Fiery Ocean - Oceano Ardente

di Elianapi
(/viewuser.php?uid=813835)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


✾ UNA PERLA NELLA TEMPESTA 

 

  La tempesta imperversava sullo splendido mosaico di terraferma e canali, per cui Amsterdam era divenuta famosa in tutta Europa, da quelle che sembravano ore, ormai.

  Un inaspettato vento pungente giunto da nordest aveva improvvisamente trasformato il tramonto di quella piacevole serata di fine luglio in un caleidoscopio di colori: il viola, il rosso e l'arancione erano stati inghiottiti, poco a poco, da grossi nuvoloni grigi, fino a quando - il cielo ormai divenuto un'informe macchia d'inchiostro - la pioggia aveva preso a riversarsi al suolo sotto forma di un violento scroscio che sembrava non avere alcuna intenzione di arrestarsi.

  L'intera cittadina era stata letteralmente paralizzata dal maltempo. Le strette viottole in terra battuta, un allegro brulichio di calesse e artisti di strada quando il sole splendeva, si erano tramutate in un guazzabuglio di fango e liquami, mentre i muri delle abitazioni, ora impregnati di pioggia, avevano assunto tonalità cupe, spente. Se qualcuno avesse potuto ammirare la città dall'alto avrebbe avuto la percezione di guardarla tramite una finestra appannata.

  Una tempesta altrettanto devastante, seppur impercettibile a occhi esterni, si stava scatenando nell'animo della giovane Elaine June.

  La ragazza - gli occhi del colore dell'oceano fissi sul riflesso di se stessa, restituitole dallo specchio della toletta - stava meditando sulla giornata appena conclusasi, rivivendo istante dopo istante la crescente frustrazione che l'aveva colta nel momento in cui si era definitivamente resa conto che la sua placida vita di campagna avrebbe avuto molto presto termine.

  Quel pomeriggio suo padre, Erasmus Zwaan, aveva siglato in maniera pressoché irreversibile l'accordo con Sir Reinhard Jenssen, membro della prestigiosa Compagnia Olandese delle Indie Orientali: la giovane June - come le piaceva farsi chiamare per tenere vivo il ricordo della madre - avrebbe presto dovuto sposarsi con il figlio del Commodoro, unendo così le famiglie e preservando, se non accrescendo, le rispettive ricchezze.

  Non che Aksel, il rampollo dei Jenssen, non fosse un bell'uomo, June non poteva mentire a se stessa; tuttavia la giovane non provava nulla per lui, assolutamente nulla, oltre a una blanda amicizia. Amicizia rigorosamente coltivata dai loro genitori fin da quando entrambi erano ancora bambini.

  In aggiunta a ciò, lasciare la sua adorata Scharmer per trasferirsi vicino alla movimentata Amsterdam - più precisamente nell'immensa magione in riva al gelido mare del Nord nella quale si trovava, suo malgrado, ospite al momento -, era una prospettiva atroce per lei. Era abituata a trascorrere le sue giornate passeggiando nelle interminabili serre di tulipani, inestimabile patrimonio della famiglia Zwaan, o galoppando in groppa a Whisper, l'andaluso che aveva ricevuto in dono all'età di dodici anni: come avrebbe potuto sopportare l'inevitabile reclusione in quella gabbia dorata che l'attendeva? Ma soprattutto, come avrebbe potuto rassegnarsi a una vita di coppia fredda e priva d'affetto, quando fin da bambina bramava di vivere le avventure di cui leggeva nei libri?

  Un tuono improvviso strappò con un sussulto June dagli amari pensieri che l'avevano rapita, riportandola alla ancor più amara realtà. La ragazza, poco a poco, prese a disfare l'elaborata acconciatura, pressoché intatta, con la quale aveva dovuto presentarsi al suo futuro marito quel pomeriggio; dopodiché, una volta sciolta sulle spalle, chiazzate qui e là da efelidi, cominciò a passarsi le dita tra i capelli lunghi e biondi.

  Erano tanto simili a quelli della madre, quei capelli - della stessa tonalità dorata e lucente del grano maturo -, che chiunque avesse conosciuto la donna da cui li aveva ereditati non faceva altro che farlo presente alla giovane, senza rendersi conto di quanto, ogni volta, risultasse doloroso per June riportare alla mente la sua mancanza.

