Spada rossa, cuore bianco

di Makil_
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Premessa by Makil_: 
 
  • ​Questa storia non ha nulla a che vedere con i fatti accaduti e narrati ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda", opera cui è subordinata e che trovate nella mia home. 
  • Questa storia non è il seguito de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", che - per chi se lo fosse chiesto - è in fase di stesura, ma a buon punto. Per cui, non ci sarà nessun Bartimore di Fondocupo, né alcun patres Steffon.
  • I fatti narrati ne "Spada rossa, cuore bianco" sono da collocare nel 29 AG, a dispetto di quelli narrati ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda" del 31 AG. 

 
Buona lettura! ^^


 

Cap. II – Il timore dell'ombra
 
 
Il mare, come ogni sera accadeva, si trovava in combutta con le scogliere.
La grande lotta delle maree iniziava sempre al calar del sole, quando la grande stella immergeva le sue calde diramazioni celesti nel grande flusso d’acqua ai suoi piedi, dando vita ad un esplosione cangiante di luci e colori, in un caleidoscopio dalle infinite sfumature. L’inarrestabile forza dell’acqua produceva i medesimi boati che avrebbe prodotto il ruggito di un vulcano infiammato, rovente e pronto a sputar fuori la cenere e i lapilli bollenti del suo ventre.
Corallo Rosso sorgeva su un’irta scogliera massiccia, le sue torri gemelle, alte quasi quanto un acrocoro, s’innalzavano più rigide del massiccio, forti e robuste, l’una dietro l’altra a combattere le intemperie dell’isola. Il rosso tingeva ogni balaustra, ogni pietra, ogni doccione e finanche gran parte delle guglie del palazzo reale, la grande Rocca Rossa che, dalla più alta zona del regno, primeggiava su ogni altro edificio costruito dal primo Redrock insediatosi nella Punta.
Il seggio di casa Redrock era poco più grande di una cittadina modesta delle coste della regione, eppure il suo castello aveva la nomea di essere uno dei più misteriosi e tetri, sia per quanto riguardava il suo passato, sia per quanto aveva da dire il suo presente. La quattro cinte murarie che facevano da perimetro alla Rocca Rossa si distinguevano tra tutte a causa delle loro insolite sfumature color porpora, così tinte per il fatto che, a detta di molti uomini del popolino, in epoca di costruzione, il loro cemento fosse stato impastato col sangue degli operai. Il popolino che crede veramente ad ogni cosa è folle e stupido; questo aveva pensato l’odierna signora del regno la prima volta che aveva messo piede nella casa di suo marito. Ma presto, molto presto, era stata costretta a contraddirsi.
 La Rocca Rossa era tremendamente spaventosa. Molto era il terrore che le sue mura instillavano nel cuore di coloro che si spingevano a guardarla dal basso con aria superba. Tra gli anfratti delle rocce utilizzate nel costruirla si poteva scrutare ancora lo sguardo ferreo del primo Redrock che aveva posato la pietra: uno sguardo che aveva ogni membro di quell’antica casata. E che aveva anche suo marito, nonostante tutto.
L’ambiente salmastro e la sua aria sempre satura del sale marino facevano di quel castello una casa in cui Octawya Datterwack, signora di Corallo Rosso, non si era sin da subito sentita a suo agio. La sua dimora natia era Southport, il celebre regno della Punta affacciato sulla costa, abbastanza noto in gran parte del mondo per il suo ricco porto proliferante di vita e mercanzia. Quel regno le aveva dato i natali, e lei lì aveva insediato le sue radici. Ma queste non avevano resistito neppure un solo istante il giorno in cui suo padre, Romid Datterwack, aveva deciso che era giunta l’ora più fertile della vita della sua bambina, e aveva decretato che fosse mandata a Corallo Rosso, per conseguire la celebrazione del matrimonio tra lei e suo marito Renegar Redrock. Inizialmente, ella si era sentita come un pesce abbandonato sul lastrico, come un fiore sbocciato sul picco di un monte solitario, eppure Renegar aveva fatto di tutto per renderla parte della sua casa. Alla fine, volente o nolente, Octawya aveva dovuto assistere alla sua trasformazione.
 Il clima estraneo di quella corte divenne presto parte di lei, e quel tetro ambiente politico mutò nella sua unica e sola dimora.
