccupi di quello che penso io. Ha visto altro,
quella sera?».
«Io… Non mi piace la piega che ha preso questa
conversazione. Mi rifiuto di credere che Alexandra abbia fatto qualcosa
di male. Lei e la sua povera madre – che Dio
l’abbia in pace – sono sempre state vicine perfette
e non dirò più una parola su di lei, non se crede
che sia colpevole di qualche cosa».
L’agente Fisher trasse un respiro profondo e posò
il tablet sul tavolino per poter porgere le mani all’anziana
donna. Titubante, la signora Levinson impiegò qualche
secondo per decidere se far incontrare i loro palmi oppure no. Alla
fine cedette agli occhi gentili di Darrell e con le mani nelle sue lo
ascoltò in silenzio.
«Signora Levinson, tutto ciò che mi interessa al
momento è che la signorina Greenwood non corra alcun
pericolo. Qualcuno è entrato in casa sua nel cuore della
notte e ha cercato qualcosa, qualcosa che a quanto pare non ha trovato.
Non posso escludere la possibilità che questa o queste
persone ritornino per completare il lavoro: magari la prossima volta
non si limiteranno a mettere a soqquadro una stanza, non decideranno di
agire con la casa vuota. Capisce che non posso rischiare?
L’unico modo perché Alexandra sia completamente al
sicuro è arrestare i colpevoli».
La signora Levinson annuì debolmente, abbassando il capo.
«Qualsiasi cosa può essere utile alle indagini,
anche il dettaglio più insignificante», aggiunse
con voce carezzevole. «Le prometto che non
succederà nulla ad Alexandra, non prima che questo caso
sarà risolto».
La donna sospirò e si convinse a parlare. Guardandolo dritto
negli occhi, continuò a raccontare di quella sera di due
mesi prima: «Sono rimasta alla finestra ancora per un
po’, ma Alexandra e quell’uomo non sono
più usciti. In compenso però è
arrivato di gran carriera un ragazzo in bicicletta».
«Me lo descriva», le chiese Darrell.
«Mi faccia pensare… Alto quanto lei, decisamente
mingherlino, coi capelli neri, gli occhi azzurri…».
Il poliziotto afferrò di nuovo il tablet e cercò
una foto di Merlino, poi la mostrò alla signora Levinson.
«È lui?».
«Sì, proprio lui. Era molto scosso e mi ricordo
che suonò al campanello come un ossesso; ha smesso soltanto
quando l’uomo che era con Alexandra lo ha fatto entrare in
casa».
Non poteva dire che avesse le idee più chiare, ma era
contento di avere del nuovo materiale su cui pensare, evitando
così di arrovellarsi sempre sulle stesse domande. Inoltre,
c’era un particolare di quel racconto che lo aveva colpito
come un pugno dritto al cervello: Artù indossava un armatura
da cavaliere quando Alex l’aveva trovato. Anche Freya, quando
lui l’aveva tirata fuori dai cespugli dietro casa sua,
indossava degli abiti che erano ben lontani dall’epoca
moderna. Una semplice coincidenza? Il suo istinto ne dubitava
fortemente. Ma quali erano le alternative? Una setta segreta con usi e
costumi medievali? Un portale spazio-temporale? Il suo mal di testa non
poteva che peggiorare.
Una decina di minuti dopo lasciava l’accogliente casa della
signora Levinson per attraversare la strada ed entrare in quella un
po’ trascurata dell’uomo che, la notte
dell’incidente, gli aveva detto di aver visto due persone
correre verso il bosco.
Si trattava di un quarantenne single e sovrappeso, operaio in una
fabbrica ad un’ora di distanza dal loro paesino. Gli
raccontò senza troppi giri di parole che quando era
rientrato dal turno si era preparato la cena e l’aveva
consumata sul divano in salotto, di fronte alla TV, dove era rimasto
fino a quando non si era appisolato. L’aveva svegliato
l’infrangersi di un vetro e preoccupato che il temporale
fosse più forte del previsto, era corso alla finestra per
chiudere le imposte. Allora aveva visto le due persone uscire di corsa
dalla porta d’ingresso della villetta di fronte alla sua e
dirigersi verso il bosco.
«Saprebbe riconoscerli, se le mostrassi delle
foto?», gli chiese ad un tratto Darrell, desideroso di uscire
da quella casa il più in fretta possibile.
La moquette era sporca in molti punti, gli angoli del soffitto erano
anneriti dalla muffa e sul tavolino di fronte alla TV c’erano
scatole di piatti pronti, cartoni della pizza vuoti e tazze colme di
mozziconi di sigarette. Come se tutto ciò non bastasse,
l’uomo di fronte a lui indossava una semplice canotta
ingiallita che non era in grado di contenere la villosità
del suo petto e il suo alito era davvero pessimo.
«Sa com’è agente, era buio e
pioveva…».
«Proviamoci, okay?».
Gli mostrò le stesse foto che aveva fatto vedere alla
signora Levinson, ma l’uomo oltre a non averli mai visti in
vita sua non seppe dargli alcuna certezza.
«Sì, uno dei due aveva i capelli lunghi come una
ragazza, ma al giorno d’oggi non si può mai sapere
che cosa ci sia lì sotto! Mi raccomando, agente, non si
faccia ingannare».
Dopo quel preziosissimo consiglio, con tanto di strizzata
d’occhio, Darrell riuscì a lasciarsi alle spalle
quella casa e il suo proprietario. Una volta all’aperto, si
rifece i polmoni respirando profondamente, poi raggiunse la propria
auto e si mise al volante, indeciso se tornare a casa – dove
avrebbe potuto prendere un’altra aspirina e dormire,
nonostante la mancanza di Freya – oppure continuare a seguire
la sua pista.
Abbandonò il capo contro il poggiatesta e a malincuore
decise di tornare a casa: era troppo stanco e forse era meglio
riposarsi un po’, prima di fare la prossima mossa.
***
«Un’ultima cosa, Merlino».
«Che cosa?».
«Grazie».
Lo stregone era rimasto per qualche secondo in silenzio, in attesa che
Artù aggiungesse qualcosa. Il re però
gli aveva chiuso il telefono in faccia, mettendogli addosso con un vago
senso di inadeguatezza.
Non solo era insolito sentire da lui una parola gentile, ma lo era
ancora di più in quel momento in particolare: dopo
ciò che aveva detto la notte precedente, dopo aver
realizzato che la ferita lasciata sul suo cuore da Louise era ancora
troppo dolorosa per poter legare per sempre a sé Alex nel
sacro vincolo del matrimonio... Tutte le sue certezze stavano venendo
meno e non aveva proprio bisogno di ringraziamenti.
Abbattuto, diede le spalle al terrazzo e rientrò in camera
da letto, dove trovò Alex stesa di traverso sul letto, lo
sguardo fisso sul soffitto e una ciocca di capelli tra le dita.
Dopo aver finito la vaschetta di gelato, stufi di guardare la TV, lei
aveva proposto di andare al piano di sopra per godersi un po’
di intimità senza aver paura di essere interrotti sul
più bello da Artù. Il sovrano li aveva
sì interrotti, ma era stato quasi un sollievo per il mago
avere la scusa per allontanarsi. E dovevano rimanere da soli per un
intero week-end?
Dentro di sé, Merlino respirò profondamente e
sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso quando
Alex voltò il capo verso di lui e gli chiese:
«Come sta Artù?».
«Bene, credo. Mi ha detto che Cathleen l’ha portato
a casa della sua famiglia».
«Ci tiene davvero tanto a lui», esclamò,
sollevando le gambe nude per guardarsi le unghie dei piedi.
Merlino le percorse con lo sguardo per poi vergognarsene subito dopo.
Si sedette al suo fianco, sollevandosi il colletto della maglia per
passarselo sul viso sudato. Non era eccitato, né accaldato;
semplicemente i postumi di quella nottata iniziavano a farsi sentire.
In più, il fatto che Alex avesse utilizzato così
tanta magia per recuperare il suo dispositivo non aiutava.
«Come fai a dirlo?», le chiese.
Alex ridacchiò, tornando a guardare il soffitto.
«Non lo sai? Per noi ragazze introdurre un ragazzo alle
nostre famiglie equivale ad una dichiarazione
d’amore».
Merlino si sdraiò a sua volta, con la testa accanto ai suoi
piedi delicati. «Ah sì?»,
mugugnò. Ogni fibra del suo corpo ululava di dolore, ma
voleva resistere e non prendere altri dolorifici. Finivano sempre
più in fretta e prima o poi, se non prestava attenzione,
Alex e Artù avrebbero finito per accorgersi della sua
dipendenza.
Chiuse gli occhi dalle palpebre pesanti e cercò di
rilassarsi, ma Alex si sedette a gambe incrociate sul letto e lo
osservò in silenzio per qualche istante.
«Stai bene?», gli domandò alla fine,
allungando una mano verso il suo viso.
Merlino la intercettò e se la portò sul petto,
evitando di rispondere. «Che ne dici se ce ne stiamo un
po’ qui sdraiati?».
L’infermiera annuì e si stese al suo fianco, con
la testa posata sul suo braccio destro e le gambe intrecciate alle sue.
Merlino con uno sforzo prese la coperta ai piedi del letto e se la
gettò addosso, dato che ora aveva i brividi. Nel mentre di
quell’operazione, Alex approfittò della sua
distrazione per liberarsi della sua stretta e portargli una mano sulla
fronte, su cui tra l'altro svettava un bel bernoccolo per il colpo che
la sera prima aveva dato agli scalini della veranda.
«Ma tu scotti!», esclamò con gli occhi
pieni di preoccupazione.
Il mago provò a rassicurarla, ma la bionda era
già entrata in modalità infermiera.
Dovette
alzare la voce per attirare di nuovo la sua attenzione:
«Alex! Rilassati, non è niente. Mi capita, ogni
tanto… È l’età».
Riuscì persino ad abbozzare un sorriso, il quale non
riuscì nell’intento di tranquillizzare Alex.