  Il solo familiare che le restava era il padre. Padre al quale, tuttavia, non sembrava importare granché di lei, né dei suoi sentimenti. L'unica cosa cui l'uomo si mostrava interessato erano i suoi preziosi tulipani. Egli era, infatti, uno dei più famosi fornitori di quel particolare fiore di tutta Europa. Dalle corti francesi, a quelle italiane, a quelle inglesi: la varietà di tulipano che Erasmus Zwaan importava, lo screziato Semper Augustus, era la più ricercata... e naturalmente la meglio pagata.

  Un'unica, solitaria lacrima scivolò lungo la guancia di June: si sentiva così sola. Non che fosse solita piangersi addosso; anzi, detestava lasciarsi andare alle emozioni, ciò nondimeno quella giornata si era dimostrata molto dura per lei, persino più di quanto avesse immaginato. Costringersi a non dare a vedere il disappunto ma, al contrario, mostrarsi sempre cordiale e affabile con il suo futuro marito le aveva richiesto un enorme sforzo mentale; tanto che, ora, si sentiva stanca e amareggiata al punto da avvertire l'insopprimibile bisogno di sfogare tutto ciò che aveva trattenuto dentro di sé fino a quel momento.

  Pochi minuti dopo, mentre si passava le mani sul viso tirato con l'intento di scacciare ogni traccia del pianto, lo sguardo di June finì per essere catturato da un leggero baluginio nello specchio, acceso dalla fiamma della candela a cui aveva dato vita non molto tempo prima, quando le nuvole avevano oscurato la luce del sole, facendo calare quasi d'improvviso la lussuosa stanza che per quella notte sarebbe stata sua in una penombra forzata.

  Quel lieve scintillio non proveniva che dai suoi amati orecchini, ricevuti in eredità dalla madre al momento della morte, nove anni prima, quando la polmonite aveva definitivamente preso il sopravvento sul suo spirito battagliero. Si trattava di preziosissime perle bianche incastonate da mani esperte in un piccolo bottone di puro oro. Erano piccoli, tanto da scomparire, quasi, tra le ciocche ondulate della giovane.

  D'un tratto, June si rese conto con sgomento che, mentre l'orecchino destro era ancora al suo posto, il sinistro era scomparso, lasciando intravedere solo un minuscolo forellino sul lobo, dove avrebbe dovuto ancora essere.

  Subito la ragazza scattò in piedi, angustiata da quella visione: dov'era la perla? Non poteva averla smarrita. Rappresentava troppo per lei per accettarne la perdita, come se si fosse trattato di un qualsiasi altro monile. Si chinò in tutta fretta sotto la toletta, portando con sé il candelabro per far luce, e prese a cercarla sul pavimento, le gambe lasciate nude dalla leggera sottoveste bianca a contatto con il gelido marmo.

  «No. No, dov'è? Non posso averlo perso, non è possibile» mormorò sottovoce June, tastando dovunque con le mani. Ispezionò la superficie della toletta, controllò sotto il letto a baldacchino e frugò persino tra i preziosi strati del vestito che aveva indossato quel pomeriggio e che si era strappata di dosso non appena messo piede nella stanza. L'aveva abbandonato senza troppi riguardi in un angolo remoto della camera da letto, il più lontano possibile da lei, giacché si trattava di un dono non gradito di Aksel Jenssen. Non si sentiva minimamente in colpa di averlo fatto: era l'ultimo atto di ribellione che le rimaneva da mettere in atto.

  Dell'orecchino, in ogni caso, non v'era traccia.

  D'un tratto conscia di ciò, June si accasciò sul bordo del letto, sconsolata, e si nascose il viso tra le mani. «Madre, perdonatemi. Quelle perle erano tutto ciò che di vostro mi restava. Perdonatemi.»

  Proprio quando la giovane stava per lasciarsi prendere dall'angoscia, un'inaspettata rivelazione la colse: era successo quel pomeriggio, mentre passeggiava nei giardini della magione in compagnia di Aksel. Lui aveva colto un fiore da donarle, una dalia dalle tonalità rosate, e quando in tutta fretta si era voltato per porgerglielo, l'aveva inavvertitamente colpita in viso con la mano. Non le aveva fatto male, ma doveva essere stato in quell'occasione che la perla si era separata dal suo lobo.