Ma estranea e cupa le sembrava ancora ogni notte, nelle ore più profonde della sera, momento in cui Octawya si ritirava nei suoi alloggi privati, nell’attesa che Renagar giungesse al talamo dopo aver portato a termine le ultime faccende politiche ed aver smesso di tastarsi le tempie nella speranza di trovare un accordo ai suoi numerosi problemi da sovrano. Non passava notte senza che quella storia si ripetesse: Octawya se ne stava a contemplare il vuoto fuori dal balcone della sua camera, le mani a sfiorare il davanzale, lo sguardo piantato in basso, giù, proprio verso il mare furente, immersa nelle sue memorie di donna, il terrore negli occhi.
In quel momento, il fragore di un’onda scagliatasi sulla scogliera la fece trasalire.
“È buffo” si disse osservando dall’alto la furia del mare. Le scappò un lieve sorrisino. “È buffo quanto ancora io sia spaventata da queste tempeste”. Ricordava come, da piccola, quando i temporali e le maree infuriavano, ella correva a rintanarsi sotto il proprio letto a baldacchino o, se i suoi genitori glielo consentivano, proprio nel loro talamo nuziale, al centro, tra i due signori di Southport. Una cosa che accadeva ben di rado, ma che la sua mente non aveva ancora obliterato, tanto era attaccata ai rimpianti e ai rimorsi passati. Forse quella casa le piaceva meno di quanto desiderasse pensare.
Rimase immobile a respirare a pieni polmoni l’aria e fresca e salata della notte, le mani saldamente attaccate al davanzale scabro di quella finestra. Un tempo, anche puntare giù lo sguardo le aveva infuso terrore: la paura di precipitare nel vuoto da quell’immensa altezza, il timore di scagliarsi, anche lei come le onde, contro le scogliere alla base. Quelle paure avrebbero mai smesso di perseguitarla un dì?
Le uniche cosa che, ora come un tempo, le davano spesso conforto erano le luci provenienti dall’estremo sud, punto verso il quale la finestra della torre puntava. Laggiù, le luci sfavillanti di Caantos, l’isola dei Principi, erano gioia per la vista, uno spettacolo di lanterne e fiotti di chiarori festosi da cui Corallo Rosso era separato per mezzo del mare. 
Se sotto incombeva la vista di un mare tetro, profondo, scuro e perennemente rabbioso, sopra le stelle del cielo buio illuminavano la vastità della notte, messe in risalto dal chiarore di un’imperfetta mezzaluna ridente.
“Persino la luna ride di me.”
Octawya Datterwack si sistemò i guanti bianchi che indossava in ciascuna delle mani, tirandoli su all’altezza del gomito. Sciolse la collana d’oro finissimo che teneva cinta al collo e la posò con un gesto delicato nel comodino in legno che aveva sulla sinistra. Con entrambe le mani prese a tastare la base del suo collo, lasciando che il sospiro del vento notturno le baciasse la pelle come il più inclemente degli amanti, che facesse scorrere su di lei le sue dita provocandole un brivido lungo tutto il corpo. Chiuse gli occhi e si lasciò coccolare dalle fredde carezze del vento.
“Una notte fredda ed una donna che sta per diventarlo. Cosa posso odiare di più in tutta questa fastidiosa vita?” si chiese rammaricata.
Per Octawya esisteva una sola consolazione: l’amore che provava per sua figlia e per suo marito, quello stesso uomo che, ormai da un po’ di tempo, aveva smesso di darle le attenzioni che le aveva riservato durante i primi anni del loro matrimonio. Osservò ancora una volta le insenature che le scogliere formavano alla base della torre. “La mia lotta contro questo mare non avrà mai fine.”
Due colpi perentori sulla porta alle sue spalle la riportarono istantaneamente alla realtà.
«La porta è aperta. Avanti.»
«Mia signora». La languida voce di matres Amadya preannunciò il suo ingresso prima ancora che ella facesse capolino dall’ingresso. «Perdonatemi per il disturbo a quest’ora della notte. La questione è urgente. Temo che la principessina Missy si sia gravemente ammalata quest’oggi… il suo corpo è flaccido, la sua pelle sempre più giallognola, e lei stenta a prendere sonno. Ha le labbra viola, appena spaccate… che possa trattarsi di vaiolo nero? È da più di un’ora che lamenta dei fastidi.»
«Come sarebbe a dire?»
