Un prezzo da pagare
I giorni che seguirono trascorsero rapidi, tra
un’incombenza e l’altra. Ero stata assegnata al servizio di Ilewen Eloran,
giovane figlia di Erendor e Talien, i capostipiti della nobile casata Eloran.
Ilewen era una ragazzina odiosa, piena di se ed
altezzosa come tutti i giovani di alto lignaggio.
I miei compiti comprendevano principalmente la pulizia
delle sue stanze ed i servizi come cameriera. Anche se saltuariamente ero
addetta anche ad aiuto nelle cucine, o mandata al mercato della Città Superiore
a far spese.
La tenuta Eloran era immensa, ricordo ancora i grandi saloni
pavimentati in marmo candido. L’imponente scalinata conducente alle stanze da
letto nobiliari e le finestre, ampie e dalle vetrate intarsiate, la cui luce
rifulgeva tingendo di mille tonalità di oro pallido i pavimenti in pietra
lunare.
Nonostante non fossi che una serva non potei fare a
meno di sentirmi parte di tanta grandiosità.
Spesso, incurante delle ramanzine, mi attardavo nei
giardini ai piedi dell’Alto Tempio di Auri-El. Quando, una volta calato il sole, la tenue luce di Jode e Jone indugiava sulla superficie dorata delle alte guglie del tempio rifulgendo opalescente
come un riflesso lontano, colmando il mio cuore di una gioia incontenibile.
Come promesso a mia madre mi venne impartita
un’educazione, imparai a leggere e a scrivere. Fu la signora della capitale ad
insegnarmi, in un certo senso credo che sia stata lei il mio primo vero Maestro.
Ma fu dai libri che imparai maggiormente; il libri dell'immensa
biblioteca della Tenuta Eloran. Centinaia e centinaia di scaffali colmi di tomi
sugli argomenti più vari, dalla storia alla botanica, la geografia, l’alchimia,
la cucina, la filosofia, la mitologia e molti altri ancora. Spesso,
approfittando di qualche distrazione, correvo a rifugiarmi tra quegli scaffali,
pronta a viaggiare verso terre sconosciute ed a vivere straordinarie avventure.
Rimanevo lì seduta a terra, con la
schiena appoggiata agli alti scaffali. Leggendo di luoghi che altrimenti mai
avrei visitato, di piante che mai avrei osservato, di cibi che mai avrei
assaggiato e di persone che mai avrei incontrato. In un certo modo mi sentivo
libera, anche se solo per poche ore.
Ma in ogni luce vi è sempre un ombra, e per quanto
Alinor la Splendente apparisse meravigliosa ai miei occhi, io restavo una
serva. Presto dovetti imparare a metter da parte l’orgoglio e chinare la testa,
accettando ogni cosa, per quanto ingiusta od umiliante. Non diversamente da
quel mendicante dalle mani piagate che incontrai alla Città Bassa il giorno in
cui giunsi ad Alinor; io restavo un inferiore, indegna del loro rispetto.
Ma io sono sempre stata una persona molto orgogliosa.
Accadde un Thurdas del Primo Seme, lo ricordo ancora
perfettamente. Quella mattina si erano recati in visita alla Tenuta Eloran
alcuni giovani di alto lignaggio provenienti dalle maggiori casate di Alinor. Ricorreva
il tredicesimo compleanno della giovane Ilewen ed io ero stata assegnata alle
mansioni di sua cameriera personale. Ilewen era una ragazzina viziata e
capricciosa, avvezza ad umiliare e sminuire chiunque considerasse a lei
inferiore. Spesso mi era capitato di divenire oggetto delle sue mire, ma col
tempo avevo imparato a non dar peso alle sue parole, per quanto velenose
fossero. Quel giorno, finito di sparecchiare la sala da pranzo fui chiamata a
servire il tè alla radice canina ed il pane dolce nelle stanze della
giovane Ilewen. Una volta preparato il vassoio salii le scale in marmo candido
e percorsi il lungo corridoio conducente alle stanze nobiliari. Giunta innanzi
alla porta diedi due colpi leggeri onde avvisare del mio arrivo, poi entrai.