Le sfiorò il mento con il pollice, inchiodando gli occhi nei
suoi, e aggiunse: «Resta qui con me, per favore».
L’infermiera non riuscì a dire di no a quegli
occhi e ricambiò con un piccolo sorriso, accoccolandosi
contro di lui sotto le coperte. Merlino sospirò e chiuse gli
occhi, cadendo quasi subito in un sonno agitato.
***
Menomale che Artù pensava di trascorrere un week-end
tranquillo con Cathleen.
Le cose erano degenerate in fretta, in modo del tutto inaspettato, da
quando lei aveva bussato alla porta della sua stanza con un sorriso
radioso sul volto, per annunciare che forse aveva ancora qualche
speranza di recuperare il rapporto con suo padre.
Il sovrano era felice per lei ovviamente, ma non pensava che una cena
in famiglia avrebbe scatenato tutto quello scompiglio.
Innanzitutto, per via della malattia del signor Shaw, il personale si
era dovuto attrezzare perché venisse allestita una piccola e
dignitosa sala da pranzo nelle sue stanze.
Poi era partita la caccia all’abito perfetto, dato che per
quell’occasione speciale Trisha aveva ordinato uno specifico
dress-code: serata di gala. Artù e Cathleen si erano portati
dietro solo lo stretto necessario, perciò la matrigna li
aveva portati nella sua stanza guardaroba per agghindarli a dovere.
Solo quando si era stancata di trattarli come bambole in carne ed ossa
e aveva permesso loro di andare a rinfrescarsi, si erano resi conto di
non aver più visto Ash da quel pomeriggio. Artù
le aveva spiegato a grandi linee che avevano parlato un po’
– senza rivelarle di che cosa – e che quando si
erano separati ognuno era andato nella propria camera.
Avevano bussato e bussato, chiamandolo da dietro la porta chiusa a
chiave, inutilmente. Allora erano subito andati a cercare Freddie per
farsi dare un doppione della chiave, ma avevano scoperto che Ash
– intransigente quando si trattava della sua privacy
– aveva da tempo buttato ogni copia, esclusa la sua. Visto
che non potevano passare dall’interno, a Cathleen era venuta
una pessima idea e suo malgrado fu anche la loro unica idea.
Il tempo di togliersi il lungo vestito verde smeraldo per infilarsi i
suoi amati pantaloni di pelle e aveva già scavalcato la
ringhiera della finestra del secondo piano posta proprio sopra il
balconcino della camera di Ash. Nonostante Artù avesse
cercato in ogni modo di dissuaderla, o almeno di convincerla a far
saltare lui, il paramedico non aveva voluto sentire ragioni, affermando
che aveva giurato – a Merlino, supponeva – che si
sarebbe presa cura di lui: senza il dispositivo assorbi-magia nera i
rischi erano ancora più alti e non poteva assolutamente
permettere che avesse un altro crollo di fronte ai suoi occhi.
Così Cathleen si era appesa alla ringhiera e dopo qualche
dondolio si era lasciata cadere, atterrando con la stessa grazia di un
gatto. Gli aveva fatto il pollice verso e dopo aver fatto un giro
completo della camera, bagno compreso, era tornata sul balcone per
gridargli che Ash non c’era. Artù aveva cercato di
trovare una qualche spiegazione, ma ancora una volta la versione dei
fatti di Cathleen fu quella con più logica.
Per qualche motivo, dopo la chiacchierata con il sovrano, Ash aveva
sentito il bisogno di stare da solo e, sapendo che prima o poi qualcuno
sarebbe andato a cercarlo, aveva deciso di tagliare la testa al toro
andando via per primo. Ash aveva disseminato indizi per far credere
loro di aver usato una delle tecniche di Cathleen, quella di chiudere
la porta a chiave per darsi più tempo mentre saltava dal
balcone, ma non aveva calcolato due cose: la prima, l’altezza
eccessiva dal balcone al terreno ricoperto di ghiaia: Ash non avrebbe
mai potuto saltare da lì - non senza evitare di sfondarsi le
caviglie - e non c’era traccia né di una corda
né dei tipici solchi lasciati sul terreno da una scala
aperta; la seconda, la mancanza della chiave nella serratura interna.
Questi piccoli dettagli avevano convinto la sorella che in
realtà era semplicemente uscito dalla sua camera, portandosi
dietro la chiave ovunque avesse deciso di andare.
«E adesso che si fa?», le aveva chiesto
Artù quando si era reso conto che mancava solo
mezz’ora all’orario che Freddie aveva stabilito per
la cena.
Cathleen si era passata il pollice sulle labbra, la fronte aggrottata,
pensierosa. Alla fine aveva sospirato, esclamando: «Andiamo a
cercarlo».
«Ma tuo padre...? Non voleva conoscermi?».
Gli aveva sorriso con tenerezza, prendendolo per mano. «Ti
conoscerà domani», aveva risposto, e
Artù aveva sentito un piacevole calore espandersi dentro di
lui, come se gli avesse promesso ben più di un altro giorno
insieme.
«Credo di sapere dove sia andato il signorino Shaw».
Cathleen aveva appena acceso la propria moto e il potente rombo le
aveva quasi impedito di sentire le parole di Freddie, in piedi nel
rettangolo della porta d’ingresso. Le luci soffuse
provenienti dal corridoio allungavano la sua ombra sulla ghiaia e
l’espressione del suo viso era ancora più
indecifrabile a causa del buio che era calato all’improvviso.
Il paramedico fece scendere Artù dalla sella per poi fare lo
stesso. Si tolse la mascherina dagli occhi e fulminò il
maggiordomo: «E quando avevi intenzione di
dircelo?».
Freddie sospirò, stringendosi nelle spalle. «Il
signorino Shaw mi fece promettere di non dire a nessuno ciò
che era successo».
«Cosa? Cos’è successo?».
«Quasi un anno fa suo fratello si è recato in un
locale e si è sentito male. Aveva bevuto più del
consentito, assunto certe sostanze illegali e subìto delle
violenze…».
Artù scorse il volto di Cathleen impallidire sotto il casco
e percepì il suo dolore come fosse proprio, solo standole
vicino. Le posò una mano sulla schiena per mostrarle la
propria vicinanza e rabbrividì, sentendo il suo cuore
correre impazzito nella cassa toracica.
«È stato portato all’ospedale e i medici
sono riusciti a salvarlo per il rotto della cuffia», riprese
Freddie. «Il signorino Ash era stato derubato del portafoglio
e del cellulare e senza documenti non poterono avvisare i familiari.
Quando riprese conoscenza, la mattina successiva, gli chiesero chi
potessero chiamare e il signorino ha fatto il mio nome. Sono
immediatamente corso in ospedale ed è stato allora che il
signorino Ash mi ha fatto promettere che non avrei dovuto raccontare
nulla di tutto questo a sua madre e soprattutto a lei,
signorina».
Cathleen strinse forte i pugni lungo i fianchi e non si
lasciò impietosire dall’espressione sinceramente
addolorata di Freddie. Lo raggiunse con poche lunghe falcate e lo
fronteggiò, occhi negli occhi.
«Avresti dovuto comunque», ruggì.
Il domestico chinò il capo, ma rimase in silenzio.
«Quel locale è ancora aperto?», gli
chiese poco dopo, con la voce alterata dalla preoccupazione e dalla
rabbia.
«Sì. La polizia si recò sul posto, ma
il proprietario affermava di essere all’oscuro che nel suo
locale girassero delle droghe e infatti non trovarono elementi a
sufficienza per aprire una vera e propria indagine. Inoltre fu proprio
lui a trovare il signorino Ash nei bagni e a chiamare
l’ambulanza. Per quanto riguarda le persone che
l’avevano malmenato…».
«Vai avanti», lo esortò bruscamente
Cathleen.
Freddie si portò pollice e indice sulle palpebre.
«Il signorino Ash non volle sporgere denuncia: diceva che se
l’era cercata».
Artù sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene
udendo quelle parole ed iniziò a nutrire un terribile
sospetto, ricordando anche ciò che gli aveva confessato Ash
quello stesso pomeriggio:
«Volevo
morire. Lo volevo sul
serio, ma non bastava: ci voleva anche il coraggio. Ci ho provato,
eccome…».
«Dobbiamo andare», esclamò nervosamente,
attirando in particolare l’attenzione di Cathleen.
«Artù, ti senti bene?».
Il sovrano annuì. «Sì, ma dobbiamo
sbrigarci. Sono preoccupato».
«È mio fratello, lo sono anche io»,
ribatté il paramedico, per poi rivolgersi al maggiordomo e
chiedergli l’indirizzo del locale.
Mezz’ora più tardi, lasciarono la moto nel vicolo
accanto al nightclub dalle esplicite insegne al neon ed entrarono.
Cathleen gli aveva anticipato che ne sarebbe uscito sconvolto se quella
era la prima volta che entrava in un ambiente del genere, ma
Artù era talmente in pensiero per Ash che non ebbe tempo per
elaborare ciò che videro i suoi occhi: ragazze e ragazzi
seminudi che si muovevano sinuosamente sopra a cubi illuminati,
attorcigliandosi intorno a pali conficcati nel soffitto e lasciando che
gli spettatori infilassero loro banconote negli striminziti indumenti
intimi; chi si agitava a tempo dei bassi sotto le luci intermittenti
colorate, strusciandosi contro il proprio vicino e concedendosi
effusioni tutt'altro che pudiche; altri clienti, seduti ai tavolini ai
lati della grande sala, bevevano da grandi bicchieri colorati e
ridevano in maniera innaturale.
Artù, assordato dalla musica e spintonato da tutti quei
corpi sudati, dovette faticare per tenere il passo di Cathleen,
sicuramente più a suo agio. Si fermarono di fronte ad un
lungo bancone illuminato di bianco, dietro il quale due uomini
preparavano cocktail facendo le stesse acrobazie di un giullare di
corte.
