Capitolo 28
Il frutto della verità
- Seconda
parte -
Immagine dal film “Padre e figlio”
Lago
di Schlachtensee, 1 settembre 1962
L’acqua
del lago brillava al sole, ancora alto e caldo nel cielo limpido di un
pomeriggio di inizio settembre. Le ore che preferiva. Il silenzioso fruscio
degli alberi, il flebile cinguettio degli uccelli, il melodioso e ritmico sussurro
delle onde che accarezzavano le sponde facevano da cornice ai suoi pensieri.
Nadine si sentiva sola e ricercava la solitudine nella quiete del suo rifugio.
Era uscita di casa senza lasciare neanche un biglietto ma Werner sapeva bene
dove avrebbe potuto trovarla. Davanti ai suoi occhi socchiusi dal vento leggero
era fissa l’immagine di una valigia aperta sul letto e nel suo cuore si annidava
la rassegnazione per l’imminente e definitiva separazione. Il
giorno seguente, Andrej sarebbe partito alla volta di Cracovia per conoscere il
suo padre biologico, un ebreo polacco sopravvissuto al campo di concentramento
di Mauthausen, lì dove invece sua madre si era spenta alcuni giorni dopo averlo
dato alla luce e affidato al generoso coraggio di un’infermiera. Werner lo avrebbe
accompagnato in questo viaggio. Tra lui e Nadine si era innalzato un muro di
silenzio per la mancata comprensione e condivisione del dolore che li
attanagliava. Per Nadine erano incomprensibili, quasi irritanti la calma, la
pazienza, la forza, la determinazione di suo marito nella ricerca dei genitori
naturali di Andrej, confondendo questo atteggiamento con un sentimento di
distacco mentre Werner non riusciva a capire la passività di sua moglie,
scambiandola per una forma di egoismo verso il loro figlio. Al dolore
aggiungevano altro dolore. Il vento soffiava un po’ più forte sul lago e tra i
suoi capelli mentre il tempo scorreva, avvicinando inesorabilmente il momento
del distacco. Diciassette anni prima per amore aveva accolto Andrej nella sua
vita, ricercando inizialmente la propria felicità nella realizzazione di sé
come madre e adesso per amore avrebbe dovuto lasciarlo andare via, desiderando
soltanto il suo bene e la sua felicità. “Nadine!” Una voce familiare la raggiunse
come un sussurro lontano. Non si volse e si limitò ad ascoltare il suono dei
passi che si avvicinavano schiacciando rami secchi, ciottoli e foglie cadute.
“Werner!” Quando fu troppo vicino dovette alzare lo sguardo e abbozzare un
lieve sorriso. “Sapevo che ti avrei trovato qui.” Seppur pacata, dalla voce di
Werner si percepiva un tono di rimprovero. Nadine rispose con un debole sospiro
mentre suo marito le sedette accanto. “Non ti sei presentata a lavoro e sei
sparita senza lasciare neanche un biglietto. Anche Kurt era in pensiero per
te.” Il rimprovero si palesò nella voce più decisa. Nadine sbuffò, alzando gli
occhi al cielo e provocando la reazione di Werner. “Credi di essere l’unica a
soffrire per questa situazione?” disse spazientito, costringendo i loro sguardi
ad incrociarsi. Da troppo tempo la donna non rifletteva il volto di suo marito:
la luce del sole rivelava tanti altri fili d’argento fra i suoi capelli biondi;
nuove, piccole rughe sottolineavano gli angoli dei suoi occhi verdi, tristi e
stanchi di lacrime più amare. Lo guardò con uno sguardo diverso, quello di un
tempo, capace di entrare nei suoi sentimenti e provarli sulla propria pelle e
capì che forse proprio lui avrebbe avuto la parte peggiore in quella
situazione. Gli aprì di nuovo il cuore e si spogliò di quell’inconfessato
egoismo. Nadine non era più sulla difensiva e, sotto il velo di lacrime che le
copriva gli occhi, Werner riuscì a scorgere la sua paura e il suo smarrimento.
Lasciò che la tenerezza gli accarezzasse il cuore e, con uno slancio improvviso,
strinse fortemente a sé la donna amata, persa e ritrovata. Entrambi scoppiarono
in un pianto più eloquente di mille parole e in quell’abbraccio, così forte
quasi da togliere il respiro, svanì ogni ombra di rancore. Tra le braccia l’uno
dell’altra ritrovarono la cura al loro dolore e, tra le note dei loro cuori che
di nuovo vicini battevano all’unisono, la forza per affrontarlo. Il muro era
stato abbattuto.
