ReggaeFamily
Capitolo
quattordici: Who
you think you are?
Senti...
non mi è piaciuto per niente come ti sei comportato ieri sera.
Sappi che non ho nessuna intenzione di rovinare il mio rapporto con
Danilo per le strane idee che ti sei messo in testa. Vedi di
comportarti civilmente e di non provare più a fare ciò
che hai fatto ieri, non mi è andata affatto giù questa
cosa, Marco. Forse non ti è chiaro che sono impegnata e tengo
a stare tranquilla.
Lau,
guarda che non l'ho fatto con malizia, stavo solo giocando...
comunque, va bene... ti starò alla larga, anche se le mie
intenzioni sono state travisate
Stranamente
a me non è sembrato affatto un gesto innocente... sbaglierò
io, ma comunque grazie, meglio se eviti di rifarlo.
Mi ero svegliata di
malumore, incazzata e senza alcuna voglia di scherzare; il ricordo di
quanto successo con Marco la sera prima mi stava martellando in testa
e non ne potevo più.
Così, in preda alla
rabbia, gli avevo scritto un messaggio per mettere in chiaro le cose.
Non volevo assolutamente che si ripetesse, e lui doveva saperlo
subito perché sarebbe partito abbastanza presto per andare a
sostenere il test di ammissione e non lo avrei visto.
Nel frattempo, visto che mi
ero svegliata da poco e ancora stazionavo in bagno, avevo inoltrato
la conversazione con lui anche a Tamara, in modo che sapesse tutto in
tempo reale, e poi ne avremmo parlato più tardi.
Poco più tardi,
mentre finivo di vestirmi, mia sorella ci raggiunse in camera:
sembrava piuttosto sconvolta e si lasciò cadere sul letto con
un sospiro.
«Sul serio quel...
quel... quel cretino ci ha provato con te?! Dopo che ha provato a
baciarmi? Che squallido, oddio, che schifo!» trillò
Tamara con indignazione.
«Già, a quanto
pare, vedendo che tu non ci stavi, se l'è tentata con me. Ah,
no, ma guarda che lui non l'ha fatto con malizia, eh! Sono io
ad aver travisato le sue buone intenzioni, capito? Ma vai a
cagare!» sbottai, aggirandomi come una furia per la stanza in
cerca di una delle mie infradito.
«Come no...»
«Questo è
sempre peggio» commentò Viola, uscendo dal bagno proprio
in quel momento. «Tu, Tami, come stai? Mi sembri un po'
sconvolta... hai una faccia strana...» aggiunse poi.
«Vivi, come fai a
vedere la sua faccia?» scherzai.
«Non so, me ne accorgo
anche se non la vedo! Allora?» incalzò nuovamente la
nostra amica.
«Non vi dico quanto è
stato traumatico il mio risveglio... dormivo così bene, finché
non ho aperto gli occhi a causa delle grida disumane di Simona, voi
non avete idea di quanto l'ho odiata!» raccontò mia
sorella in tono esasperato.
«Ma perché
gridava?» volle sapere Viola, anticipando la mia stessa
domanda.
«Non ho capito granché
perché mi ero appena svegliata, ma stava blaterando a
proposito di voler andare a tutti i costi a prendere i biscotti nella
casa di Nicolò e altre cazzate... c'era Giovi, poverina, che
cercava di farle capire che non era il momento e che ognuno doveva
fare la colazione nella sua stanza, ma lei non voleva saperne di
stare zitta! Pensate che anche Gabriella le ha intimato di piantarla,
il che è grave... oddio, non immaginate il trauma che ho
vissuto!»
Io e Viola eravamo basite.
Possibile che durante questi dannati campi non potesse succedere
qualcosa di normale? Non ne potevo decisamente più.
Ero soltanto felice che
quella sarebbe stata la mia ultima esperienza con i campi.
«In pratica ha provato
ad abbracciarmi e poi ha anche asserito di non averlo fatto con
cattive intenzioni o malizia» stavo raccontando. Ero al
telefono con Danilo, dopo essere rientrata da un veloce giro in paese
alla ricerca di qualche souvenir da regalare ai miei amici e parenti.
«Chi ci crede?»
disse lui con calma.
Forse
troppa calma.
«Appunto. Così
l'ho rimesso al suo posto, gli ho detto che non doveva permettersi
visto che sono impegnata con te e che non mi è piaciuto per
niente il suo comportamento» mi affrettai ad aggiungere.
«Io mi fido di te»
mi assicurò Danilo senza scomporsi.
«Grazie, anche perché
non c'è proprio bisogno di preoccuparsi. È soltanto un
idiota.»
«Se poi dovesse
rifarlo, ci parlo io e vediamo» asserì in un tono che
non aveva nessuna traccia di una qualche minaccia.
«Macché, non si
permetterà, vedrai. Dimmi di te, invece... che combini?»
cambiai argomento, stanca di parlare di Marco e delle sue stronzate.
«Ieri sono andato dal
parrucchiere a farmi sistemare i capelli, oggi stavo aiutando mio
padre a montare il televisore nuovo. Ora siamo in pausa, poi dopo
pranzo riprendiamo.»