Quando finalmente quello con la barba curata posò gli occhi
su di loro, Cathleen gli mostrò il cellulare con una foto
abbastanza recente di Ash e gridò: «Hai mai visto
questo ragazzo?».
«Certo bellezza, Ash è un nostro
habitué. Perché lo cerchi?».
«Questi non sono affari tuoi. È venuto qui anche
questa sera?».
L’uomo afferrò una bottiglia squadrata piena di
liquido ambrato e se la fece volare dietro la schiena prima di versare
un po’ del contenuto in un bicchierino. Quindi
scrollò le spalle e lo posò di fronte a Cathleen,
rivolgendole un sorriso smagliante. «Forse».
Artù stava per sbottare, quando il paramedico
afferrò con decisione il bicchierino e ne bevve il liquido
tutto d’un fiato, per poi riposarlo sul bancone insieme ad
una banconota da venti sterline.
Il barista annuì soddisfatto e si intascò i
soldi, rispondendo: «L’ho visto di sfuggita,
è andato direttamente da Inky».
«E chi sarebbe Inky?».
«Lo riconoscerai». Le indicò le tende di
velluto porpora dall'altra parte della pista da ballo, presidiate da un
uomo calvo, grande e grosso, vestito con giacca e cravatta.
«Digli che ti mando io, ti lascerà
passare».
Cathleen sbuffò scocciata e diede un colpetto al bancone col
bicchierino di vetro, facendogli capire che voleva il secondo giro.
«L'ho pagato, dopotutto».
Il barista esitò solo un attimo, prima di sorriderle di
nuovo ed esclamare: «Sei una tipa tosta! Questo lo offro
io». Poi si avvicinò al suo viso per sussurrarle
qualcosa, ma non gli riuscì molto bene perché la
musica sembrava essersi fatta ancora più alta.
«Nel caso in cui dovessi scaricarlo, fammelo sapere
okay?».
Artù, punto di nuovo sul vivo, quella volta non si
lasciò fermare dal paramedico e puntò alla sua
faccia col pugno chiuso. L’uomo però fece un passo
indietro, protetto dal bancone che li divideva, e lo
sbeffeggiò ulteriormente con un’espressione
vittoriosa.
Cathleen finì di bere e lo afferrò per il gomito,
incitandolo a seguirla verso il privè. Raggiunsero il
bodyguard e la rossa lo guardò negli occhi senza paura,
indicando il bancone col pollice: «Ci manda
l’idiota con la barba laggiù. Dobbiamo vedere
Inky».
L'uomo guardò in direzione del barista e questo gli fece
“okay” con la mano; solo allora scostò
la tenda per farli procedere.
Mentre salivano una stretta scalinata, Artù non
poté fare a meno di prendere Cathleen per un braccio e
rimproverarla: «Hai appena dato dei soldi ad uno sconosciuto
per delle informazioni!».
«Sì, hai ragione, l’ho
comprato», affermò guardandolo dritto negli occhi,
infiammati dalla determinazione. «Tu non l’avresti
fatto per tuo fratello?».
Artù rimase in silenzio, certo che lei avesse già
capito quale sarebbe stata la sua risposta; dopodiché la
seguì su per gli ultimi gradini.
Si ritrovarono in un soppalco disseminato di tanti salottini con
tavolini di cristallo e divanetti immacolati e dal pavimento in vetro
oscurante, simile a quello che si usavano nelle stanze interrogatori
delle centrali di polizia: da lì potevano vedere la pista da
ballo sottostante, col vantaggio di non essere visti. Ottimo per
sfuggire alle retate.
Iniziarono a camminare lungo lo stretto corridoio, tra ragazze in
vestitini succinti e tacchi alti e uomini dai completi eleganti, alla
ricerca di Inky. Artù non aveva idea di come avrebbero
dovuto capire chi fosse, ma tutto divenne più chiaro quando
scorsero un ragazzo dai lunghi capelli rossicci, acconciati in
tantissime treccine, e con ogni centimetro di pelle visibile ricoperta
di tatuaggi. Dato che indossava una semplice canotta bianca con grandi
spacchi sui lati e pantaloncini corti, la visione era piuttosto
impressionante.
«È lui», esclamò Cathleen.
Artù l’afferrò per un braccio prima che
si avventasse come un falco sul tatuato. «Se hai intenzione
di fare ciò che hai fatto con quel barista,
scordatelo».
«Hai un’idea migliore?».
«Lascia fare a me».
Cathleen respirò profondamente e nonostante non fosse
convinta gli indicò di andare e fare ciò che
credeva.
Artù raccolse tutto il proprio coraggio e una volta di
fronte al ragazzo si schiarì la gola per attirare la sua
attenzione. Non fu abbastanza, evidentemente era più
interessato alle due ragazze asiatiche che gli stavano quasi in braccio
e a turno gli baciavano le guance e il collo, accarezzandogli il petto
tatuato sotto la canottiera.
«Ehi!», urlò spazientito e finalmente il
tatuato lo fissò, anche se con aria di sufficienza.
«Che cosa diavolo vuoi?».
«Voglio sapere se questa sera hai visto Ash Shaw».
«Io vedo tanta gente amico, non posso ricordarmi tutti i
fottuti nomi».
Artù guardò Cathleen, chiedendole silenziosamente
il cellulare con la foto del fratello. Lo mise di fronte al viso
lentigginoso del ragazzo, il quale lo fissò per qualche
secondo. Artù immaginava che le labbra rosse che aveva
disegnate sul mento fossero un ricordo lasciato col rossetto da una
delle due ragazze, ma quando se lo strofinò, pensieroso, e
rimasero esattamente dov’erano, realizzò che anche
quello era un tatuaggio.
«Allora?», lo incalzò ad un tratto,
infastidito dal suo atteggiamento noncurante.
«Non lo so, amico… Può
darsi», rispose guardando le sue ragazze e scrollando le
spalle. Quando incrociò di nuovo il suo sguardo, sorrideva:
«Che mi dai in cambio?».
«Non sono qui per fare scambi. Ora dimmi quello che voglio
sapere e ti lascerò in pace».
Il ragazzo si fece all’improvviso più attento e
tolse le braccia dalle spalle delle sue ragazze, indicando loro di
allontanarsi. Poi si alzò ed esclamò divertito:
«Sai, non credo che tu sia nella posizione di poter darmi
degli ordini».
Ad Artù bastò sbirciare con la coda degli occhi
per rendersi conto che Inky non era venuto da solo al club: diversi
ragazzi si erano alzati dai loro divanetti e fissavano lui e Cathleen
con aria minacciosa.
«Si può sapere chi diavolo credere di essere?
Siete degli sbirri?».
Artù sorrise, compiaciuto che Inky si stesse agitando.
«Può darsi», gli rispose con la sua
stessa moneta.
Sentì Cathleen dargli una gomitata, come ad invitarlo a non
giocare col fuoco, ma il re di Camelot aveva la sensazione di avere il
coltello dalla parte del manico.
«Tu non sei il proprietario del locale»,
esclamò poco dopo.
«No, sono suo figlio».
«Tuo padre sa che fai il bulletto nel suo locale? O ti
comporti così solo quando lui non c’è,
uh?».
Inky, ferito nell’orgoglio, saltò sul tavolino per
colpirlo, ma Artù fu più veloce di lui e lo
acchiappò avvolgendogli un braccio intorno al collo e
puntandogli il suo pugnale vicino all'occhio destro.
Tutti i ragazzi amici di Inky rimasero paralizzati sul posto, scioccati
dall’evolversi della situazione, e la stessa Cathleen fece un
passo indietro mentre Artù sussurrava all’orecchio
del tatuato: «Ora sono nella posizione di darti degli ordini,
non trovi?».
Inky annuì e inaspettatamente iniziò a piangere,
singhiozzando forte. «Ti dirò tutto quello che
vuoi, ma non uccidermi. Non ho fatto nulla di male, te lo
giuro».
«Questo lo vedremo».
Lo gettò
bruscamente sul divanetto e guardò i suoi amici –
un tacito monito a starsene buoni – prima di sedersi al suo
fianco col coltello sempre in bella vista. Il paramedico invece rimase
in piedi, le braccia incrociate e gli occhi sgranati.
«Forza, inizia a parlare. Hai visto Ash?».
Inky annuì freneticamente. «Sì,
è andato via poco più di un’ora
fa».
«Cos’è venuto a fare?».
«Il solito: ha comprato un po’ di roba
e…».
«Che roba?», lo interruppe Artù.
Cathleen si riprese quel poco che bastò a rispondere al
posto suo: «Della droga». Poi si sedette
sul divanetto di fronte e chiese: «Cos’ha
comprato?».
«Un po’ di erba, dell’ecstasy…
Ash è uno che varia molto».
«Okay e poi?».
«Prima di venire qui, questo pomeriggio, mi ha chiamato
perché aveva un ordine speciale. L’ho trovato
strano, perché lui non programma mai niente, viene qui
quando ne ha voglia e prende ciò che
c’è».
Artù fece roteare il pugnale, riprendendolo al volo con
maestria. «Non ti interrompere».
«Insomma…», Inky deglutì, gli
occhi che seguivano atterriti i movimenti della lama e il sudore che
gli colava sulle tempie. «Mi ha chiesto se potevo
recuperargli una pistola».
Da come Cathleen si piegò, fu come se un’incudine
le fosse appena caduta tra le scapole. «Una pistola? Non
capisco».
«Ti giuro bambola, è stata una sorpresa anche per
me».
«Ehi, non ti azzardare mai più a chiamarla
così», lo minacciò Artù,
avvicinando il coltello alla sua gola.
«Scusa, scusa!».
«Allora Ash ti ha chiesto una pistola e tu
gliel’hai data senza fare domande?», gli
domandò ancora Cathleen.
«Evito di farmi gli affari degli altri, se ci sono in ballo i
soldi. Nemmeno i miei agganci si occupano di armi, perciò
è stato difficile procurarmela, ma ne è valsa la
pena. Posso?».