All’interno una quindicina di giovani, abbigliati in lunghe e preziose vesti
dai colori tenui erano intenti a chiacchierare tra loro. Tra di essi Ilewen
sedeva scomposta su di un ampio sofà foderato in broccato color porpora.
«Finalmente!
Certo che ce ne hai messo di tempo eh serva!» Disse Ilewen sorridendo soddisfatta.
Senza rispondere, mi avvicinai in silenzio,
sforzandomi di mantenere lo sguardo abbassato. Sentii calare su di me gli
sguardi dei giovani nobili mentre avanzavo, reggendo ancora tra le mani il
vassoio con il tè e i dolci.
Mi diressi verso il basso tavolino in mogano, ai piedi
del sofà, quando all’improvviso una giovane dai lunghi capelli scuri e gli
occhi verdi seduta al fianco di Ilewen spostò il suo piede nella mia direzione,
facendomi perdere l’equilibrio. Tutto accadde in un istante. Il vassoio d’argento
mi scivolò dalle mani cadendo a terra. Il prezioso servizio da thè in
porcellana esplose in mille pezzi. Il pane dolce rotolò fin sotto al sofà
lasciando dietro di se un leggero aroma speziato. Mentre il contenuto della
teiera, ancora fumante, si spanse nel pavimento in marmo, inzuppando gli orli
delle lunghe vesti dei giovani invitati.
Rimasi immobile, come pietrificata per alcuni istanti.
Fu la voce melensa della giovane dagli occhi verdi a riportarmi alla realtà.
«Guarda
cos’hai combinato! Inutile e maldestra...» sibilò.
Non raccolsi la sua provocazione e mi chinai a terra a raccogliere i cocci del servizio da tè in
silenzio.
«Ma
d’altronde cosa puoi aspettarti quando fai la carità? Ilewen, la tua famiglia è
fin troppo prodiga verso questa gente...accogliere in casa vostra questo
rifiuto. Figlia di una sgualdrina senza padre, incapace persino di reggere un
vassoio...»
Sentii le risate di scherno degli altri giovani, ed i
loro sguardi carichi di disprezzo gravare su di me. In quel momento nacque nel
mio cuore una consapevolezza ancor più dolorosa dell’umiliazione, la
consapevolezza che nelle parole di quella giovane vi fosse un fondo di verità.
E per la prima volta nella mia vita mi sentii patetica, lì chinata a terra a
strisciare ai loro piedi.
Così, lo dissi.
«Non è
stata colpa mia...»
Calò improvvisamente il silenzio, solo dopo qualche
istante la giovane dagli occhi verdi si avvicinò a me.
«Che sfacciata!
come osi rispondere? Ilewen, dovresti insegnare alla tua serva a tenere a freno
la lingua e ad aver maggior rispetto di chi le è superiore... »
«Fosse per
me la rimanderei là da dove è venuta. Nella Città Inferiore a strisciare fra i
suoi simili.»
Furono le parole che scivolarono come veleno dalle sue
labbra.
Mi alzai di scatto e senza abbassare lo sguardo, mi
avvicinai a lei. Era abbigliata in una lunga veste ricamata dalle maniche ampie
color turchese, stretta in vita da una cintura dorata. I suoi capelli, lisci e
scuri le ricadevano morbidi fino ai fianchi, intrecciati di perle. Il suo capo
era cinto da un cerchietto dorato messo ancor più in risalto dagli occhi sprezzanti.
In quel momento non riflettei alle conseguenze che il
mio gesto avrebbe portato.
Sollevai la mano e la colpii al viso con forza,
facendola cadere a terra.
Riguardo a ciò che avvenne in seguito non ho che dei
ricordi confusi. Accorsero in fretta molte persone, domestici e servitori.
Scoppiò il caos; i giovani invitati ed Ilewen, intenti
a dare la loro versione dei fatti, parlavano uno sopra l’altro ed al baccano
generale presto si unirono le grida isteriche della ragazza dagli occhi verdi.
