Giovedì,
28 giugno 2012
Vengo
svegliato dai raggi del sole che entrano dalla finestra e impiego
qualche secondo per rendermi conto di non essere a casa, nella mia
camera, ma in ospedale, e che ieri sera non ho pensato a socchiudere
le veneziane. Quando realizzo davvero dove sono, rischio di venire
preso dal panico ma mi impongo di restare calmo e comincio a
respirare lentamente, fino a sentire il battito del mio cuore
calmarsi. Mi tiro leggermente su e allungo una mano verso il comodino
per prendere il telefono e guardare che ore sono: le 6:27.
Mi
lascio ricadere sul cuscino.
È
ancora presto e stanotte ho anche dormito malissimo, svegliandomi di
continuo, ma sono troppo nervoso per riuscire a riaddormentarmi: tra
due ore e mezza sarò in sala operatoria.
Non
mi pare vero, non mi sembra possibile.
Non
sta succedendo a me.
E
invece sì.
Chiudo
gli occhi provando a dormire, ma non c'è niente da fare; mi
giro e mi rigiro inutilmente nel letto e alla fine mi decido ad
alzarmi e ad andare a fare una doccia per svegliarmi del tutto.
Il
tempo sembra non passare mai; mi metto a giocare alla Play ma sono
troppo in ansia e continuo a sbagliare tutto, così smetto;
cammino nervosamente avanti e indietro per la stanza, messaggiando
con Giulia che si è appena svegliata, poi con Asia che mi dice
che tra poco lei e papà usciranno di casa per venire qui; mi
perdo un po' a guardare gli ulivi fuori dalla finestra e, quando sono
quasi le otto, arriva Ester con un carrello pieno di roba.
“Ciao
Leo, buongiorno!”
“Buongiorno!
Cominciavo a credere che vi eravate dimenticati di me!”
“Dimenticarsi
di te? E come si fa?” mi sorride lei. “Vieni a sederti,
proviamo la febbre.”
“Se
ho la febbre salta tutto?” le chiedo sedendomi sul letto mentre
una parte di me spera di avercela e che effettivamente faccia
slittare l'intervento.
“Solo
se dovesse essere alta” risponde porgendomi il termometro.
“Ah...
non credo di avercela alta, allora!”.
A
dire il vero, di febbre non ne ho proprio: l'intervento non slitta.
“Adesso
sdraiati, devo depilarti la gamba.”
“Non
mi fai la ceretta, vero?” le chiedo mentre mi sdraio.
Ester
ride: “Non ti voglio mica torturare, eh?! Uso questo!”
dice mostrandomi un rasoio elettrico e rido anch'io, sollevato. “Sei
preoccupato?” mi domanda mentre indossa i guanti.
“No,
dato che non mi fai la ceretta!” rispondo io, anche se ho
capito benissimo che la domanda era un'altra.
Lei
capisce subito che non ho voglia di rispondere alla domanda vera
e lascia cadere l'argomento, dedicandosi alla mia gamba, spiegandomi
passo passo quello che fa; mentre la sta asciugando, dopo averla
depilata, dal ginocchio alla caviglia, e dopo averla sciacquata,
bussano alla porta.
“Avanti!”
urlo io, per farmi sentire bene.
“Si
può?” domanda Asia aprendo piano la porta.
“Sì,
vieni!”.
Asia
entra con in faccia un bel sorriso rassicurante che di sicuro deve
aver improvvisato per me prima di aprire la porta e anche papà,
suo malgrado, ci prova; il suo, però, appare molto più
tirato.
Ester
finisce di asciugarmi la gamba e butta tutto nel cestino che c'è
nel carrello; dopo essersi tolta i guanti e aver buttato via anche
quelli, mi porge una busta trasparente con dentro qualcosa di
celestino che non riesco immediatamente ad identificare.
“Cos'è?”
le chiedo perplesso, prendendola in mano.
“Il
camice” mi risponde lei con tono dolce.
“Ah...
ma lo devo già mettere?”
“Sì,
l'anestesista dovrebbe essere qua a momenti. Se vuoi per la cuffia
puoi aspettare.”
“Anche
la cuffia, devo mettere?!” le domando mentre spero che Giulia
non faccia in tempo ad arrivare, così da non vedermi con
questa roba addosso.