«Sì, mia signora… temo proprio che la principessa sia rimasta vittima di un’influenza in stadio avanzato. Deve aver preso fresco, senza dubbio… e, anche se non credo necessario allarmarsi, farei comunque affidamento sulle parole di un incantatore. Non vorrei, ecco… che possa trattarsi di altro.»
«Mia figlia è nei suoi alloggi?» domandò Octawya facendosi impettita. Che avesse causato lei quel malessere in Missy? Forse i suoi modi erano stati inadatti qualche ora prima. Non era certo un’incantatrice né una cerusica, ma sapeva bene che, a volte, la vergogna e la paura potevano tramutarsi in malanni e colpi di febbre. «Andiamo, fammi vedere come sta.»
Matres Amadya, una donnetta bassa e grassoccia, dai capelli corvini e un accenno di rughe da vecchiaia, le fece strada verso le scale.
«Seguitemi, mia signora» disse spalancando il braccio verso le scale che scendevano in direzione del terzo piano della torre, sede della camera privata di Missy e dell’alloggio della stessa esperta.
«Conosco la strada». Octawya Datterwack precedette la matres e prese a scendere ogni gradino di quello stretto passaggio della torre. Nel farlo, per più di due volte, il lungo strascico del suo vestito le si insinuò tra le gambe facendole temere il peggio nel momento in cui, per errore, vi posò sopra il piede. L’ormai anziana matres si fece zittire senza ribattere con un solo sbuffo, chinando il capo e lasciando che la sua signora svolgesse quello che il suo ruolo di sovrana implicava. Non appena arrivò nell’androne in cui erano ubicate le stanze di Missy, afferrò il battente della porta e la aprì di forza.
L’alloggio privato di sua figlia era molto più piccolo della camera riservato ai due signori di Corallo Rosso. Le pareti della torre davano alla stanza una forma circolare e poco rigida, attraversata in quattro punti da un paio di bifore. Non c’erano ornamenti nelle pareti della camera all’infuori di due poderosi armadi scuri ed uno stendardo rosso fuoco, per nulla in risalto in quel luogo di per sé porpora. Un lungo tappeto vermiglio si estendeva in lungo dalla porta fino alla base del letto di Missy. E fu lì che scorse sua figlia, quasi come fosse in fin di vita.
Octawya trasalì e portò entrambe le mani al petto. «Che cosa le è successo?»
Giunta ai piedi del letto su cui Missy stava riposando, poté esaminare meglio la condizione in cui versava sua figlia. Il volto ossuto di Missy era più lattiginoso che mai; le sue guance completamente paonazze, come fosse stata rese ebbra da una lunga permanenza in taverna. La bocca di un viola sbiadito, del colore dei lividi, era semiaperta. I suoi curati capelli color dell’ebano erano completamente spettinati ed arruffati e i suoi occhi erano chiusi con una forza barbara. Sulla fronte e sul collo, una serie di goccioline di sudore colavano verso il basso, l’una più rapida dell’altra, come stessero gareggiando a chi riuscisse a scappare prima da quel corpicino sfiancato.
Octawya si fece rossa in volto e s’inalberò non poco nel vedere la tristezza impressa nei bei lineamenti di sua figlia. «Che genere di febbre riduce in questo stato una bambina?»
«Non ne ho idea, mia signora… io giuro di averla trovata così. Non ho colpe, giuro anche questo.»
Octawya piegò duramente la bocca e guardò la donna con fare cagnesco. «Chi si scusa si accusa, matres. Dov’eri mentre mia figlia perdeva i sensi? Parla, donna! Il tuo compito è quello di restare sempre accanto alla mia bambina… sempre! »
Matres Amadya sgranò gli occhi. «Mia signora… io… come potete mettere in dubbio la mia onestà e la mia dedizione? Io non immaginavo… insomma… l’ora era tarda, io mi trovavo nella mie stanze… ma… ma dei lamenti mi hanno richiamata qui, negli alloggi di vostra figlia. La principessa stava molto male… mi ha detto che non riusciva a chiudere occhio e che sentiva freddo. Molto freddo. Le ho preparato all’istante un impacco di vino di ciliegia da poggiare sul capo, ma non ha funzionato. Lei lamentava… lamentava…». A quel punto la donna sembrò farsi cupa e tentò di trattenere a stento le lacrime.
“Piange per addolcirmi. Crede che io sia una donnetta come lei, incline al sentimento” pensò Octawya. “Insulsa donnicciola da quattro soldi.” «Lamentava cosa, di preciso, matres Amadya?»