La zia della Capitale mi prese per un braccio e mi condusse ad una stanza
piccola e buia, di solito adibita a ripostiglio. Mi spinse dentro con uno strattone
e richiuse la porta dietro di me.
Soltanto in seguito seppi chi era la ragazza che avevo
colpito. Melian Escaliot, figlia di Salian e Orentor Escaliot, nipote del
Sovrano di Alinor.
La mia punizione venne discussa a lungo. Una mattina,
dopo tre giorni passati rinchiusa in quel ripostiglio la porta venne aperta e
la zia della Capitale mi condusse in giardino. Lì, abbigliate sontuosamente,
stavano in attesa diverse persone. Riconobbi la ragazza dagli occhi verdi che
avevo colpito al ricevimento di Ilewen, era in piedi a fianco di quelli che
dovevano essere suo padre e sua madre.
Un servitore della Casata Escaliot, un uomo alto e
robusto si avvicinò a me. In mano reggeva una pesante frusta di cuoio
intrecciato. Fui spogliata e gettata a terra con uno strattone.
Nonostante mi fossi ripromessa di non piangere, in
modo da privare quella maledetta della sua soddisfazione, nel momento stesso in
cui la frusta colpì la superficie della mia pelle lacerandomi la carne, un
dolore lancinante, simile ad una scarica elettrica attraversò il mio corpo,
costringendomi a lanciare un’ urlo disumano.
Sentii un rivolo di sangue caldo scendere lungo la mia
schiena. Con la vista annebbiata dalle lacrime posai lo sguardo sulla figura
della ragazza dagli occhi verdi, sorrideva soddisfatta al fianco dei suoi
genitori.
Non so di preciso per quanto tempo rimasi lì, né quante
frustate mi vennero inflitte. Ad un certo punto smisi di contarle.
Quando venni riportata nella mia stanza era ormai
calato il tramonto ed i miei vestiti erano zuppi di sangue.
Le ferite alla schiena pulsavano e mi dolevano terribilmente.
Ma ancor più che nella carne ero ferita nell’orgoglio. Chiusi gli occhi e strinsi
forte i pugni, mentre calde lacrime scendevano a rigare il mio volto. In quel
momento non potei fare a meno di pensare alla mia casa, ormai così distante, mi
sentii piccola e sola in un mondo a me avverso.
Poi rividi l’immagine di Melian, la ragazza dai lunghi
capelli scuri e gli occhi verdi, in piedi davanti a me, sorridere soddisfatta
ad ogni mio urlo di dolore.
Nel mio cuore si fece strada l’odio, un odio profondo
che crebbe fino ad avvelenarmi. Un odio per tutti coloro che ogni giorno mi
guardavano dall’alto al basso. Per quella ragazza dagli occhi verdi che infine
era riuscita ad umiliarmi. Per mia madre, che avrebbe dovuto proteggermi, ed
invece mi aveva abbandonata. Per quella donna crudele che si definiva mia zia e
che non esitava a picchiarmi al minimo sbaglio, ed infine per me stessa, che
ero troppo debole per reagire.
Raggomitolata su me stessa, incurante del sangue che
ancora caldo, scendeva lungo la mia schiena macchiando le lenzuola del letto,
scoppiai in un pianto silenzioso.
Le settimane successive trascorsero fiaccamente, tra
un’incombenza e l’altra.
Il dolore alla schiena si affievolì poco a poco, e
lentamente anche le ferite si rimarginarono. Il profondo solco ancora aperto
nel mio animo invece, crebbe sempre di più.
In me si fece strada una convinzione. Non avrei
permesso mai più ad alcuno, ne uomo ne donna, di umiliarmi. Non sarei mai più
stata una vittima, ne una debole.
Ma l’unico rispetto che una come me, di umili natali e
per di più donna, avrebbe mai potuto ottenere era il rispetto scaturito dal
timore.
Fu questa ragione, che mi indusse ad intraprendere il
cammino della conoscenza.