Artù allontanò il coltello quel tanto che bastava
a Inky per piegarsi e recuperare da sotto il divanetto una borsa da
ginnastica con dentro molte centinaia di sterline.
Cathleen fissò l’interno della borsa con sguardo
spiritato, fino a quando Artù non le chiese a cosa stesse
pensando.
«Quando nostro padre ci ha creato dei conti per essere
indipendenti, mise per i prelievi un tetto massimo settimanale, quindi
non può averli prelevati tutti insieme».
«Cathleen…», Artù
provò ad interrompere il rincorrersi dei suoi pensieri, ma
ormai era troppo tardi: anche lei stava iniziando a nutrire il suo
stesso sospetto.
«Era pianificato. Ash vuole…». Si
portò un pugno sulla bocca, mentre i suoi occhi si
riempivano velocemente di lacrime. Tutto d’un tratto
alzò lo sguardo nel suo e ringhiò: «Di
cosa avete parlato? Dimmelo, Artù».
«Non è il momento adatto».
«Non è il mom–?»,
iniziò ad urlare, ma il solo ed unico re si alzò
e le afferrò il volto con la mano sinistra, quella che non
impugnava il coltello, per esclamare risoluto: «Dobbiamo
trovarlo».
Quelle parole o forse i suoi occhi blu, in grado di restituirle un
po’ di lucidità, le fecero capire che era come
diceva Artù: Ash era la loro priorità. Si
alzò a sua volta e si diresse a passo spedito verso le scale.
Prima di seguirla, Artù puntò nuovamente il
coltello verso Inky, il quale sobbalzò, e disse:
«Ti consiglio di fare il bravo ragazzo d’ora in
poi, se non vuoi che torni a trovarti».
Il tatuato annuì spaventato e Artù se ne
andò senza guardarsi più indietro. Fuori dal
locale, Cathleen lo aspettava già in sella alla sua moto.
«So dove potrebbe essere andato», le disse
Artù mentre si infilava il casco, con le orecchie che gli
fischiavano fastidiosamente a causa di quella musica assordante.
«Dove?».
«C’è una spiaggia dove tu e Zachary lo
portavate a pescare granchi quando era piccolo».
Cathleen lo fissò da dietro la visiera, ma
rimandò le spiegazioni ad un altro momento. Mise in moto con
un rombo e sfrecciarono in quella notte fredda e senza stelle.
***
Hala, appoggiata alla ringhiera intorno al piccolo giardino interno,
stava leggendo per l’ennesima volta tutti i nomi incisi sulla
grande targa di bronzo: i nomi dei dottori, delle infermiere e dei
pazienti rimasti uccisi a causa di un bombardamento durante la Seconda
Guerra Mondiale. Come aveva detto Abby, Louise non faceva parte di
quell’elenco; che si fosse salvata grazie a Merlino,
però, era tutto da verificare.
Era così assorta nei suoi pensieri che non si rese nemmeno
conto di avere compagnia. Sobbalzò quindi quando Keith la
salutò.
«Scusami, non volevo spaventarti».
La pakistana abbassò gli occhi con la scusa di doversi
sistemare una ciocca di capelli dietro l’orecchio e
sorridendo in modo impacciato rispose: «Non ti
preoccupare».
«Come mai da queste parti?», le chiese allora il
dottore, avvicinandosi per guardare a sua volta la targa commemorativa.
«Avevo bisogno di un momento per me».
«Oh, quinti ti ho disturbato. Mi dispiace, non era
mia…».
«Ma no, figurati, non disturbi affatto», lo
interruppe frettolosamente, posandogli persino una mano sul braccio per
non farlo allontanare. Quando se ne rese conto, arrossì da
capo a piedi e lasciò di nuovo che i capelli le
nascondessero parte del viso.
«Anzi», riuscì ad aggiungere contro ogni
aspettativa. «Sarei venuta a cercarti, più
tardi».
Hala non si azzardò a guardarlo in viso, ma
immaginò che la sua espressione fosse stupita tanto quanto
il suo tono di voce.
«Ah sì?».
«Beh, devo ancora darti una risposta. A meno che tu non ti
voglia rimangiare l’invito…».
«Assolutamente no».
Hala sollevò il capo di scatto, colpita dalla sua sicurezza,
e ad attenderla trovò il sorriso più bello che
avesse mai visto in vita sua. Dubitava fortemente che si sarebbe messo
l’anima in pace nel caso in cui gli avesse dato una risposta
negativa, ma, appunto, non era quello il caso…
Respirò profondamente per prendere coraggio e disse:
«Mi piacerebbe molto bere qualcosa con te, Keith».
«Facciamo subito?».
Non se l’aspettava, perciò non riuscì a
rispondere tempestivamente e il suo silenzio venne interpretato come
tacito assenso.
Keith le afferrò la mano e sorridendo la trascinò
all'aria aperta, dove decisero di camminare fino all'unico pub della
cittadina, a qualche isolato di distanza.
Si era alzato un vento freddo e Hala si strinse le braccia intorno al
petto per cercare di riscaldarsi, ma non appena Keith notò
il suo tremore le avvolse un braccio intorno alle spalle, facendole
bruciare un fuoco dentro.
«Scusami, ho corso troppo?», le domandò
imbarazzato, notando il suo sguardo perso.
Hala non era mai stata una tipa facile, raramente si era lasciata
travolgere dalle emozioni e ancor meno dagli ormoni, ma Keith... Dio,
Keith era una calamita a cui non poteva opporsi in alcun modo.
Ignorando la sua domanda si alzò in punta di piedi e lo
baciò, aggrappandosi alle sue spalle ed abbandonandosi
completamente alle sue braccia, le quali non la delusero e la fecero
sentire nel posto perfetto per lei.
La pakistana si scostò, oltre che per prendere fiato, per
chiedergli: «Abiti lontano?».
«Ecco... Hala, non credo sia...», provò
ad articolare un discorso di senso compiuto, ignorando l'eccitazione
come avrebbe fatto la persona migliore che si era ripromesso di essere.
L'incantesimo si spezzò all'improvviso e Hala
tornò la razionale e pudica ragazza di sempre, arrossendo
tanto da giurare di vedere del vapore intorno a lei.
Indietreggiò di qualche passo, con gli occhi pieni di
vergogna. «Mi dispiace, io... non so cosa mi sia
preso», balbettò. «O meglio, lo so
benissimo, però io non sono così. Adesso penserai
che sono una poco di buono, ma tu... Tu mi piaci tanto».
Le ultime parole le aveva dette in uno squittio, tanto in imbarazzo da
tenere gli occhi bassi e i pugni stretti lungo i fianchi.
«Anche tu mi piaci».
Hala alzò di scatto di capo, incredula alle proprie
orecchie. Insomma, aveva intuito che Keith nutrisse qualche tipo di
interesse nei suoi confronti quando le aveva chiesto di uscire, ma
piacergli... era ben altra cosa.
«È troppo tardi per ricominciare da
capo?», gli chiese timidamente.
Il dottor Ellis rise, una risata roca e sensuale che diede un'ultima
scossa stordente agli ormoni impazziti della ragazza.
«Ricominciare? Assolutamente no», rispose, tornando
ad avvolgerle le spalle con un braccio. «Anche quel bacio mi
è piaciuto, non voglio fare finta che non sia
accaduto».
Hala ricambiò il sorriso e camminando stretta al suo fianco
ebbe la sensazione di essere finalmente tornata alla
normalità dopo giorni in cui le era sembrato di impazzire.
***
Alex vide le ceneri del
falò sollevarsi per dare vita ad un
drago e capì di star rivivendo lo stesso sogno, anche se
quella volta c'era qualcosa di diverso; lei era diversa: non era
più la protagonista inconsapevole, la spettatrice impotente,
incapace di modificare ciò che sarebbe accaduto.
Sfruttando la
distrazione di Cathleen e Abigail, Alex
sgattaiolò verso il bosco, dove intravide la donna avvolta
nel mantello di velluto verde nascondersi alla sua vista con la
complicità degli alberi.
L'infermiera
cercò di raggiungerla, ma il buio la ostacolava
non poco. Inciampò in una radice sporgente, cadendo faccia a
terra nel tappeto di aghi di pino e muschio.
"Alexandra", la
chiamò una voce morbida, gentile. Le
ricordava molto quella di sua madre.
Alex si
guardò intorno, cercando di capire da che parte
dovesse andare, fino a quando non realizzò che non l'avrebbe
mai capito: quella voce era nella sua testa.
"Alexandra, alzati".
«Chi
sei?», gridò, spaventando tutti gli
animali notturni nelle vicinanze.
"Non ha importanza chi
sono io, ma chi sei tu
.
Tu sei l'ultima
Pendragon, sulle tue spalle grava il destino del mondo".
La figura sfuggente
della donna riapparve una trentina di metri
più avanti per poi scomparire di nuovo, esattamente come un
fantasma. Alex però non si diede per vinta e dopo essersi
risollevata corse in quella direzione.
"Se solo sapessi che
diavolo significa!"
L'aveva solamente
pensato, ne era certa, eppure la donna misteriosa
l'aveva sentita e le rispose, facendole capire che quella telepatia non
era a senso unico.
"La profezia che
è stata tramandata di generazione in
generazione dai tuoi avi è vera, pronunciata dalla Triplice
Dea in persona e rivelata a Graalmir Pendragon, figlio di re
Artù".
Alex capì
all'istante a quale profezia si stesse riferendo:
sua madre gliel'aveva raccontata alla morte di sua nonna ed era certa
di essersene dimenticata fino a qualche settimana prima, quando dopo
anni aveva risentito il nome "Avalon".
All'epoca era troppo
piccola per capirne il significato e probabilmente
sua madre aveva ammorbidito i toni per non impressionarla, ma il succo
ce l'aveva impresso a fuoco nella mente: insieme ad Artù
avrebbe dovuto affrontare un grande male e grazie al loro sacrificio il
mondo avrebbe vissuto in pace e in armonia.