«Ma che bravo!»
esclamai con poco entusiasmo.
«Eh, ormai io e mio
fratello siamo grandi, è giusto che lo aiutiamo, dai.»
«Ovvio. Be', Dani, io
ora devo andare... ci sentiamo dopo? E in ogni caso per messaggi,
okay?» gli proposi, sapendo di dover tornare in piscina dagli
altri.
«Certo, va bene. A
dopo, ciao cucciola.»
«Ciao» conclusi,
interrompendo la conversazione. Sospirai tra me e me, contenta che
lui non se la fosse presa per la faccenda di Marco, ma anche un po'
preoccupata per la sua scarsa, inesistente, gelosia. Potevo
considerare normale una reazione del genere?
Mi ritrovai a pensare che
noi donne eravamo proprio complicate: se un uomo si mostrava con noi
troppo geloso, possessivo e pressante, questo ci infastidiva; se un
uomo, al contrario, ci dedicava poche attenzioni e sembrava quasi
distaccato, ci sentivamo trascurate.
Ma forse anche gli uomini
erano strani, perché difficilmente riuscivano a trovare una
via di mezzo tra i due estremi. Chissà perché...
Eravamo a bordo di un
autobus che ci stava conducendo verso la città; erano passate
da poco le cinque e mezza del pomeriggio e gli istruttori avevano
pensato per noi un'attività di orientamento e mobilità
di squadra. Non sapevamo ancora cosa ci avrebbe atteso, ma con i
presupposti di quanto accaduto in precedenza, c'era poco da stare
tranquilli.
Mia sorella si era
appisolata sul sedile e io avevo raccontato le novità su Marco
a Giovanna. Lei non era rimasta affatto sorpresa, forse perché
ormai aveva capito che razza di esemplare fosse lui.
«Ma ti rendi conto?»
bisbigliai, evitando che il resto del gruppo udisse i fatti miei.
Lei
sorrise. «Ripeto: pensavo che farsi una famiglia
significasse qualcosa di diverso.»
Risi. «Questa massima
mi piace, sai? Sei un genio!» le dissi.
«Ma è la
verità. Che squallore, ragazzi miei.»
Il viaggio durò
ancora pochi minuti, durante i quali chiacchierammo del più e
del meno, finché non scendemmo alla stazione degli autobus e
ci riunimmo per ascoltare le dritte degli istruttori.
«Ragazzi, vorremmo che
cercaste un regalo per Marco, visto che lui oggi non è con
noi. Sarete divisi in due gruppi e dovrete, infine, raggiungere la
piazza principale di questa cittadina. A formare le squadre saranno
Laura e Tamara.»
«Perché un
regalo per Marco?!» sbottai.
Lucrezia
sorrise appena. «Lui oggi non c'è, quindi abbiamo
pensato di fargli un pensierino che
possa portargli fortuna per l'esame che ha sostenuto e per il
prossimo che dovrà affrontare
dopo la fine del campo. Almeno sarà una sorpresa».
Non replicai, anche se
sinceramente quell'idea non mi garbava per niente. Finii per
arruolare nella mia squadra Viola e Nicolò, e mia sorella si
ritrovò con Simona, Gabriella e Giorgio.
Fu abbastanza estenuante
portarsi appresso quella piaga di Nicolò, visto e considerato
che spesso camminava troppo in fretta e usava male il bastone bianco;
quell'esperienza mi ricordò quando, al precedente campo, il
ragazzino aveva rischiato di essere investito da un'auto perché
non aveva dato ascolto né a me e Viola, né ai consigli
e le dritte di Lorenzo che aveva cercato di spiegargli più e
più volte come adoperare il suo bastone.
Andò piuttosto bene,
nonostante tutto, ma ci fu un momento in cui stimai profondamente
Nicolò come mai prima d'allora.
Ormai la luce era davvero
poca per me, così avevo sfoderato il bastone e anche io mi
muovevo con il suo supporto, esattamente come i miei compagni non
vedenti. Ci trovavamo in una stradina pedonale, così decidemmo
di camminare uno accanto all'altro e di prenderci sottobraccio per
rimanere uniti, visto che io non ero più in grado di badare a
loro e di capire dove si trovassero esattamente.
Stavamo procedendo
tranquillamente e ormai eravamo quasi arrivati alla piazza
principale, dalla quale poi avremmo raggiunto un qualche negozio per
comprare qualcosa per Marco. A un certo punto un ragazzino in
bicicletta passò accanto a noi, sfrecciando a tutta velocità,
e gridò: «Ma insomma, levatevi dai coglioni!».
Una rabbia incontrollabile
mi invase, ma non feci in tempo a formulare una risposta, che Nicolò
aveva già provveduto: «Deficiente, guarda che siamo
ciechi!».
Io e Viola cominciammo
subito a complimentarci con lui e alla fine scoppiammo tutti e tre a
ridere, contenti di aver fatto valere la nostra posizione e augurando
al tizio ogni male possibile e immaginabile.