Ester
annuisce ed io capisco che più indugio, più cresce la
mia ansia; sospiro, mi alzo dal letto e vado in bagno per cambiarmi.
Non
mi piace.
Questo
camice non mi piace.
Più
mi guardo allo specchio più mi sento ridicolo e a disagio.
Non
riesco a decidermi ad uscire dal bagno.
“Mister
Sorriso! Sei scappato dalla finestra?!”.
È
arrivata Orietta.
Ok,
devo andare.
Esco
dal bagno e noto subito lo sguardo sgomento di papà: a quanto
pare nemmeno a lui piace questo camice. Asia, invece, ha ancora stampato in faccia quel sorriso che vorrebbe essere rassicurante; le verrà
una paresi. Lo so che è in ansia, è inutile che faccia finta di no. Glielo sto per dire, ma poi evito; accenno un saluto ad Orietta e vado a sedermi sul letto.
“Pronto
per la puntura del coraggio?” mi chiede lei mentre la prepara.
Io
ridacchio nervosamente: “Ah, guarda! Non vedo l'ora! Ma ne hai
una anche per loro?!” esclamo indicando Asia e papà.
Orietta ed Asia ridono, papà invece scuote la testa, come a
dire “Sei sempre il solito, eh?!”.
Questa
puntura del coraggio si rivela meno drammatica del previsto: un po'
fastidiosa ma non più di un prelievo di sangue; speriamo che
mi dia veramente coraggio, perché al momento sto messo
malissimo. Mi impongo di fare finta di niente ma sono davvero
terrorizzato: dall'anestesia, dall'operazione, dal dopo operazione e,
se è possibile, ancora di più dal referto.
Orietta
mi mette al polso un braccialetto rosso con su scritto il mio nome,
la mia data di nascita e il mio gruppo sanguigno e poi se ne va,
dicendomi che ci vedremo dopo in sala operatoria.
Giulia
arriva quando ormai Ester e un infermiere che non conosco mi stanno
trasportando fuori dalla stanza, seduto sul letto, che ha le ruote;
ha il fiatone perché è arrivata di corsa e i suoi
capelli sono insolitamente in disordine.
“Scusa...”
mi dice con un filo di voce; è imbarazzata, non so se più
dalla presenza di mio padre, dall'ospedale, dagli infermieri o dalla
mia orribile tenuta. “Mia madre mi ha fatto perdere un sacco di
tempo!”
“Non
preoccuparti” le rispondo sorridendo. “Ci vediamo tra due
ore!”.
Lei
annuisce nervosamente e poi si sposta per lasciarci passare. “Ok,
a dopo”.
Mi
giro a guardarla e vedo che ha lo sguardo basso e sta giocando
nervosamente con l'elastico per capelli che ha al polso.
“Giulia!”
la chiamo, e lei, colta di sorpresa, lascia andare l'elastico di
scatto e mi guarda. “Tra un paio d'ore sono qua. Giuro!”;
lei sorride ed io sollevo una mano per salutarla.
La
puntura del coraggio
sembra avere un po' funzionato; sono meno spaventato e più
pronto ad affrontare la situazione, anche se, potendo scegliere, mi
alzerei da questo letto e scapperei fuori dall'ospedale nel giro
di due secondi, anche vestito così.
“Ciao
fratellone, fagli vedere chi sei!” esclama Asia dandomi un
bacio quando arriviamo davanti all'ingresso del Blocco Operatorio di Chirurgia.
“Vedrai
che senza rendertene conto sarai già in stanza” mi dice
papà sforzandosi di apparire rassicurante mentre il tono della
sua voce e i suoi occhi tradiscono tutta l'angoscia che sta provando;
apprezzo il tentativo e annuisco sorridendo.
“Adesso
lasciami la mano, però!” rido; è così
nervoso che non si è nemmeno reso conto di starmela quasi
stritolando.
“Sì,
scusa” dice imbarazzato, lasciandola di botto.
“Andiamo,
Leo?” mi domanda Ester.
“Sì,
andiamo”.