Forse era stato un bene
che gliel'avesse raccontata allora e non quando
aveva quindici, sedici anni: l'avrebbe presa per pazza e se ne sarebbe
dimenticata sul serio. Invece grazie all'ingenuità e alla
purezza di cuore tipica dei bambini, le parole di sua madre erano
sopravvissute.
"Il grande male che
dovremo affrontare è Freya, vero? Non mi
fido di lei, sta tramando qualcosa".
La donna comparve
all'improvviso a pochi metri da lei e Alex
frenò la propria corsa, tracciando con le scarpe dei segni
sul terreno.
Il cappuccio le copriva
gran parte del volto, come negli altri suoi
sogni (o qualunque cosa fossero), ma il suo sorriso le
sembrò divertito quella volta, come se avesse appena
raccontato una barzelletta.
"Freya è una
minaccia e va fermata, ma non è
nulla in confronto al male che sta divorando questo mondo",
affermò senza muovere le labbra piene. "È la
magia che ha sempre tenuto il mondo in equilibrio, Alexandra. La magia
era nell'acqua, nel cielo, nella terra, ma quando il suo figlio
prediletto, il più potente stregone di ogni tempo l'ha
rinnegata, è successo qualcosa di terribile".
Ad Alex risultava
più difficile parlare col pensiero,
soprattutto avendo la donna a pochi metri di distanza. Ad ogni modo le
rivolse il suo sguardo più irritato, consapevole che
nonostante il cappuccio calato sugli occhi potesse vederla, e si
sforzò di trasmetterle le seguenti parole: "Hai intenzione
di dirmi di che si tratta o vuoi tenermi sulle spine?"
"Una maledizione",
rispose in tono lugubre, sollevando le mani ad
indicare tutto ciò che le circondava. "Emrys era
così pieno d'odio per via di tutte le perdite
subìte da giurare che da quel momento in avanti avrebbe
fatto tutto ciò che era in suo potere perché
nessun altro soffrisse per via della magia. Senza saperlo, ha
condannato anche se stesso. Per secoli ha camminato su queste terre,
accumulando dentro di sé la forza della magia ovunque
andasse. È per questo che il mondo sta collassando su se
stesso: senza la magia a sostenerlo e a proteggerlo, presto
morirà ogni cosa".
Alex si sentiva
stordita, come se quelle parole fossero entrate a forza
nel suo cranio a furia di martellate nelle orecchie.
Era come Merlino le
aveva detto a Londra: lui era l'unico che poteva
restituire al mondo l'energia magica che aveva "rubato", ma nel farlo
si sarebbe ucciso.
«Non posso
permetterlo», sussurrò,
sentendo le lacrime salirle agli occhi. «Ci dev'essere un
altro modo! Non posso guardare Merlino morire!».
Le labbra della donna si
incurvarono in un'espressione desolata. "Mia
cara, è questo il sacrificio che sarai costretta a compiere.
La Dea l'ha predetto".
L'infermiera scosse il
capo, coprendosi le orecchie. "Non lo
farò, non lo farò mai".
«Alex!».
«Alex, dove
sei?!».
L'infermiera si
voltò, scorgendo dei fasci di luce ambrata
tra gli alberi: Merlino e gli altri si erano accorti della sua
scomparsa e la stavano cercando con delle fiaccole. Non aveva molto
tempo e, per quante ne dicesse, quella donna le avrebbe dato delle
risposte.
Peccato che quando
tornò a rivolgerle la propria attenzione,
questa si era già dileguata tra gli alberi del bosco.
"Dimmi almeno chi sei!",
gridò mentalmente, ricevendo in
risposta una risata posata.
I suoi amici l'avevano
individuata tra gli alberi e la stavano
raggiungendo, quando Alex sentì un rumore familiare, come lo
scrosciare di un ruscello. Abbassò gli occhi e li
sgranò, osservando l'acqua lambirle le scarpe e salire
sempre più, trascinandosi dietro terra, aghi di pino, rami
spezzati.
Iniziò ad
urlare il nome di Merlino e di Artù, ma
non le risposero. Allora provò a raggiungerli, ma la
corrente dell'acqua le opponeva resistenza. Ormai vi era immersa fino
alla vita e il panico stava iniziando a prendere il sopravvento, tanto
era vivida la sensazione del fango dentro i vestiti.
«Basta!»,
gridò con tutte le sue forze.
«Basta!», ripeté, ritrovandosi seduta
sul divano nel salotto di Merlino, con la televisione accesa e
sintonizzata su BBC News.
Immagini di strade allagate, abitazioni sommerse dal fango e persone
tratte in salvo dai vigili del fuoco le fecero accapponare la pelle,
soprattutto perché risalivano appena alla notte precedente,
quando le incessanti perturbazioni - stava spiegando la giornalista -
avevano causato disagi e danni per milioni di sterline nella contea di
Dorset.
Si alzò dal divano cercando di scuotersi di dosso i brividi
e il terribile pensiero che non avesse sognato un'inondazione solo
perché aveva captato la notizia nel dormiveglia; non dopo la
chiacchierata con la donna col mantello.
Anziché darle risposte le aveva dato ancora più
interrogativi e questo non le piaceva, come non le piaceva il fatto che
fosse stata nominata ancora una volta la Dea. Chi era? Che fosse lei la
vera burattinaia che si era accanita contro Merlino e Artù -
ma soprattutto Merlino - per tutti quei secoli?
Merlino... Che fosse davvero quello il suo destino? Sacrificarsi
perché il mondo riavesse la magia necessaria al suo
equilibrio? Purtroppo aveva senso: se era stato davvero lui a scagliare
quella maledizione, lui era l'unico che poteva spezzarla.
Inoltre, ad avvalorare quella teoria, c'era la profezia
raccontatale da sua madre: lei e Artù avrebbero dovuto
affrontare un grande male - il collasso del pianeta - e avrebbero
dovuto fare un enorme sacrificio per riportare pace e
serenità - assistere alla morte di Merlino.
Salì lentamente le scale che portavano al piano superiore e
raggiunse la camera dello stregone, il quale sollevò appena
il capo quando sentì la porta aprirsi.
«Ehi», la salutò, con voce roca e gli
occhi ancora gonfi di sonno. «Che ore sono?».
«Le dieci e un quarto. Di sera», gli rispose,
raggiungendolo sul letto per rannicchiarsi al suo fianco.
«Ho dormito tutto il giorno? Mi dispiace, Alex...»,
sbuffò, passandosi le mani sul viso. «Questo
doveva essere il nostro week-end».
Già, avrebbe dovuto esserlo. Tuttavia, nessuno dei due
sembrava troppo disperato che una giornata se ne fosse andata in quel
modo. Di certo Alex non lo era, vista la confusione emotiva che stava
vivendo.
L'infermiera si sporse comunque a posargli un bacio sulla guancia
ancora un po' accaldata. «Vuoi mangiare qualcosa? Ho
preparato della minestra».
«No grazie, non ho fame», rispose, per poi
lasciarsi sopraffare da una risatina.
«Che c'è?», gli chiese la bionda, senza
riuscire a trattenere a sua volta un sorriso.
«Nulla, mi è soltanto tornato in mente Gaius, il
mio mentore. Anche se, a onor del vero, è stato un vero e
proprio padre per me».
«Era il curatore di corte, vero? Artù me ne ha
parlato, qualche volta».
«Sì. Mi ha preso sotto la sua ala quando nel mio
villaggio iniziò a girare la voce che io fossi uno stregone.
Mia
madre, per proteggermi, mi mandò a Camelot e vissi con lui
fino alla fine. È grazie a lui se ho imparato a controllare
davvero i miei poteri, ad usarli con saggezza. Senza Gaius...
probabilmente avrei fatto la stessa fine di Morgana».
Con un singulto all'altezza del cuore, Alex ripensò alla
figura avvolta nel mantello e si chiese se fosse lei, la donna
misteriosa. L'istinto le diceva che si trattava proprio della
sorellastra di Artù, ma la ragione la metteva in guardia:
perché avrebbe dovuto mostrarsi a lei in sogno? E,
soprattutto, poteva fidarsi della strega che aveva cercato di
distruggere Camelot e aveva provocato la morte di Artù?
«C'è qualcosa che non va?», le chiese
Merlino, guardandola col capo sollevato.
Alex si trovò davanti all'ennesimo dilemma: doveva avvertire
Merlino dei propri sogni oppure gli avrebbe dato altre gatte da pelare,
aggravando così le sue condizioni già precarie?
La risposta giusta era: "Sì, deve sapere", ma decise di
rimandare tutto ad un altro momento.
«Anche Morgana era una custode della magia?», gli
domandò, nonostante conoscesse benissimo la risposta.
Merlino scosse il capo, guardando il soffitto. «No, era una
Grande Sacerdotessa della Religione Antica. Era solo un canale, proprio
come me».
Aveva detto le ultime parole con titubanza, come se non fosse convinto
che fosse ancora così, ma se ne dimenticò poco
dopo, quando il suo viso si illuminò grazie ad un sorriso
simile al primo raggio di sole dopo un temporale.
«Perché questa domanda?».
«Ho sentito parlare dei custodi della magia, ma non ho ancora
capito chi siano. Insomma... Freya è una di loro,
giusto?».
«Sì, è diventata la custode di Avalon,
uno dei luoghi più sacri della Religione Antica. Loro sono i
protettori di ciò che è rimasto della magia, ne
sono così ossessionati che sono disposti a tutto, anche a
provocare la morte di persone innocenti, pur di raggiungere i loro
scopi. Con le loro stupide profezie, manovrano gli uomini
perché facciano quello che vogliono».
Alex ebbe un tuffo al cuore, pensando alla sua, di profezia. Anche lei
ci sarebbe cascata? Anche lei avrebbe cercato in ogni modo di cambiare
il destino, finendo invece per portarlo a compimento?