Incominciai a trascorrere sempre più tempo nella
biblioteca della Tenuta Eloran, alla strenua ricerca di volumi riguardanti le
principali scuole di magia.
Fu proprio durante una di queste mie ricerche che lo
trovai.
Come ogni sera, terminate le mie mansioni in sala da
pranzo, mi recai in biblioteca. Con passo silenzioso mi diressi celere tra gli
scaffali, verso la sezione adibita alle Arti Arcane. Stavo cercando un libro in
particolare, “Il Lorkhan lunare” di Fal
Droon.
La biblioteca degli Eloran era immensa. Gli scaffali,
alti ed in legno di mogano, si innalzavano fin quasi a sfiorare il soffitto a
volta.
Scorsi rapidamente i titoli impressi in grandi
caratteri dorati sui dorsi delle rilegature in pelle, alla ricerca del
compendio di Alterazione di Droon. Spostai con cautela i volumi collocati più
in fondo, e fu in quel momento, mentre ero intenta a raggiungere con la mano un
tomo posto particolarmente lontano, che lo vidi.
Si trattava di un grosso volume rilegato in cuoio
consunto. Il titolo sbiadito dal tempo, recava vergato in caratteri scuri
"Libro dei Daedra". Nonostante
allora non comprendessi ancora appieno il significato di quella parola, non
potei fare a meno di sentirmene attratta, come guidata da un desiderio di
ineffabile curiosità. Tesi la mia mano e lo afferrai.
Se allora avessi saputo a quali dolori e sofferenze mi
avrebbe condotta tale gesto, avrei riposto quel libro nel suo scaffale
all’istante e sarei tornata correndo nella mia stanza, senza metter mai più
piede in quella biblioteca.
Ma d'altronde credo che la vita di chiunque, rivista
attraverso gli occhi dell’esperienza appaia colma di pentimenti e rimpianti.
Sollevai la copertina in cuoio con accortezza. La
prima pagina recava impresso, sotto il titolo, un simbolo in una lingua a me
sconosciuta.
Era un testo antico, risalente a prima della Chiesa di
Auriel. Quando ancora nelle isole di Summerset si veneravano i Principi Demoni
delle Sfere Esterne.
Un culto oscuro ed obliato da tempo; come lo era quel
volume, dimenticato tra gli scaffali della grande biblioteca Eloran.
Lessi avidamente, di Piani dell’Esistenza lontani Eoni
interminabili, abitati da Entità aliene alla natura umana come a quella elfica.
Entità tanto dissimili da poter essere definite D-aedra nella lingua Aldmeri, i
non-antenati.
Ma a differenza di Magnus, Trinimac e Auri-El i
Gloriosi, Sommi e Splendenti nei cieli dell’Aetherius, tanto distanti dai
comuni mortali, essi erano invece vicini alla nostra esistenza. Pronti ad
ascoltare le nostre preghiere se chiamati e prodighi di aiuti, anche se come
per ogni cosa, ad un prezzo.
Fu tra quelle pagine che lessi il Suo nome per la
prima volta.
Hermaeus Mora, Principe Daedrico del Fato e della
Memoria, guardiano delle scritture e custode di antiche conoscenze ormai
dimenticate.
Colui che aveva irretito con le sue parole Xarxes, lo
scriba del sommo Auri-El in persona, facendogli dono di saperi al di la della
consapevolezza di dei e uomini.
Colui che leggeva nel passato e nel futuro, domando le
maree del destino.
Colui il cui nome e potere si perdevano nelle origini
stesse di Nirn.
Riflettei a lungo ed infine presi la mia decisione.
La notte di un quinto giorno del Primo Seme, mentre
fuori imperversava il temporale, mi chiusi nella mia stanza e tracciai sul
pavimento un ampio pentacolo irto di rune. Con voce tremante, pronunciai i
termini dell’invocazione.