«Paura. Una paura spropositata per il buio» rispose secca l’esperta. Dopo d’allora non riuscì più a trattenere le lacrime, che sgorgarono dai suoi occhi con la furia di un fiume in piena. «La paura… la paura delle ombre. Ecco… forse la vostra presenza avrebbe… insomma, voi non eravate con lei…»
“Questo non dovevi dirlo”. «La principessa non ha paura del buio. Vuoi forse insinuare che io non sappia da cosa mia figlia è terrorizzata e da cosa non lo è? Vuoi forse insinuare che io non sia adatta a crescere la mia bambina? Mia figlia sarebbe in grado di restare un’intera giornata da sola in uno sgabuzzino deserto, ma non verserebbe mai e poi mai una sola lacrime di terrore. Tu, invece, donna, stai sprecando ogni liquido del tuo corpo per difenderti da me… di cosa hai paura? Missy Redrock è la figlia di Renagar Redrock, un uomo che non teme nulla. Gradisco che tu non parli mai in questo modo di lei. E gradisco che tu ti inchini a me, donna.»
«La mia non voleva essere un’offesa, mia signora. Purtroppo queste sono state le sue parole, ma farò ciò che mi chiedete». Matres Amadya piegò la gamba destra fino a poggiarla per terra. Reggendosi a stento sul ginocchio, prese a chinare in avanti il busto portando la mano sinistra al petto. Tremò nel trattenersi in quella posizione finché non perse completamente l’equilibrio e cascò sul suolo.
“Cosa sto facendo?” . All’improvviso si sentì confusa, un’altra volta estranea a tutti quei ritmi di corte. L’ira le aveva dato al cervello, come spesso accadeva, e l’impossibilità di fare qualcosa per il bene di Missy la stava mandando fuori di testa. Era normale tutto ciò? Aveva bisogno all’istante di una colonna a cui reggersi, di un muro sul quale fare affidamento per non precipitare nell’abisso buio tra le onde e gli speroni rocciosi. Aveva bisogno di suo marito immediatamente. “Renegar… dove sei?”
«Alzati, matres.» riprese subito. «Va’a cercare mio marito di corsa». Il timbro di voce con cui quell’ordine fuoriuscì sembrò a tutti gli effetti richiamare quello profondo di suo padre nel giorno in cui costrinse sua figlia ad andare in sposa al suo odierno marito. «Va’ a cercarlo in ogni sala di questo maledetto castello e digli di correre qui con la stessa urgenza utilizzata nel chiamare me. Se non lo farai, giuro che darò ordine di farti divorare dai mastini questa sera stessa e... e giuro di gettare la tua carcassa nel mare da questa stessa torre. Trovalo, o questo sarò il tuo ignobile destino.»
La matres non osò neppure aggiungere altro. Chinò il capo, fece un ulteriore profondo inchino, si asciugò di fretta le lacrime e prese a correre in direzione delle scale. Non appena uscì, nell’alloggio della principessina di Corallo Rosso calò il silenzio.
Octawya si chinò ai piedi del letto poggiando entrambe le ginocchia per terra. In quell’istante si dimenticò del fatto che fosse vestita di tutto punto con un’infinità di pizzi e merletti, tanto lo sconforto e il rammarico per quella situazione l’avevano confusa. Posò la mano sinistra sulla fronte della figlia, giusto per dar credito alle voci della matres, ma notò subito che non persisteva alcun tipo di calore a simboleggiare l’avanzata della febbre. “Paura… è assurdo tutto questo. Come può permettersi di parlare fingendo di conoscere mia figlia? Lei non è altro che una matres!”
Carezzò delicatamente il volto ossuto di Missy; le passò la destra lungo tutti i lineamenti, tastandoli accuratamente e massaggiandoli con delicatezza.
“Quanto mi somiglia…” si disse. Un piccolo sorriso impacciato sorse spontaneamente sulle sue labbra. “Sono troppo dura con lei… lo sono sempre stata con tutti. Anche con me. Perché faccio questo? Forse desidero che lei non cresca come anch’io sono cresciuta… forse desidero che lei sia forte, proprio come suo padre. Ci starò riuscendo?”