«E la Triplice Dea? Anche lei è
così?».
Merlino si tirò su seduto di scatto, forse provocandosi
anche una fitta di dolore. La ignorò però,
concentrandosi totalmente su di lei per leggerle l'anima attraverso gli
occhi.
«Come fai a sapere della Dea?».
«Io... Credo di averla sentita nominare da te»,
rispose l'infermiera, fingendo nonchalance per rimediare a quel
terribile scivolone.
«No, io non l'ho mai nominata», replicò
Merlino, ferale. Il suo sguardo era così duro da incuterle
un certo timore. «Alex, è importante che io sappia
la verità».
La bionda sospirò e si sedette a sua volta a gambe
incrociate, ammettendo a mezza voce: «È stata
Freya».
«Che cosa?», sbottò con il giusto mix di
inquietudine e rabbia sul viso, oltre che con la voce di qualche ottava
in meno. «E quando vi sareste incontrate?».
«Ieri», confessò. «Era
già da un po' che Freya cercava di avvicinarmi, venendomi a
cercare all'ospedale. Ieri Keith l'ha rivista e mi ha avvisato,
così ho deciso di porre fine alla cosa andando da
lei».
«Un momento», la interruppe il mago, con due dita
sul setto nasale per la concentrazione. «Che ci faceva Freya
all'ospedale?».
«Darrell. Voleva a tutti i costi farla visitare per capire il
motivo della sua "perdita di memoria"», mimò le
virgolette con le dita, «e lei ha acconsentito, non so per
quale motivo. Ad ogni modo, quando l'ho affrontata mi ha detto che
è scritto che io salverò il mondo riportandovi la
magia e che la Dea non ha preso bene la mia dichiarazione di
guerra».
Merlino rimase in silenzio per quelle che le sembrarono ore, il volto
pallido e al contempo ricoperto da un velo di sudore per la febbre.
Alex allungò un braccio per prendergli la mano, pronta a
ripetere che non avrebbe mai permesso che si sacrificasse, ma lo
stregone la scansò con un gesto distratto, immerso in mille
e più pensieri.
«Pensavo che la Dea fosse scomparsa, ma come Freya deve aver
semplicemente conservato le forze», mormorò
più a se stesso che ad Alex. «Mi chiedo quante
creature siano sopravvissute in realtà...».
L'infermiera deglutì, terrorizzata dalla
possibilità di dover affrontare più di una
creatura magica. La donna misteriosa aveva detto che Freya era una
minaccia che andava fermata e Alex, nonostante a parole avesse
affermato il contrario, non era pronta ad affrontarla. Sarebbe stata
una catastrofe se la dama del lago avesse trovato e risvegliato dal
loro letargo anche solo alcuni dei mostri che Merlino e Artù
avevano sconfitto nelle loro avventure.
«Merlino», provò ad interromperlo, ma il
suo balbettio lo distrasse appena.
«Uhm? Oh, la Triplice Dea. Sì, è una
delle forze primordiali, il centro del culto della Religione Antica. Le
Grandi Sacerdotesse si rivolgevano a lei per qualsiasi cosa, ma
soprattutto perché si diceva che lei controllasse il ciclo
infinito della Ruota d'Argento: il passato, il presente e il futuro; la
nascita, la vita e la morte; il destino di ogni creatura vivente, in
parole povere. Non posso credere che ci fosse lei dietro tutti i
complotti...».
Alex ci riprovò, sforzandosi perché la sua voce
smettesse di tremare. «Avrei dovuto dirtelo prima, ma tu
stavi male e...».
«Aspetta, che hai detto?», la interruppe lo
stregone, cercando i suoi occhi.
«Quando?», gli chiese l'infermiera, confusa dal suo
saltare di pane in frasca. Forse la febbre stava salendo di nuovo,
impedendogli di concentrarsi.
«Hai detto che la Dea non ha preso bene la tua dichiarazione
di guerra. Che cosa intendevi? Quale dichiarazione? Che cos'hai fatto,
Alex?».
«Non lo so, non ho capito che cosa volesse dire Freya. Che
importanza ha? Devo dirti una cosa che...».
«Può essere molto importante, oltre che
pericoloso», ribatté, sottolineando la
serietà della questione prendendole le spalle.
«Hai rivolto un qualche tipo di sfida ai custodi della magia?
Fatto un giuramento?».
L'infermiera raggelò. Ricordò la rabbia e la
frustrazione che aveva provato prima di partire per Londra, quando si
era rivolta direttamente ai custodi della magia, promettendo che
avrebbe cambiato il destino di Artù e Merlino e che avrebbe
fatto pentire i responsabili di tutte le loro sofferenze. A sigillare
quel giuramento, solo ora se ne rendeva conto, aveva piantato il
pugnale regalatole da Artù nel terreno sulla sponda del
fiume immissario di Avalon, intorno al quale, guarda caso, una pianta
stava crescendo a ritmi innaturali: in pochi giorni era passata da
germoglio a pianticella e di quel passo, in meno di tre mesi, Merlino
si sarebbe ritrovato con un nuovo giovane albero nel giardino.
Merlino la scosse, esortandola a parlare, e Alex gli
raccontò tutto con tono distaccato, tant'era lo shock.
«Non bisogna mai sottovalutare la potenza di un
giuramento», mormorò lo stregone dopo
interminabili secondi di silenzio.
Alex abbassò gli occhi umidi di lacrime e aprì la
bocca per chiedergli se anche lui avesse scagliato un qualche tipo di
malezione, ma alla fine optò per una domanda diversa,
più diretta: «Che cosa succederà se non
cambierò il vostro destino?».
Non solo non sarebbe riuscita a salvare Merlino e Artù, ma
avrebbe dovuto pure aspettarsi di essere colpita da un fulmine?
«Ce la farai», le disse dolcemente, sollevandole il
capo con due dita sotto il suo mento perché i loro sguardi
si incrociassero. La sorprese ancora di più con un sorriso,
ma questo non la rincuorò, anzi... la fece stare peggio,
dato che non gli aveva ancora presentato il piatto forte.
«Freya se n'è andata»,
esclamò, esitante. Evitando nuovamente gli occhi limpidi di
Merlino, aspettò che la notizia venisse metabolizzata; poi
aggiunse: «Me l'ha detto Darrell. A quanto pare, gli ha detto
che le loro strade dovevano separarsi, per il bene di
entrambi».
Lo stregone si alzò dal letto e in silenzio, con sguardo
quasi spiritato, raggiunse le finestre che davano sul balcone.
Guardò il cielo privo di stelle, l'espressione assorta. Alex
avrebbe dato di tutto per conoscere anche uno solo dei suoi intricati
pensieri.
«Mi dispiace, avrei dovuto dirtelo subito», disse
pur di spezzare il silenzio, tirando su col naso. «Pensavo ci
fossimo sbarazzati di un problema, ma ora sono sicura che ha qualcosa
in mente. Devi credermi».
«Oh, ti credo. So che è così,
perché la conosco. Ma tu... Come fai ad esserne
certa?», le domandò, voltandosi con le braccia
incrociate al petto.
«Io ho... ho fatto un sogno», ammise e lo stupore
sul volto dello stregone fu più che palese.
«Un sogno premonitore, intendi? Hai visto il
futuro?».
«No», affermò, cercando di aggrapparsi a
quella convenzione con tutte le sue forze.
Fino ad allora si era limitata a dire che nulla di ciò che
aveva visto si era ancora avverato, perciò poteva anche
trattarsi di un sogno come tutti gli altri; ricorrente ed estremamente
vivido, ma pur sempre un sogno. Si rifiutava di credere che tutto
ciò che le aveva detto la donna misteriosa fosse vero, che i
risultati del suo esame di compatibilità per la donazione di
midollo sarebbero stati negativi...
«Non lo so, forse», singhiozzò alla
fine, cedendo sotto il peso dei dubbi.
Merlino lasciò cadere la corazza che si era messo addosso
quando aveva scoperto della partenza di Freya e tornò a
sedersi sul letto, solo che quella volta le avvolse le braccia intorno
al corpo per stringerla a sé e cullarla.
«Shhh. Va tutto bene», sussurrò,
sfiorandole i capelli con le labbra. «Il futuro
può essere spaventoso, ma non è
immutabile».
«Tu sapevi che Artù sarebbe stato ucciso da
Mordred, eppure non sei riuscito a cambiare le cose», gli
ricordò, rendendosi conto troppo tardi della propria
indelicatezza. «Scusami, non volevo...».
«No, hai ragione». Le sollevò il viso
per spazzare via le lacrime con i pollici, gli occhi fissi nei suoi.
«Io non sono stato in grado di cambiare le cose, ma non posso
smettere di sperare, devo credere che
tu possa farlo. Ho
fede in te,
Alex. Come ne avevo in Artù quando dicevo che un giorno
sarebbe stato il più grande di tutti i re».
L'infermiera lo seguì sotto alle coperte, dove si
accucciò con la testa sopra il suo petto. Si
lasciò accarezzare i capelli, mentre con le dita tracciava
disegni concentrici sullo sterno leggermente incavato del moro e
cercava di regolarizzare il proprio respiro, ancora scosso dai
singhiozzi.
«Artù aveva ragione: avrei dovuto riportarla
subito ad Avalon, ascoltare il monito degli Sidhe»,
sussurrò Merlino, passandosi una mano tra i capelli
arruffati.
Alex sollevò gli occhi ed osservò il suo profilo,
notando la mascella contratta per il rammarico.
«Chi sono gli Sidhe?», decise di chiedergli,
fiduciosa che avesse capito male il resto.
«Sono gli altri abitanti di Avalon, un popolo di fate. Li ho
risvegliati io a Pasqua, nel tantivo di parlare con Freya. È
stato allora che ho scoperto che una magia molto potente era stata in
grado di farla uscire dalle acque di Avalon».