Quando
oltrepassiamo la porta del Blocco Operatorio, quel po' di coraggio che avevo raccattato comincia drasticamente a diminuire, fino a svanire
completamente nel nulla quando Ester se ne va ed io mi ritrovo steso sul tavolo operatorio con intorno tutti quei camici verdi di cui conosco solo Orietta e il dottor Abele; la situazione peggiora ancora quando cominciano a girarmi attorno attaccandomi flebo, elettrodi e altre robe che non so davvero a cosa servano.
“Pronto
a farti un bel viaggio, Mister Sorriso?” mi chiede Orietta
avvicinandosi a me.
No,
non sono pronto.
Non
mi va di perdere coscienza e di rimanere in balìa di tutta
questa gente che non conosco e di cui non vedo nemmeno bene le facce,
coperte dalle mascherine.
La
voglia di alzarmi e andarmene è ancora forte e prepotente.
“Vai,
fammi fare un bel trip!” le rispondo ridacchiando nervosamente.
Lei ride e poi inietta l'anestesia nella cannula della flebo che ho già
nel braccio; è l'ultima cosa che ricordo della sala
operatoria.
Giulia
non se l'è sentita di seguire Leo fino a Chirurgia per poi
rimanere lì ad aspettare con suo padre e sua sorella; sa già
che si sarebbe sentita a disagio. Adesso, però, non sa dove
andare e non sa cosa fare per ingannare il tempo. Saperlo in sala
operatoria le provoca una morsa allo stomaco e una sensazione di
impotenza che non le piace affatto; non è mai stata operata e
non riesce proprio ad immaginare come Leo debba sentirsi in questo
momento; lei sarebbe spaventata a morte, al suo posto; lui, invece,
appariva molto tranquillo e ha sfoderato lo stesso splendido sorriso
di sempre quando l'ha salutata.
Cammina
a lungo per i corridoi per cercare di scaricare la tensione e, quando
si ritrova a passare davanti al bar, decide di fermarsi a mangiare
qualcosa: per colpa dell'ansia, a casa non è nemmeno riuscita
a fare colazione; prende un cornetto al cioccolato e un frappè
alla banana e si siede a un tavolino, sovrappensiero.
Non
riesce a smettere di pensare a Leo e a tutto quello che sta
capitando; è preoccupata. Lui le ha giurato che tra due ore lo
rivedrà (un'ora e mezza, anzi, dato che mezzora è già
passata), ma questo non è abbastanza per tranquillizzarla.
L'intervento la spaventa, certo, ma ancora di più la spaventa
l'esito e ciò che potrebbe avvenire dopo;
la spaventa come potrebbe cambiare la vita di Leo e, di conseguenza,
anche la propria; ne è terrorizzata.
Continua
a girare nervosamente la cannuccia dentro al bicchiere per mescolare
il frappè, non decidendosi a berlo; ha fame, ma un tremendo
senso di oppressione le chiude lo stomaco e le lacrime sono
pericolosamente vicine: ha la vista già appannata; cerca di
fermarle in tutti i modi: sollevando la testa verso l'alto,
sventolando gli occhi con le mani, chiudendoli, ma non c'è
niente da fare e le lacrime cominciano a scendere, sbavandole il
mascara; prende un fazzoletto di carta dalla borsa, cercando di
frenarle, di arginarle, ma l'unica cosa che può fare è
asciugarle mentre scorrono.
È
allora che una donna, vestita da pagliaccio, le si avvicina
porgendole un palloncino modellato a forma di fiore: “Un fiore
per il tuo sorriso!”.
Giulia
la guarda per un attimo, disorientata, poi allunga la mano a prendere
il palloncino, sforzandosi di sorriderle: “Grazie”
mormora sorridendo di nuovo, stavolta con più convinzione.
“Grazie
a te per il tuo bel sorriso! Non so perché piangi, ma vedrai
che andrà tutto bene...” le dice la donna con dolcezza.
“Stanno
operando il mio ragazzo... e stare qui ad aspettare è...
tremendo.”
“Hai
ragione. Stare ad aspettare è davvero tremendo.”
“Lei
è gentile ad alleggerire le attese degli altri, facendoli
sorridere...”
“Ad
essere onesta..., è la mia di attesa che alleggerisco in
questo modo...”.
Giulia
la guarda con aria interrogativa, non sapendo se sia il caso o meno
di chiederle qualcosa.