Attesi alcuni istanti, in silenzio, ma non accadde
nulla. Il solo suono del rombo dei tuoni lontani riempiva il vuoto intorno a
me, mentre ampie e leggiadre volute di fumo salivano lentamente dalle candele
poste a circondare il cerchio d'Evocazione. Nulla si palesò al mio sguardo, le
terribili fiamme ed il vuoto dell'Oblivion di cui tanto avevo letto prima
d'allora non si mostrarono affatto, né tantomeno la più semplice apparizione o
prova che potesse in qualche modo ricompensare i miei sforzi. Abbassai lo
sguardo stringendo i pugni con forza.
Pensai di avere fallito, ed ancora una volta mi sentii
patetica ed inutile, troppo incapace persino per chiedere aiuto.
Poi udii la Sua Voce.
Fredda e distante come giunta da Sfere Lontane, ma
profonda e pregna di un potere antico e terribile.
Ed infine Egli mi apparve.
Un turbine come di acque torbide e pulsanti avvolte da
lunghi tentacoli neri fluttuò innanzi a me, mentre lentamente prendeva forma l'orrida
figura di un corpo abominevole, senza volto ed attraversato da svariati occhi
opalescenti. Gli arti sghembi si protendevano verso l'alto, scheletrici ed
affilati, simili alle tenaglie di un insetto.
Il Suo corpo informe, che nulla aveva di umano o
elfico, terminava in una massa molle e viscida, contornata da numerosi
tentacoli. I Suoi occhi vitrei erano spalancati ed immobili, dando come
l'impressione che il Dio stesse scrutando attraverso d'essi il Tutto ed il
Nulla al contempo.
Rabbrividii. Un lungo rivolo di sudore gelido scese
lungo la mia schiena, mentre chinavo il capo prostrandomi innanzi al Signore
della Memoria.
Meditai le mie parole con attenzione.
Non avevo molto da offrire. Tutto ciò che possedevo
erano gli abiti che indossavo, e pochi altri miseri averi custoditi all'interno
del pesante baule ai piedi del letto. Perciò gli offrii l'unica cosa che
potesse avere per me un qualche valore.
La mia anima. Certo, per quel poco che potesse valere
l'anima senza nome di una ragazzina misera e semplice qual'ero.
Ma essa, per quanto insignificante, era tutto ciò che
avessi da offrire.
Infine pronunciai quelle parole.
Un’eternità di schiavitù nell’Oblivion. Sua nella vita
e nella morte.
Egli mi trasse a se; avvertii le spire dei Suoi
tentacoli avvolgermi e stringere il mio corpo sempre più. La vista iniziò ad
annebbiarsi, mentre il mondo intorno a me sbiadiva lentamente, lasciando posto a
visioni di oscuri abissi ricolmi di atrocità innominabili ed orrori a lungo
dimenticati.
Immensi corridoi e sale sconfinate si aprirono innanzi
ai miei occhi, dimorate da creature abominevoli e terrificanti. L'aria
verdastra e malsana di quel luogo infernale permeava ogni cosa, bruciandomi i
polmoni ad ogni respiro.
Parole distanti, sussurrate in una lingua a me
sconosciuta giunsero alle mie orecchie da lontano. Nonostante prima d'allora
non avessi mai udito tali parole, una parte di me sentiva di averne comunque
memoria, come se esse provenissero da un sogno dimenticato per lungo tempo.
Obbedii e tesi il braccio sinistro davanti a me, in
silenzio.
Un dolore acuto e lancinante mi attraversò
all'improvviso; come se mille lame arroventate incidessero la mia carne in
profondità, all'altezza dell'avambraccio.
Sentii la mia pelle sciogliersi al Suo tocco, ed i
tessuti sottostanti bruciare consumandosi fino alle ossa.
Non ebbi il coraggio di abbassare lo sguardo per
vedere cosa restasse del mio arto sinistro; i Suoi gelidi occhi sembravano
scrutare fin dentro la mia anima, paralizzandomi.
Mi chiesi se il Dio potesse leggere il terrore che
cresceva sempre più nel mio giovane cuore, mentre i suoni intorno a me si
facevano ovattati e distanti ed il buio calava avvolgendo ogni cosa.
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