Iniziò a disfare le coperte, giusto per mettere a nudo il corpicino smagrito di Missy. Era da molto tempo che non posava le sue mani su sua figlia con una tale delicatezza e che lo facesse per sentirne il calore e non per schiaffeggiarla. Gettò la coperta ai piedi del letto. “Così starai più fresca, amore mio”.
«Cosa ti è successo, piccola mia? Oh, se solo tu potessi dirmi… oh! Dimmi, tesoro, hai davvero avuto paura? Una donna forte come te? Oh, e di cosa hai avuto paura? Sai che non devi temere nulla finché ci siamo io e tuo padre a difenderti… oh, aspetta, no… è stata quella donna, non è vero? Dimmi, tesoro… parla… di’ qualcosa. Cosa ti ha terrorizzata? Parla e io saprò come muovermi. Giuro che punirò chi ti ha fatto del male.»
Il sibilo del vento produsse un sonoro fischio attraversando le bifore. Octawya Datterwack afferrò una delle manine della propria figliola. Il cuore le sobbalzò in gola. «Tesoro, è solo il vento quello. Oh, non dirmi che anche tu hai paura del vento, del mare e del… del… posto in cui siamo». Gettò una rapida occhiata in giro.
«Amore mio, non c’è nulla di cui avere paura qui. Tuo padre sta arrivando, e lui non teme nulla. Parla, tesoro…»
Nella cupa immensità notturna, un altro sospiro freddo penetrò nella camera. Questa volta, il vento andò a spegnere gli unici due lumi presenti nell’alloggio. All’improvviso, la camera fu completamente avvolta dal buio. Octawya trasalì ancora una volta. «Oh, tesoro, ma è solo il vento». In quel momento si rese conto di parlare a sé stessa, quasi come se quelle consolazioni fossero indirizzate al suo animo e non a quello della sua bambina. «Non aver paura del vento, la sua voce è semplicemente aria e la sua forza è nient’altro che fiato. Lui non potrà farti del male, tesoro. Non finché ci sarà qui la mamma.»
Dall’esterno poteva avvertire l’eco non così lontano del fragore prodotto dalle onde del mare. Il suo tormento era solo all’inizio, e quella notte sarebbe stata fin troppo lunga e più malefica delle altre.
La signora di Corallo Rosso strinse la presa sulla mano della figlia e si abbandonò ad un pianto consolatore, singhiozzando e lasciando che le lacrime solcassero per intero i suoi lineamenti. «Ascoltami, se puoi, bambina mia... ed apri i tuoi occhi. Se sono stata io la causa di questa tua… di questa tua… situazione, ti prego di scusarmi. Mia piccola bambina, apri gli occhi e dimmi che va tutto bene… dimmi che posso tornare alle mie paure e ai miei incubi, e dimmi che non occorre svegliare un incantatore per far sì che tu ti desti dal tuo sonno». Chiamò il suo nome, le passò due dita sotto al collo e una mano sul petto, giusto per valutare l’intensità del suo battito: non pensava al peggio, ma voleva esserne certa. «Presto quella donna tornerà con tuo padre: vuoi farti trovare in queste condizioni? Oh, piccola mia, apri gli occhi e fatti forza, sii la donna forte che hai sempre desiderato essere. Sai che con me puoi essere al sicuro. Io… io… io sono la donna che ti ha messa al mondo e che ti ha cresciuta nel suo ventre. Il mio sangue è stato il tuo sangue, la mia forza è stata anche la tua. I miei respiri ti hanno dato modo di crescere sana e forte, e la mia tenacia ti ha spinta fuori dal mio grembo nel momento giusto. Missy, mia adorata figlioletta…»
Tirò un flebile sospiro e rimase ad occhi chiusi per una indefinita frazione di tempo, le lacrime amare scorrevano incondizionate. Ogni suono si era fatto più sottile ora, smorzato dal dolore e dal senso di colpa che gravavano su di lei.
Un altro sospiro di vento si fece strada nella camera con furia, sollevò di peso una sfilza di pergamene arrotolate sul vicino mobile e spalancò forzatamente qualche libro sulla credenza. Senza rendersene conto, Octawya strinse la presa nella manina di Missy. Un’ultima lacrima le scivolò sullo zigomo freddo. «Dimmi, tesoro, di cosa hai avuto timore?»
«Del buio.»
Octawya sussultò. La voce rauca di un uomo alle sue spalle la costrinse di colpo ad urlare in modo impacciato, soffocato, tanto che quel grido non le uscì mai dalla bocca. La presa salda del suo stesso fiato le si incollò nella gola e la ghermì fino a farla soffocare. Si voltò verso quella voce e si mise immediatamente in piedi. Puntò il dito contro quello sconosciuto.