“Mio
figlio Rocco è ricoverato qui” le spiega la donna. “È
in coma da diciotto giorni.”
“Mi
dispiace...” mormora Giulia sentendosi inadeguata a dire
qualsiasi altra cosa.
“Ma
non ci siamo ancora presentate! Io sono Piera” dice la donna
tendendo la mano con un sorriso.
“Giulia.
Molto piacere!” esclama stringendole la mano.
“E
il tuo ragazzo come si chiama?”
“Leo.”
“Leonardo?”
“No...
Leone” sorride Giulia.
“Oh!”
esclama Piera sorpresa. “Di nome e di fatto?”.
Giulia
sorride di nuovo, compiaciuta: “Sì, di nome e di fatto!”
“Stai
tranquilla allora, con un nome così...!” le dice Piera
prima di salutarla e proseguire per la propria strada per andare a
regalare in giro altri palloncini e altri sorrisi.
Leo è stato riportato
in stanza da quasi due ore e sta ancora dormendo.
L'anestesista
ha assicurato che, dopo meno di un'ora passata in sala risvegli,
lui ha ripreso conoscenza e che adesso sta semplicemente dormendo:
la sonnolenza è una conseguenza normale dello smaltimento
dell'anestesia; nonostante ciò, Asia non può fare a
meno di guardare suo fratello con apprensione, senza allontanarsi
dalla poltrona vicina al suo letto; fissa il suo torace alzarsi ed
abbassarsi, ascolta il suo respiro lento e regolare, osserva il suo
viso pallido che finalmente sta riprendendo un po' di colorito. È
rimasta accanto a lui per tutto il tempo, tranne per dieci minuti in
cui suo padre ha insistito affinché
andasse al bar a mangiare qualcosa; è andata a prendersi un
panino al volo, per poi tornare subito da Leo, ad attendere, insieme
a lui e a Giulia.
Adesso,
lei e Giulia, sono da sole, perché suo padre è andato a
parlare col dottor Abele e con la dottoressa Lisandri e non è
ancora tornato. Leo, di sicuro, si arrabbierà quando saprà
che i medici hanno parlato prima col padre piuttosto che con lui, ma
stavolta dovrà farsene una ragione.
Asia
e Giulia parlano a bassa voce di molte cose, mentre aspettano: di
serie tv, di musica, di quel nuovo negozio di vestiti che ha aperto
in centro, del liceo di Giulia, dell'università di Asia, ma
non di Leo, non dell'operazione, non di ciò che potrebbe
avvenire dopo.
È
impossibile per entrambe condividere le proprie preoccupazioni e le
proprie paure più profonde; cercano di non pensarci, e così
chiacchierano di tutto e di niente; smettono immediatamente quando si
accorgono che Leo ha cominciato a muoversi e che si sta svegliando;
restano ad osservarlo, in silenzio, e poco dopo lui apre gli occhi e
le vede. “Bentornato fra noi” sorride Asia
prendendogli la mano. “Ma mi hanno operato per davvero?”
domanda lui con voce bassa e rauca. “È
tutto confuso”. “Sì che ti hanno operato per
davvero!” gli dice Giulia sorridendo, sfiorandogli le labbra
con un bacio. “Come ti senti?” “Rincoglionito.” “È
normale. Tra un po' passerà” lo rassicura Asia.
“Ma
siete sicure che mi hanno operato? Non sento niente alla gamba... Non
mi fa male...”.
Asia
indica allora la flebo: “Credo ti stiano riempiendo di
antidolorifico”.
Leo
osserva la sacca della flebo e poi si guarda intorno: “Papà
dov'è?”.
Asia
vorrebbe mentirgli per non farlo agitare ma sa che mentire, e
soprattutto con Leo, non è mai la scelta giusta: “È
andato a parlare con i medici”.
Il
viso di Leo cambia subito espressione e si contrae duramente: “Come
sarebbe?!” domanda tirandosi su a sedere di botto e lasciandole
la mano.
“Lo
sai, Leo. Devono spiegargli com'è andato l'intervento...”
“Voglio
parlarci anch'io!” urla Leo, o almeno ci prova, perché
la voce gli esce strozzata; ha gli occhi lucidi di rabbia, il respiro
accelerato e sta tremando nervosamente.