Alex venne scossa da un altro tremito quando unì finalmente
i puntini. Come aveva fatto a non capirlo prima? Darrell aveva ospitato
Freya per circa due settimane, ovvero da quando lei aveva ripescato
Excalibur. La linea temporale combaciava perfettamente.
«Sono stata io a liberarla», realizzò,
scioccata. «È tutta colpa mia».
«Ho i miei dubbi», esclamò lo stregone,
stringendola di più a sé. «Freya aveva
avvisato Artù che era sorto una specie di legame tra te e il
lago, quando ti tuffasti per salvarlo. È probabile che sia
stata la magia di Avalon ad attirarti, oppure la stessa Excalibur. E se
così non è stato, ti assicuro che nessuno avrebbe
potuto immaginare una cosa simile, nemmeno io».
Il suo sguardo si adombrò e Alex capì
immediatamente il motivo: rimpiangeva di non averlo saputo. Un tempo
avrebbe voluto riportare indietro Freya, questo era chiaro. E ora? Il
sentimento che provava per lei era davvero svanito oppure, come le
aveva confidato un paio di giorni prima, ardeva ancora, in qualche
angolo remoto del suo cuore?
«Quindi questi Sidhe ti hanno detto di riportare Freya ad
Avalon e tu non l'hai fatto», ricapitolò,
risultando più nervosa di quanto avrebbe voluto dimostrare.
Lo stregone lo notò e voltò il capo per poterla
guardare negli occhi con espressione addolorata, colpevole.
«Continuo a fare lo stesso errore», le
spiegò, risultando davvero mortificato. «Morgana,
Mordred e adesso Freya... Ho sempre sperato che potessero cambiare, che
il buono che c'era in loro potesse tornare a prevalere se avessi dato
loro una seconda possibilità. Freya ha salvato
Artù, la notte in cui ha cercato di rubarti Excalibur. Ha
sacrificato parte della sua magia, che altro non è che la
sua forza vitale, per lui. E Artù non me ne ha voluto
parlare, ma sono piuttosto sicuro che anche lui abbia avuto dei
ripensamenti, quando lei ci ha ospitato a casa di Darrell.
«Ancora una volta ho mal riposto la mia fiducia. Ho esitato e
questo, forse, ci porterà alla rovina».
Lo
stregone sospirò e chiuse gli occhi, ma quando li
riaprì Alex li trovò ancora più tristi
e spenti, antichissimi. Ciò nonostante riuscì ad
arricciare le labbra in un sorriso, per quanto amareggiato.
«Chi ha più colpe, tra noi due?».
La bionda, per l'ennesima volta, fu divorata dai sensi di colpa: come
poteva ingelosirsi in quel modo per via di una donna del suo passato,
dopo tutte le dimostrazioni d'amore di Merlino, lei che giusto quella
mattina aveva stretto tra le mani quelle di Darrell, sentendo le
farfalle nello stomaco?
Alex si puntellò sul gomito e col viso sopra quello di
Merlino, lo fissò intensamente negli occhi. «Non
so nemmeno perché perdi tempo con una stupida come
me».
Il sorriso dello stregone si ampliò e con entrambe le mani
le accarezzò il viso, per poi intrecciarne una tra i suoi
capelli biondi e tenerglieli sulla nuca. «Perché
ho sempre avuto un debole per gli stupidi della famiglia Pendragon.
È mio dovere proteggerli, servirli e...».
«Stai zitto, Merlino», sussurrò prima di
baciarlo appassionatamente.
Il mago portò le mani sotto la sua maglietta e gliela
sfilò, poi invertì le loro posizioni per poterla
guardare dall'alto. «Dovresti riposare», le
ricordò. «Domani hai l'esame per Abby».
Alex non gli rispose nemmeno, afferrandolo per la nuca per poter far
incontrare nuovamente le loro bocche.
Non voleva pensare all'esame, né voleva dormire per paura di
avere altre visioni di ciò che li attendeva.
***
Cathleen frenò bruscamente e mentre Artù si
affrettava a scendere dalla moto per saltare il guardrail e scivolare
giù dalla duna di sabbia per raggiungere la spiaggia, lei si
tolse il casco e gridò a squarciagola il nome del fratello
acquisito.
Si trovava sui frangiflutti, pericolosamente vicino alle onde
ingrossate dal vento; onde che ogni volta che si infrangevano sugli
scivolosi massi a tre punte schizzavano spuma fino a diversi metri
d'altezza.
Il buio era così fitto per via della luna celata dalle
nuvole che il paramedico aveva dovuto lasciare i fari della moto
accesi, puntati sui frangiflutti.
«Ash!», gridò il re di Camelot, correndo
sulla passerella di cemento.
Il ragazzo si voltò e serrò le labbra,
riservandogli uno sguardo fulminante. «Avevi promesso che
avresti mantenuto il segreto».
«Ed è così», giurò
Artù, contando i massi che li dividevano.
«Cathleen non sa nulla».
La sua espressione rabbiosa stonava terribilmente coi brividi che gli
scuotevano il corpo. «Perché dovrei
crederti?».
«Perché ti ho dato la mia parola!».
Ash rischiò di cadere in avanti, spinto da una folata di
vento più forte delle altre. Riuscì comunque a
mantenere l'equilibrio, ma per farlo tirò fuori dalla tasca
della felpa la mano con cui impugnava la piccola pistola che si era
fatto procurare da Inky.
«Ash, ti prego, getta quella cosa!»,
gridò Cathleen, finalmente giunta al fianco di
Artù, coi capelli rosso sangue che le turbinavano intorno al
viso e la voce rotta dall'ansia.
Il ghigno che comparve sulle labbra del moro fece accapponare loro la
pelle.
«Perché dovrei farlo? Ho aspettato fin
troppo!», urlò, osservando l'arma nella propria
mano. «Non sono mai stato coraggioso come te, Cath.
Né ho mai avuto la tua forza. Guardami, sono una
nullità! Ho ventidue anni e non ho ancora dato un senso alla
mia vita! Tanto vale che la faccia finita!».
«Fermo!», gridò terrorizzata Cathleen
quando il ragazzo si portò la canna lucida della pistola
alla tempia. Le lacrime iniziarono a scorrerle inarrestabili sul volto.
«Fermo, per l'amor del cielo!».
«Ash, ascoltami bene», intervenne Artù,
facendo un passo avanti sui frangiflutti. «Anche io alla tua
età mi sentivo una nullità. Nonostante avessi un
padre ricco e tutti mi rispettassero per questo, non avevo niente di
mio. Non mi ero guadagnato niente, né mi ero posto il
problema prima di allora. Un giorno conobbi quello che è
tutt'ora il mio migliore amico, un ragazzo dalle mille risorse,
altruista e testardo. Mi fece notare che stavo facendo il prepotente e
mi sfidò, una cosa che mai nessuno fino ad allora aveva
osato fare. Lui mi ha insegnato a vedere con occhi nuovi le persone che
mi stavano intorno, a lottare per ciò che desideravo, a
meritarmi il rispetto».
«È una storia molto bella»,
esclamò Ash, sarcastico. «Ora posso premere il
grilletto?».
«No! Adesso arriva la parte più bella».
Artù, raccontando il suo incontro con Merlino, aveva
guadagnato qualche metro, ma si era già accorto dello
sguardo circospetto del moro. Per quanto ancora gli avrebbe permesso di
avvicinarsi?
«Qualche tempo dopo, trovai l'amore della mia vita. Era
sempre stata lì, ad un passo da me, eppure non l'avevo mai
notata prima. Mio padre non voleva che stessi con una ragazza di rango
inferiore al nostro, ma io l'amavo... e lei, grazie al cielo, amava me.
Mi ha reso un uomo migliore e l'uomo più felice di questo
mondo».
Il volto pallido di Ash, illuminato fiocamente dai fari della moto di
Cathleen, sembrava quello di un fantasma in lacrime e scosso dai
singhiozzi. Il suo dito si posò con più decisione
sul grilletto e fu allora che Artù fece il passo di troppo,
quello che il moro vide come un'estrema minaccia. L'unico lato positivo
era che ora non puntava più la pistola verso la propria
testa.
«Non ti avvicinare!», gridò.
«A meno che tu non voglia finire agl'inferi con
me!».
«Ci sono già stato. Ma anche tu sai cosa si prova,
non è vero?», rispose Artù, con un
lieve sorriso. «È così che ci si sente,
quando si perde la persona amata. Credimi, lo so perfettamente. Anche
io ho provato lo stesso dolore eppure guardami, sono qui. Non mi sono
puntato una pistola alla testa col desiderio di morire. Ci sono stati
giorni duri più di altri, è vero, ma... col tempo
anche le peggiori ferite guariscono. Mia moglie era una donna
straordinaria e non amerò mai nessuna come ho amato lei, e
non smetterò mai di sentire la sua mancanza,
però...». Artù si voltò
verso Cathleen, alle sue spalle, e le stese una mano perché
la stringesse.
In qualche modo la rossa riuscì a scrollarsi di dosso il
terrore che fino a quel momento l'aveva resa una statua di sale ed
abbozzò persino un sorriso umido, raggiungendo le dita
dell'ex re di Camelot.
«Non ho chiesto io di tornare ad amare», aggiunse
Artù, guardando di nuovo il ragazzo. «Non credevo
nemmeno fosse possibile! Ma è successo. E
succederà anche a te prima o poi, ne sono certo».
Ash fissò intensamente Artù, con le lacrime che
continuavano a rigargli le guance, e poi spostò gli occhi
arrossati sulla sorella, la quale stese la mano libera verso di lui e
gli rivolse un sorriso dolcissimo. Non ebbe bisogno di parole per
convincerlo a gettarsi la pistola alle spalle, nelle onde del mare, e
ad avvicinarsi al raggio d'azione di Artù, il quale non
appena poté l'afferrò repentinamente per un
braccio e lo condusse con sé sulla passerella in cemento,
giusto un momento prima che un'onda anomala si schiantasse sul masso su
cui era stato fino a quel momento e bagnasse le loro schiene con la sua
spuma.