«Ladrospiaassassino… chi sei tu?»
 L’uomo tarchiato uscì allo scoperto dalla penombra della camera lasciando che la luce lunare proveniente dall’esterno rischiarisse i suoi lineamenti.  Octawya fu terrorizzata nel vedere quella figura sconosciuta stanziata di fronte a lei, le mani incrociate al petto e un ghigno contorto sulla bocca. L’impostore aveva un cappuccio tirato sul volto come a voler nascondere la sua identità, e una lunga tunica marrone gli scendeva fino alle caviglie. Sotto al copricapo erano visibili, sparsi qua e là sul mento, una serie di peli brizzolati.
Lo sconosciuto prese ad avanzare. «Un’ombra, Octawya Datterwack…». Il modo in cui pronunciò il suo nome la fece rabbrividire. «Ma tu non hai paura delle ombre, non è forse così?»
La signora di Corallo Rosso tentò di urlare, ma quell’uomo le fu spietatamente addosso. Allora ogni cosa prese a correre fin troppo velocemente.
L’uomo le afferrò la testa e la costrinse a girarsi di spalle. Octawya fece di tutto pur di non fargli mettere le mani addosso a sua figlio, facendo del suo corpo una barriera tra lui e il letto. L’impostore le schiacciò le vertebre col gomito facendola sussultare un paio di volte, dopodiché diede uno strattone alla sua gonna, che si strappò come fosse fatta di marzapane. Le intenzioni del mostro che le aveva messo le mani addosso non erano delle più consuete per un assassino.
Octawya tentò di farsi forza coi piedi per stare alzata e non frasi abbattere, ma non ci riuscì affatto. Di colpo, l’impostore la fece cadere sul corpo di sua figlia, e il suo volto si schiantò con forza sul mento di Missy.
«La… lasciami!» tentò di gridare. Se avesse potuto urlare, qualcuno sarebbe giunto in suo soccorso all’istante. Octawya riuscì, con una forza inaspettata, a girarsi di schiena sul letto. Aveva il volto del suo oppressore a tre pollici dal suo, ma non riusciva a scorgerne i lineamenti. Le mani di quell’uomo la tenevano incollata al letto stringendole il collo. Iniziò a mancarle l’aria e tutto prese a roteare intorno a lei, l’aria offuscata da alcuni aloni grigio-bianchi.  Fu come se fosse stata immersa all’interno di una vasca di vapori ed acqua calda legata strettamente ad una sedia. Non c’era modo di ribellarsi a quella presa robusta come il ferro.
Tentò di divincolarsi, ma l’uomo si gettò su di lei. Con la possanza delle sue gambe, l’impostore teneva le sue braccia attaccate al materasso di piume, mentre con la sinistra stringeva la morsa al suo collo. L’aggressore le infilò ferocemente tutt’e cinque le dita in bocca e tirò la pelle morbida fino al suo massimo punto di estensione. Ad Octawya parve che quell’oppressore stesse per staccarle via la guancia quando questi applicò ancora più forza e mandò ancor più verso la gola le sue cinque dita. Allora Octawya si riscosse un momento, ebbe la forza di girare rapidamente la testa e di addentare con forza gran parte della sua mano. L’uomo lasciò un momento la presa urlando di dolore e bestemmiando focosamente e, a quel punto, la signora di Corallo Rosso cadde incresciosamente sul pavimento.
Fu con un respiro molto profondo che fece uno scatto, alleggeritasi ormai dei gran parte delle sue vesti e dei suoi guanti totalmente stracciati. Si mise in piedi con una straordinaria prontezza e subito caracollò due volte all’indietro, ma non demorse. Passò immediatamente all’attacco: afferrò l’impostore per la collottola, lo strattonò due volte e lo spinse con ogni sua forza verso la bifora. Fu allora che impiegò ogni sforzo per vederlo, dapprima, sbattere la testa sul colonnato dell’infisso, e subito dopo costringerlo a sporgersi quanto più dalla finestra. Spinse, mise forza, e spinse ancora, affinché quel lurido uomo fosse costretto ad assaporare il timore di precipitare nel vuoto più totale. E, perché no, anche l’ebbrezza stessa del salto da quell’altezza. Ma non bastò e non servì, data la sua potente resistenza.