Giulia
rimane a guardarlo, sentendosi impotente, mentre Asia prova a farlo
calmare: “Vedrai che tra poco torna papà e ti spiega
tutto” gli dice con dolcezza, poggiandogli una mano sul
braccio.
Leo
alza il braccio, facendo cadere la mano di Asia nel vuoto e la
guarda, pieno di rabbia e frustrazione: “Papà?!
Figurati! Papà non è mai stato in grado nemmeno di
dirmi quando dovevo fare i vaccini! Ha sempre lasciato tutto il
lavoro sporco alla mamma!”.
Asia
sospira e decide di non insistere oltre: quando Leo ha quella
tempesta negli occhi è meglio lasciar perdere. Lui guarda
fisso la parete davanti a sé, stringendo i pugni; sembra sul
punto di piangere ma si trattiene.
Giulia
rivolge ad Asia uno sguardo preoccupato e si sforza di trovare
qualcosa da dire, ma prima che possa parlare bussano alla porta.
“Scusatemi,
mi è sembrato di sentire la voce di Leo...” dice Ester
aprendo la porta e sorridendo nel vedere che Leo si è
svegliato. “Sei sveglio, allora! Come ti senti?” gli
domanda, entrando e avvicinandosi a lui. Leo continua a guardare
dritto e non le risponde, ma il sorriso di Ester non si spegne, anzi,
diventa ancora più dolce. “Ti andrebbe di bere un sorso
d'acqua?”. Leo a questo punto la guarda e annuisce in
silenzio. Ester prende la bottiglia d'acqua dal comodino e ne riempie
meno di mezzo bicchiere. “Cominciamo con questa” dice
avvicinandoglielo alle labbra. “Mandala giù lentamente”.
Lui
vorrebbe protestare, dirle che è benissimo in grado di bere da
solo, ma decide di lasciarla fare senza opporsi; beve l'acqua,
donando sollievo alla sua bocca e alla sua gola terribilmente secche
e poi rivolge ad Ester un sorriso di ringraziamento appena accennato.
“Come
ti senti?” gli domanda di nuovo mentre gli sente il polso,
sperando che stavolta lui le risponda.
“Ho
mal di gola” risponde Leo con tono scontroso.
“Passerà
presto, è dovuto all'intubazione. Altro? Nausea? Brividi?”
“No.”
“Proviamo
la febbre” dice Ester tirando fuori un termometro dalla tasca.
“Ok?” “Faccio da solo” risponde Leo
allungando una mano verso di lei per prenderlo.
“Va
bene, tieni”. L'arrivo di Ester è riuscito ad
allentare un po' la tensione; Leo sembra più tranquillo, anche
se ha ancora quell'espressione corrucciata e tesa; ha la testa
abbandonata contro la parete ed evita volutamente ogni sguardo,
fissando il soffitto; sembra ancora più giovane della sua età
e, nonostante quell'atteggiamento da duro, ha tutta l'aria di essere
totalmente indifeso; passa una mano sulla giacca del pigiama
dell'ospedale, stendendo una piega immaginaria e chiedendosi chi
glielo abbia messo; è di un azzurro pallido, è morbido
e profuma di pulito.
Il
suono del termometro pare riscuoterlo all'improvviso: se lo toglie,
lo porge ad Ester e poi la guarda dritta negli occhi: “Ester,
voglio parlare col dottor Abele e con la Lisandri. Gli dici di venire
qui?” “Avrai senz'altro modo di farlo, sono sicura che
più tardi verranno da te” prova a rassicurarlo lei,
guardando il termometro. “Hai un po' di febbre, ma è
normale. Ci riesci a startene tranquillo per un po'?”.
Leo
scuote la testa con decisione: “No, non ci riesco!” le
dice alzando la voce che ancora una volta risuona rauca e strozzata.
“Devo sapere. Devo sapere se hanno tolto tutto o se...”.