Cathleen, dal trucco ormai completamente sciolto per via delle lacrime,
lo intrappolò in un abbraccio stritolatore, lasciandolo
sfogare nell'incavo della sua spalla, e dopo una dozzina di secondi
cercò lo sguardo di Artù. Gli fece segno di
avvicinarsi con una mano e coinvolse anche lui, strappandogli un bacio
da sopra la spalla di Ash.
Erano ancora lì, aggrappati l'uno all'altro come se ne
andasse delle loro vite - ed era così, dopotutto - quando
degli scoppi nel cielo non li costrinsero a sciogliere l'abbraccio per
alzare le teste.
«Che cosa diamine...?», sussurrò
Artù, rapito dalle stelle cadenti rosse, gialle e verdi che
esplodevano a grappoli, brillando ed illuminando il mare mosso.
«Fuochi d'artificio», gli spiegò a bassa
voce Cathleen, senza farsi notare da Ash. «Vengono sparati in
aria per festeggiare festività particolari».
Ash tirò su col naso, sorridendo verso il cielo illuminato.
Cinque minuti prima stava per spararsi un colpo in testa, morto dentro;
ora guardava i fuochi sparati nel cielo e si sentiva vivo, vivo come
non mai. Ed era tutto merito di Artù.
Si voltò verso il biondo e gli porse la mano, esclamando:
«Avevo ragione a pensare che Cathleen fosse in buone mani.
Grazie, Artù».
Il biondo sorrise e gli strinse l'avambraccio, attirandolo a
sé per un abbraccio con cui gli scompigliò i
capelli sulla nuca. Quando si allontanarono, Cathleen prese da parte
Ash per tirargli un pugno poco sotto la spalla, facendolo gemere dal
dolore. Il ragazzo però ammise: «Me lo
meritavo».
«Sbrighiamoci, la strada è lunga!»,
ordinò la rossa, iniziando ad incamminarsi verso la sua
moto. «Sei in grado di guidare, Ash?».
Il fratello annuì, ma Cathleen costrinse Artù ad
andare con lui. Probabilmente aveva paura che l'istinto suicida potesse
tornare e che lo spingesse a gettarsi giù da un dirupo.
Ash aveva rubato una delle auto d'epoca del signor Shaw, una Bentley S2
decappottabile color grigio perla e dagli interni di pelle rossa, e
seduto al posto del passeggero, Artù lo guardò
accendere il motore e lasciarsi alle spalle gli ultimi fuochi
d'artificio, mentre Cathleen faceva loro strada sulla sua enduro.
«Mi dispiace per tua moglie», esordì
Ash, guardando il biondo con la coda dell'occhio. «Ma in un
certo senso sono felice, perché questo ha permesso a Cath di
incontrarti. Erano anni che non la vedevo sorridere
così».
«Anche io sono felice di averla conosciuta. È
davvero speciale».
«In più, senza di te a quest'ora probabilmente
sarei un cadavere sbatacchiato sui frangiflutti dalle onde»,
aggiunse.
Imbarazzato ed inorridito da quell'immagine, Artù
chinò il capo. «Io non mi darei così
tanta importanza».
«Dovresti. Sei stato in grado di infondermi speranza, e non
è cosa da poco».
Il re di Camelot guardò il mare scorrere oltre il guardrail
di quella strada che costeggiava una parete rocciosa e
ripensò alle parole che Merlino gli aveva detto poco dopo il
suo ritorno da Avalon: anche lui gli aveva confidato di aver rischiato
di perdere ogni speranza e che un uomo senza speranza è un
uomo morto.
Che fosse quello, il motivo per cui era tornato dal mondo degli
spiriti? Il suo compito era quello di dare speranza a Merlino, a
chiunque dovesse lottare quella guerra che non avrebbe nemmeno dovuto
essere la loro?
Era sempre stato bravo con le parole, a fare discorsi di incitamento
prima di andare in battaglia, ma solo se credeva fermamente in
ciò che diceva. Si trovavano in un vicolo cieco, dato che al
pianeta serviva la magia di Merlino e mai e poi mai lui gli avrebbe
permesso di sacrificarsi, nemmeno se fosse stata l'unica
possibilità per la salvezza del mondo.
I piatti della bilancia erano in perfetto equilibrio e solo una persona
poteva far sì che la situazione cambiasse: Alex, la sua
ultima discendente. Assisterla, insegnarle a seguire il cuore e a
lottare per ciò che riteneva giusto, infonderle speranza
quando le decisioni da prendere sarebbero risultate impossibili,
addirittura dolorose... Era quella la ragione per cui era tornato in
realtà. E questo, poco ma sicuro, poteva farlo.
***
Cathleen si ravvivò ancora una volta i capelli e
respirò profondamente, quindi sollevò il pugno
per bussare alla porta di Artù. Si era detta di farlo e
basta, senza pensarci su troppo, ma la sua esitazione le era stata
fatale.
Abbassò il braccio, dandosi della codarda, e si
girò per tornare al capezzale di Ash, a cui aveva dato una
dose ridotta dei sonniferi del padre per aiutarlo a dormire. Si
fermò però, sentendo la porta alle sue spalle
cigolare un poco nell'aprirsi.
«Cathleen», la chiamò sorpreso
Artù.
La ragazza ricambiò il suo sguardo, nonostante fosse certa
di essere diventata rossa tanto quanto i suoi capelli.
«Che ci fai qui?», le domandò.
«Ash sta bene?».
«Sì, sta dormendo. Ero solo venuta a controllare.
E tu... tu come mai sei ancora sveglio?».
Artù si strinse nelle spalle, sfuggendo al suo sguardo.
«Non riesco ad addormentarmi per i troppi pensieri».
Avrebbe dato qualsiasi cosa, persino tutta la propria collezione di
statuette, per sapere quali fossero i suoi pensieri, se anche lei ne
faceva parte. Perché lui si era conquistato un posto in
prima fila nel suo cervello, specialmente dopo ciò che aveva
detto ad Ash per convincerlo a non spararsi.
Aveva detto di essere tornato ad amare... ad amare
lei. E dal modo in
cui il cuore le era esploso nella gabbia toracica, aveva il forte
sospetto che il suo sentimento fosse ricambiato. Ma non aveva il
coraggio di dirglielo, forse per paura che avesse ingigantito le cose.
«Mentre tornavamo, Ash mi ha detto che sono stato in grado di
infondergli speranza», le disse, strofinandosi la fronte.
«È solo una teoria, ma credo che sia questo il mio
scopo: convincere chi mi sta accanto che finché saremo in
grado di stare in piedi e di lottare perché il bene
prevalga, ci sarà speranza».
Cathleen sorrise, sentendo un piacevole calore avvolgerle il cuore e
lenirlo come un balsamo. Probabilmente le sciolse anche il grumo di
paura che le bloccava la gola, perché ammise:
«L'hai fatto anche con me. Anche io ero convinta che non
sarei più stata felice, che non avrei più amato
nessuno dopo Zachary... tu mi hai smentita, hai riacceso in me quel
fuoco che si era affievolito. Sono tornata a vivere, grazie a te, e ti
devo tutto».
Non si era nemmeno accorta di essere avanzata tanto da scorgere i
propri occhi riflessi in quelli blu del sovrano, profondi e gentili,
nei quali si perse. Le sarebbe piaciuto restare lì per
sempre, cullata dalle loro mille sfumature, ma Artù
girò il capo verso la finestra, lasciandosi illuminare il
viso dalla luna che finalmente era riuscita a crearsi un varco tra le
nubi.
Cathleen gli posò una mano sulla guancia, apprensiva.
«Che cosa c'è?».
«Ho un pezzo di spada incantata a pochi centimetri dal cuore
e Avalon mi rivuole indietro... Il mio destino è segnato,
Cathleen, e non voglio che tu ne soffra».
«Guardami negli occhi».
Nonostante uno tsunami interno le stesse sballottando gli organi, la
voce le uscì abbastanza imperiosa da convincere
Artù a rivolgerle ancora lo sguardo.
Dio, con quegli zaffiri
non era necessaria una spada per trapassarle il cuore.
«Ti ho promesso che l'avremmo affrontato insieme, ti
ricordi?».
«Non posso chiederti...».
«Non mi hai chiesto nulla, Artù. Non è
colpa tua se sei tanto sexy da far crollare ogni ragazza ai tuoi piedi,
inclusa me».
Il re abbozzò un sorriso divertito e al contempo
compiaciuto.
«Io... io sono innamorata di te»,
confessò finalmente, sentendo l'enorme peso che le
schiacciava il cuore sgretolarsi e lasciarla molto più
leggera, tanto da farle sbocciare un sorriso beffardo sulle labbra.
«E so di non avere poteri magici, né di saper
combattere, e che le nostre possibilità di successo
oscillano tra poche e nessuna, ma d'altronde... mi sono sempre piaciute
le sfide impossibili».
Artù, per una volta, smise di insistere e si
lasciò convincere dalle sue parole. Le avvolse le braccia
intorno alla schiena e la strinse forte a sé e di nuovo
Cathleen non avrebbe mai voluto allontanarsi dal suo petto, contro il
quale si sentiva protetta e sicura. Non aveva previsto però
quello che sarebbe successo dopo, quando quel desiderio le sarebbe
sembrato una bazzecola in confronto.
Le mani di Artù risalirono la sua schiena per raggiungere la
sua chioma scompigliata e il paramedico alzò il capo per
cercare il suo sguardo, ma ciò che trovò furono
le sue labbra, calde e quasi timide sulle sue.
All'inizio fu un bacio dolce, ma ben presto crebbe di
intensità e la rossa si ritrovò con le dita di
una mano intrecciate ai suoi capelli biondi e le altre artigliate alla
sua spalla, mentre Artù si piegava quel tanto che bastava a
passarle un braccio sotto alle ginocchia per sollevarla e portarla
nella sua camera, dando persino una mandata di chiave alla porta.