Lo sconosciuto fece un balzo all’indietro, si scaraventò su di lei con la forza di un mastino famelico e l’afferrò per i capelli. Un primo pugno le arrivò dritto allo stomaco, poi un altro le fu scaraventato esattamente sul cranio, all’altezza dell’occhio sinistro e del naso. Octawya sentì la bocca farsi immediatamente piena di sangue, ma non diede la soddisfazione a quell’uomo di saperlo. Inghiottì il suo stesso sangue e precipitò per terra. L’uomo le assestò un calcio al basso ventre mandandola a contorcersi come un serpente in punto di morte che si raggomitola attorno alle sue spire, le mani pressate sul punto in cui aveva ricevuto il colpo. «Basta! Ti prego! Ti prego!»
«Hai paura dell’ombra?»
L’uomo le si buttò di sopra con tutto il peso del suo corpo. Octawya sentì le ossa delle sue gambe scricchiolare un’ultima volta prima di accasciarsi al suolo, senza vita. L’uomo l’afferrò un’altra volta per i capelli e le strattonò a destra e manca il volto, facendole schizzare di forza il sangue fuori dalla bocca. Afferrò allora qualcosa dalla tasca interna della sua tunica marrone e la portò alla luce. Quella che si ritrovò tra le mani sembrava essere una fiala dal colorito verdognolo, il cui contenuto aveva una consistenza fin troppo liquida. La stappò con i denti e mandò il tappo di sughero altrove. «Apri la bocca, Octawya Datterwack. Ora non puoi più guardare.»
In quell’istante la porta della camera si aprì di colpo, tanto che il battente fu mandato a schiantarsi contro la parete interna. Lo stesso cardine dell’infisso cigolò e cadde distrutto sul pavimento. Octawya non ebbe le forze di girarsi a guardare, ma avvertì ciò che stava per succedere. Il rumore dell’acciaio estratto dal fodero si propagò in modo simultaneo nell’aria. I suoi salvatori erano arrivati.
All’improvviso, nella foschia causata dai colpi alla nuca, Octawya intravide una serie di armature già pronte a circondare lei e il suo aggressore. In mezzo al rivestimento rilucente dei molti ser spiccava una figura segaligna ed alta.  
«Mani dietro la nuca, bastardo» comandò una voce, un timbro che doveva appartenere a suo marito.
La fiala di vetro che l’aggressore teneva in mano precipitò al suolo e si frantumò in mille pezzettini. Octawya fece per mormorare qualcosa di cui non seppe neppure il suono; poco prima che il suo aggressore fosse allontanato di peso, la signora di Corallo Rosso perse definitivamente i sensi.
Tutto ciò che vide dopo fu una lenta, atroce, inverosimile agonia. Ma la paura, almeno quella, parve scomparire.

 


Note d'autore:
Rieccoci qui!
Innanzitutto ringrazio tutti e otto i miei assidui lettori che hanno lasciato una recensione allo scorso capitolo: come al solito, siete davvero tutti molto gentili. Ringrazio anche i lettori silenziosi e tutti coloro che hanno messo lo spin-off tra le loro storie seguite. 
Il PoV di questo capitolo si rivela essere quello di Octawya Datterwack, la signora di Corallo Rosso. Vi aspettavate questo PoV: lo so perché molti lo avevano già indovinato. Ma, invece, cosa ne avete pensato? Avete visto le cose con occhi diversi da quelli della principessina Missy? E cosa potete dire, a conti fatti, del personaggio di Octawya? Vi sembra ancora una donna austera e severa per il semplice gusto di esserlo, o questo capitolo vi ha dato modo di rivalutarla completamente o anche solo in parte? 
Il seguente capitolo ci ha mostrato come le paure possano concretizzarsi. Da ombra con lo sguardo maniaco, la paura dello scorso capitolo si è concretizza in un uomo losco e barbaro... chi sarà mai? Cosa credete sia accaduto alla principessa Missy? 
Così concludo; se avete altro da dire, non limitatevi alle domande, sia chiaro! ^^
Piuttosto, di chi pensate sarà il prossimo PoV? 
Una buona giornata, miei cari, carissimi lettori. Per qualsiasi domanda, sappiate che sono sempre disponibile a darvi risposte. Al prossimo aggiornamento [sabato 19 c.m]!
Makil_



 




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