  June non perse altro tempo: con l'ausilio del candelabro accese la piccola lampada a olio posta sulla toletta, dunque si infilo la vestaglia di raso, raccolse un lembo della sottoveste tra le dita e, pregando di non incontrare nessuno lungo il tragitto, lasciò le sue stanze, diretta in giardino. Era cosciente che trovare l'orecchino smarrito sarebbe stata un'impresa quasi impossibile, ed era cosciente anche del fatto che fuori imperversava una vera e propria tempesta che l'avrebbe inzuppata da capo a piedi, regalandole - se fosse stata clemente - un tremendo raffreddore, eppure questo non fu sufficiente a dissuaderla dal suo tentativo.

  Una volta in giardino - un immenso parco che da una parte si estendeva per ettari e ettari verso l'entroterra mentre dall'altra incontrava una deliziosa spiaggia bagnata dal Mare del Nord -, la ragazza rimase per qualche istante inebetita di fronte alla furia della tempesta, al pungente odore salmastro che al primo respiro le aveva riempito le narici; tuttavia non perse altro tempo e si diresse a passo spedito verso la fontana poco distante, che intravedeva a malapena attraverso la spessa coltre di pioggia. Ricordava fosse nei suoi pressi che quello sbadato di Aksel Jenssen le aveva fatto dono della dalia, privandola in cambio, seppur inavvertitamente, di uno degli oggetti più preziosi che possedeva.

  Dopo nemmeno una decina di metri percorsi, la sottoveste di June era già intrisa di pioggia, facendola rabbrividire da capo a piedi e battere i denti, e i suoi piedi nudi affondavano impietosamente nel fango, eppure lei non si perse d'animo e, un passo dopo l'altro, finalmente raggiunse la polla d'acqua, una maestosa struttura in travertino edificata da mastri artigiani italiani. Una volta lì, con l'aiuto della lampada a olio che miracolosamente non aveva ancora ceduto all'impeto della pioggia, la giovane prese a cercare con affanno la perla scomparsa.

  Dove poteva essere? Sotto una delle panchine che attorniavano la fontana? In mezzo all'erba? Tra le radici di un albero? O forse se ne era appropriata una gazza ladra? In quel caso, sarebbe stato impossibile recuperarla.

  June non scoprì mai le sorti del suo orecchino: pochi istanti dopo, mentre era troppo intenta nella ricerca del gioiello per prestare attenzione a ciò che accadeva attorno a lei, qualcuno la afferrò alle spalle e la strinse a sé con violenza, strappandole un urlo che si perse nella notte tempestosa.

  Per prima cosa, la ragazza percepì una dolorosa fitta all'altezza delle clavicole, laddove le dita dello sconosciuto avevano artigliato la sua carne; subito dopo, un forte odore di alcol le invase brutalmente le narici, togliendole il respiro. Non da ultimo, una voce maschile, bassa e minacciosa come non le era mai capitato di udire prima, le mormorò all'orecchio, sfidando senza alcuna paura il rombo della burrasca: «Ma guarda un po' che fortuna, stanotte. Anziché un mediocre gioiello rubato, mi capita tra le mani una giovane fanciulla di sangue nobile. Coleman ne sarà soddisfatto.»

  «Lasciatemi!» strillò June, terrorizzata da quanto stava accadendo. Si agitò nella stretta dello sconosciuto, ma quella presa era troppo forte perché la giovane potesse anche solo sperare di riuscire a liberarsi.

  Stentava a credere a ciò che le stava succedendo, chi era quell'uomo? Un bandito? Un corsaro? Un rivale di suo padre? E cosa voleva da lei? Come poteva trovarsi nella magione dei Jenssen senza che nessuno se ne fosse accorto? «Vi prego, liberatemi! Mio padre... mio padre...» Le mancava il fiato, la pioggia le entrava nella bocca e nel naso impedendole di respirare; non riusciva nemmeno a racimolare abbastanza voce per urlare e chiedere aiuto.

  L'uomo, infastidito dal suo incessante dimenarsi, grugnì un'imprecazione e le propinò uno strattone e, così facendo, la fece rovinare a terra.

  Nella caduta, June sbatté la tempia contro lo spigolo di una delle graziose panchine in pietra che decoravano il giardino e l'ultima cosa che udì prima di svenire fu la voce graffiante di quello sconosciuto che diceva nel mezzo di una risata: «Non rivedrai più il tuo caro padre, principessa. Non dove ti porterò adesso.»





Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3687478