Finimmo per recarci in un
tabacchino che affacciava sulla piazza e acquistammo un portacenere
portatile per Marco, giusto per adempiere al nostro compito. Io non
avevo nessuna intenzione di fargli un bel regalo, non era poprio il
caso. Inoltre, era talmente tirchio che non se lo meritava a
prescindere da tutto il resto.
Ci riunimmo con il resto dei
nostri compagni e decidemmo di recarci in un bar per un aperitivo;
erano solo le otto meno un quarto ed era troppo presto per andare a
cena, contando che gli istruttori avevano prenotato per le otto e
mezza in un locale situato in una delle stradine pedonali che
circondavano la piazza.
Prendemmo qualcosa da bere e
poi ci ritrovammo a parlare dell'attività appena vissuta:
Tamara raccontò che aveva avuto molta difficoltà a
orientarsi e che era stato un po' un problema aiutare anche gli altri
ragazzi che stavano nella sua squadra; a noi era andata piuttosto
bene rispetto a loro, se si faceva eccezione per il comportamento
poco collaborativo di Nicolò e il piccolo diverbio con
quell'idiota in bicicletta.
Infine andammo a cena e lì
ci raggiunse Marco, reduce dell'esame e di una giornata lontano da
noi e dall'atmosfera del campo.
Subito cominciò a
raccontare che aveva bevuto un bel po' durante la giornata, che
l'esame era andato decentemente – o almeno così sperava
– e che aveva comprato due bottiglie di non so quale vino
costoso che conosceva lui per offrirle a educatori e istruttori
durante l'ultima sera del campo.
Mi ricordai che ormai
eravamo agli sgoccioli: mancavano solo due giorni alla fine di
quell'esperienza e io non vedevo decisamente l'ora. Volevo rivedere
Danilo, i miei amici e lasciarmi alle spalle tutto ciò che era
capitato durante quei dieci giorni.
«Questo pomeriggio ho
preparato una playlist per la serata di domani» raccontai a
tutti e nessuno in particolare.
Marco non mi rispose, mentre
Tamara e Viola mi chiesero che cosa ci avessi messo dentro. Elencai
qualche canzone, ma dissi loro che sarebbe stata un po' mista e
adatta ai gusti di tutti.
Notai
che Marco evitava di commentare quando io dicevo qualcosa, non
sembrava per niente intenzionato
a parlare con me; doveva essersela presa per quello che gli avevo
detto quella mattina per SMS, ma a me non interessava: avevo soltanto
espresso il mio pensiero, lui era nel torto e avrebbe dovuto scusarsi
con me, anziché cercare di giustificarsi.
A un certo punto si svolse
una scena piuttosto comica e raccapricciante: avevamo appena finito
di mangiare e aspettavamo le nostre crepes dolci. Io l'avevo ordinata
con cioccolato fondente e noci e non vedevo l'ora di tuffarmici
sopra.
Marco, intanto, intercettò
una cameriera e le chiese: «Scusi, mi può portare un
Montenegro?».
Lei annuì e si
allontanò.
Mia sorella, seduta di
fianco a lui, commentò: «Giusto per rimanere leggero e
per non integrare la dose di etanolo già presente nel tuo
organismo».
«Ma cosa vuoi che
sia... tu non mi hai mai visto ubriaco, fidati.»
«E cosa c'entra?»
Marco sbuffò. «Pensa
che una volta sono andato a suonare a un matrimonio, ma mi sono
ubriacato così tanto che a un certo punto sono caduto e ho
sbattuto il mento non so neanche dove. Ero così fuori che non
sentivo neanche il dolore, me ne sono accorto solo perché me
l'hanno fatto notare!» Sembrava divertito dalla sua bravata,
mentre io mi sentivo sempre più disgustata.
«E poi? Sei riuscito a
suonare?» volle sapere Tamara perplessa.
«Sì, sì...
alla fine è andato tutto bene! È stato troppo
divertente!» le assicurò lui in tono soddisfatto.
«Uh, che spasso!
Immagino!» lo prese in giro lei con pungente ironia.
Nel frattempo la cameriera
cominciò a distribuire qualche crepe e consegno anche l'amaro
a Marco, il quale cominciò subito a tracannarlo tutto d'un
fiato.
Poi si voltò verso
Tamara per parlarle, ma lei immediatamente gli si rivoltò
contro: «Marco, girati! Hai una puzza terribile di quello
schifo che ti sei bevuto, mi fai venire la nausea!».
Lui prese a borbottare
qualcosa di incomprensibile, mentre io me la ridevo e commentavo
insieme a Viola, scoprendo che entrambe avrebbero tanto voluto
erigere una statua in onore di mia sorella: era stata davvero mitica!
Rientrammo al residence che
non era ancora mezzanotte, ma eravamo troppo stanchi per fare
qualsiasi cosa.
Così ci gettammo a
letto senza perdere tempo: il giorno dopo ci saremmo dovuti svegliare
piuttosto presto.
Inviai un messaggio a
Danilo, Beatrice e Anna per augurare loro la buonanotte e scivolai in
un sonno senza sogni, troppo sfinita anche per elaborare un qualsiasi
pensiero logico.
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