Si
zittisce e distoglie lo sguardo, tornando a guardare la parete,
stringendo i pugni; nessuno osa dire niente fino a che non è
di nuovo lui a parlare, con la voce che trema: “Devo sapere
cosa mi aspetta adesso”. Ester sa benissimo che non
si può discutere con un ragazzo arrabbiato e spaventato: con
le emozioni che lui sta provando in questo momento, qualsiasi
discorso sarebbe inutile, persino con un adulto, figuriamoci con un
adolescente; seppure un adolescente come Leo lei non l'abbia mai
conosciuto. Lo guarda trattenere orgoglioso le lacrime, lo guarda
stringere il lenzuolo con rabbia fino a farsi sbiancare la mano,
testardo, risoluto, forte, eppure allo stesso tempo così
fragile nel suo dolore. È una visione che le provoca una morsa
al petto.
“Va
bene” gli dice accarezzandogli i capelli. “Vado dalla
Lisandri a chiedere quando pensa di venire a parlare con te,
d'accordo?”
“Grazie”
risponde lui deglutendo.
Subito
dopo Ester, anche Asia esce dalla stanza con la scusa di un caffè
ma, di sicuro, l'ha fatto per lasciarmi da solo con Giulia che finora
è rimasta in disparte e stranamente silenziosa.
“Vieni”
le dico spostandomi un po' a sinistra per farle posto sul letto; lei
si siede accanto a me, senza dire niente, ed io le passo il braccio
intorno alle spalle.
“Non
è da te essere così silenziosa...” le dico mentre
si rannicchia contro il mio petto e comincia ad accarezzarmelo con la
punta delle dita, come sovrappensiero.
“Non
so cosa dire” mi risponde sollevando la testa per guardarmi.
Mi
accorgo solo adesso che ha l'aria molto stanca e gli occhi rossi di
qualcuno che ha pianto tanto; mi dispiace vederla così.
“Sei
qui da stamattina, forse dovresti andare a casa...” le dico
accarezzandole i capelli.
“No,
voglio restare qui con te”; torna ad appoggiare la testa sul
mio petto, si stringe a me e sento che comincia a piangere.
“Ehi!”
le dico sollevandole il viso per guardarla negli occhi, sorridendo.
“Più
felici che possiamo, no?"; lei accenna un sorriso ed io le
sfioro le labbra con un bacio. Ci
stacchiamo di botto quando sentiamo bussare alla porta, ma Giulia non
fa in tempo a scendere dal
letto che la porta già si apre ed entra la Lisandri, seguita dal dottor
Abele e da mio padre. “Eccoci qua Leo” dice
la Lisandri. “Mi hanno riferito che hai chiesto insistentemente
di noi”.
Io annuisco e istintivamente
stringo forte il lenzuolo con una mano mentre Giulia,
imbarazzatissima, scende dal letto. Ho un nodo in gola che mi
impedisce di parlare e questa sgradevole sensazione peggiora quando
noto lo sguardo smarrito di papà e il sorriso che mi rivolge:
si vede che è contento e sollevato nel vedermi sveglio, ma ha
un non so che di malinconico e triste.
Vorrei che mi dicesse
qualcosa, che si sedesse qua vicino a me, che mi prendesse la mano.
Mamma lo farebbe.
Ma lui no, lui non ci
riesce, lui fa fatica a guardarmi e non mi dice niente.
Quando il dottor Abele e la
dottoressa Lisandri si avvicinano a me e si fermano ai piedi del
letto, tutto quello che vorrei chiedere loro sparisce dalla mia la
testa. La Lisandri mi guarda dritto negli occhi, a lungo, come se
riuscisse a leggervi dentro; il suo sguardo, invece, per me risulta
assolutamente indecifrabile.
“Preferisci parlare
con noi da solo, immagino” interviene il dottor Abele.
“Sì” gli
rispondo con il cuore che mi rimbomba fin nelle orecchie.
“Ok” dice Giulia
afferrando la sua borsa, con gli occhi ancora lucidi. “Ci
vediamo dopo, allora”.
Le sorrido con dolcezza
mentre esce alla svelta dalla stanza e poi incrocio lo sguardo di mio
padre; lui sostiene il mio per qualche istante, poi non ce la fa e lo
abbassa, come arreso; si volta ed esce anche lui, senza dire niente.
“Allora Leo, come ti
senti?” mi chiede la Lisandri sedendosi ai piedi del letto.
“Non perdiamo tempo,
dottoressa. Sono pronto, ditemi” riesco a dire con voce ferma,
tenendo le spalle ben dritte e guardandola negli occhi. “L'avete
tolto?”.