Cracovia,
2 settembre 1962
Il
viaggio durò una vita intera. Guidava Werner, tenendo gli
occhi fissi sulla strada e il cuore rivolto ai momenti trascorsi con suo figlio
Andrej: i giochi, le passeggiate in bicicletta, le feste comandate, i pomeriggi
al lago nel buffo tentativo di pescare, le risate, le sgridate, i primi
conflitti, i silenzi, le giornate da raccontarsi a tavola … la quotidianità di
una famiglia come tante. Negli ultimi mesi si era fatto in quattro,
sacrificando tempo e denaro, per strappare alla propria vita il bene più
grande. Diventare padre lo aveva fatto crescere come uomo. Il pensiero di dover
essere forte e superare le ferite del passato per un altro, più fragile e
bisognoso di cure, lo aveva realmente rafforzato e guarito. Lo aveva cambiato.
Nadine ne era stato il motivo mentre Andrej il fine. Con l’animo in preda a
sentimenti contrastanti, Werner non sapeva se augurargli un incontro deludente
o un riavvicinamento positivo con tanto di lacrime e abbracci. Non voleva
perderlo ma nemmeno vederlo soffrire e un po’ temeva per ciò che avrebbe potuto
trovare dietro quella porta dal momento che, in diciassette anni, quell’uomo
non aveva neanche provato a cercarlo. Anche se teso, Andrej sembrava ottimista.
“Ecco, siamo arrivati.” fece Werner con voce strozzata, parcheggiando
l’automobile davanti a un palazzo di nuova costruzione. Lo guardò di sottecchi:
Andrej indugiava ad uscire, tormentandosi le mani a testa bassa. Dopo qualche
secondo, ricambiò lo sguardo e ruppe un silenzio lungo due mesi. “Grazie per
tutto quello che hai fatto per me in questi mesi. So che non è stato facile. E
per tutto ciò che mi hai dato in questi anni. Dopotutto sei stato un buon
padre.” disse, con un’aria quasi di sufficienza. Ma Werner non si aspettava
così tanto e ne fu commosso. Riuscì a biascicare solo un “grazie”, trattenendo
con un sorriso le lacrime, mentre Andrej apriva lo sportello e lo guardò
sparire velocemente nella penombra del portone.
Al
primo gradino Andrej si fermò: si era reso conto di non aver preparato nessun
discorso. Sentì il cuore battere un po’ più forte e la sicurezza sulla sua
capacità di improvvisare al momento venir meno. Fermò ancora il suo incedere
lento e volse lo sguardo all’ultima rampa di scale. I gradini sembravano
altissimi e non avere mai fine, grosse gocce di sudore gli grondavano dalla
fronte aggrottata per la tensione e diede il nome di paura a quel brivido
freddo che gli percorreva la schiena. Era la paura di un rifiuto, di una porta
chiusa in faccia e al tempo stesso di un ricongiungimento, di un cambiamento
improvviso nella sua vita. Ma si fece forza e, trascinando i piedi pesanti,
continuò a salire. Il desiderio di conoscere il suo vero padre e il bisogno di
riconoscere in lui la propria identità erano troppo forti. Esitando per qualche
secondo, bussò alla porta con mano come addormentata e la persona che cercava
gli fu subito davanti. Era lui, era suo padre quell’uomo sulla quarantina dalla
corporatura esile e l’altezza regolare, con gli occhi azzurri e i capelli
castani e l’espressione stravolta di chi ha visto un fantasma. Sembrava averlo
riconosciuto. “Hai sbagliato a venire fin qui.” disse con voce autorevole ma Andrej
non capì. “Sai chi sono? Mi hai riconosciuto?” domandò confuso, portando le
mani al petto. “È meglio che vai via.” ribatté l’altro più ostile, tentando di
chiudere la porta che il giovane prontamente bloccò. “Perché non ritorni dalla
tua bella famiglia nazista?” infierì l’uomo con sarcasmo mentre Andrej picchiò
i palmi delle mani contro la porta. “No! Adesso ho bisogno di spiegazioni!
Perché mi hai cercato?! Perché non mi hai ripreso con te se non volevi che
crescessi con loro?!” “Non farti illusioni. Ti ho cercato soltanto per
assicurarmi che il sacrificio della mia povera moglie non fosse stato vano e
poi tu non fai più parte della mia vita.” rispose con tono più rabbonito e
intanto dall’interno della casa si udì una voce di donna. “Caro, chi era alla
porta?! Dovresti venire a darmi una mano a fare il bagnetto ad Andrej!” Quei
secondi di silenzio sembrarono eterni. “E allora perché l’hai chiamato come
me?” esordì il giovane atterrito e negli occhi dell’uomo si accese un luccichio
di commozione che subito scomparve. “Vai via o chiamo la polizia.” concluse ed Andrej
gli permise di sbattergli la porta in faccia.
Avrai avrai
avrai
il tuo tempo per
andar lontano,
camminerai
dimenticando, ti fermerai sognando.
Avrai avrai
avrai
la stessa mia
triste speranza
e sentirai di
non avere amato mai abbastanza.
Se amore amore
amore avrai.
Claudio
Baglioni, Avrai