La Lisandri si volta verso
il dottor Abele, che è rimasto in piedi, ed è lui a
parlare: “No. Abbiamo solo prelevato il campione osseo da
analizzare, ma non siamo riusciti ad intervenire sul tumore perché
è troppo esteso”.
Le sue parole mi gelano il
sangue e mi fanno abbassare lo sguardo.
Non è solo quello che
mi ha appena detto.
È
soprattutto quello che non mi ha
detto.
Mi sembra che qualcuno mi
stia stringendo la gola con forza.
Non può essere.
Non sta capitando a me.
Mi mordo nervosamente le
labbra, poi sollevo di nuovo lo sguardo su di loro: “Quindi è
maligno?” domando deglutendo dolorosamente.
“Leo, questo non si
può dire finché non avremo l'esito della biopsia”
mi dice la Lisandri.
Cazzo! Quanto mi sembra
stupido e ipocrita quello che mi sta dicendo!
Nonostante la paura che mi
annebbia il cervello, riesco a mantenere la mia lucidità e a
rifiutare quel misero tentativo di prendere tempo: “Voglio la
verità!” affermo risoluto guardandola negli
occhi.
“Questa
è la verità”
ribatte la Lisandri impassibile. “Prima dell'esito non possiamo
pronunciarci”.
“Ma andiamo!”
urlo sbattendo i pugni sul materasso con rabbia. “Avrete già
un'idea, no?! La biopsia serve solo a confermare quello che già
sapete, no?! Avanti!”
“Sì, abbiamo
un'idea” mi dice il dottor Abele con la sua solita calma. “Ma
speriamo di sbagliarci.”
“E se non vi
sbagliate, eh?! Se non vi sbagliate che cos'ho?!”
“Un osteosarcoma”
mi risponde pronunciando quel nome come se gli costasse un'enorme
fatica.
“Un osteosarcoma...”
ripeto io meccanicamente; non so esattamente cosa sia, ma già
solo la parola mi appare orribile e spaventosa.
“È un tumore
osseo, maligno” aggiunge la Lisandri. “E tende ad essere
piuttosto aggressivo”.
L'ho chiesta a gran voce ed
eccola qui.
La verità.
Non credevo fosse così
difficile da ascoltare.
Da accettare.
Adesso preferirei tornare
indietro.
Non avere insistito per
saperla.
Avrei preferito che mi
mentissero.
Avrei preferito godermi
ancora qualche giorno di illusione.
E invece eccola.
La
verità.
L'ho
voluta io, ma adesso mi sento annientato.
“Voglio alzarmi”
dico spostando il lenzuolo che mi copre.
“Va bene”
annuisce la Lisandri alzandosi dal letto. “Se te la senti puoi
andare a fare due passi.”
“Mi toglie
quest'affare?!” esclamo agitando il braccio con la flebo.
“No Leo, quella devi
tenerla almeno fino a domani.”
“Perché?! Mi
sento bene!”
“Ti senti bene perché
ti stiamo somministrando gli antidolorifici, ti assicuro che senza
non riusciresti ad alzarti.”
“Proviamo!”
“No, non te la tolgo e
su questo non si discute.”
“Ma...”
“No. Ti stiamo
somministrando anche gli antibiotici e l'antiemetico. Comunque l'asta della
flebo ha le ruote, quindi puoi portartela dietro”.
Mi arrendo e non ribatto
più, mettendo le gambe giù dal letto.
“Alzati lentamente”
mi dice la Lisandri avvicinandosi a me. “Potrebbe girarti la
testa”.
Mi alzo piano come mi ha
detto, ma non avverto nessun malessere; infilo le infradito, afferro
l'asta della flebo e comincio ad andare verso la porta.
“Non affaticarti
troppo” mi avverte la Lisandri. “Il fatto che non senti
il dolore potrebbe farti strafare. Ti voglio in stanza tra mezzora al
massimo”.
Mezzora.
Me la farò bastare.
Percorro il corridoio fino
all'ascensore, sperando di non incontrare Giulia, Asia o mio padre.
Non voglio vedere nessuno.
Nessuno a parte loro.
I Braccialetti Bianchi.
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