Heartlines

di Luana89
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I


«Torna qui puttanella.»
Ignorai le sue urla isteriche azionando la playlist mentre fuggivo letteralmente via da quella casa. Abito in uno dei quartieri ispanici del southwest side di Chicago, detti anche Back of the Yard. Anzi no, mi correggo: vivo in un quartiere di merda qualsiasi a Chicago. Ci trasferimmo all’incirca otto anni fa, quando mia madre probabilmente preda di fumi alcolici decise di seguire un certo Santos. Inutile dire che si mollarono qualche mese dopo, ma mia madre non perse la predilezione per gli ispanici dal grilletto facile.
I miei short in cotone dalle stampe floreali tirano ad ogni mio passo, la canotta grigia diviene più scura sulla schiena laddove il sudore si accumula mentre corro fino a sentire scoppiare i miei polmoni. Un giorno o l’altro andrò via da tutta questa merda, è quello che mi ripeto ogni secondo durante la mia solita corsetta pomeridiana, o durante le liti con mia madre o peggio durante quelle con Carlos il suo nuovo ‘’fidanzato’’. Condividono la passione per l’alcool, volendo vederla positivamente è un bene dormire in casa con un uomo che tiene la pistola sul comodino. Volendola invece vedere male, è pessimo l’essere svegliati ogni notte dagli spari lungo la via. Ho contato quattro proiettili conficcati alla parete vicino la porta d’ingresso, e la sera durante i miei colloqui con Dio prego che il quinto si conficchi nel cranio di quel sudicio bastardo.
Osservo l’ambiente attorno a me, qualcuno ha gettato un materasso lercio accanto ai bidoni, alcuni bambini giocano a basket in mezzo alla strada e sembrano così ..adulti. Giocano con consapevolezza, è come se l’infanzia non esistesse qui a Back of the Yard. In effetti io sono l’esempio palese, ho diciassette anni e non ricordo un cazzo della mia età infantile, o più comunemente definita età d’oro. Niente albero di Natale, niente regali di compleanno, niente torte appena sfornate.
 Mi duole il fianco, giro l’angolo e stringo i denti mentre sposto un ciuffo castano dietro l’orecchio. Una goccia di sudore scende giù dalla fronte incastrandosi tra le mie ciglia, e le urla di due donne mi distraggono facendomi quasi inciampare, le osservò rallentando sperando in una scazzottata epica. Qui si che le donne sanno menar le mani, mica come le lady che vedo in tv, quelle troiette qui morirebbero. Morirò anch’io un giorno di questi, ma lo farò mordendo e graffiando. Respiro profondamente sentendo il primo crampo al polpaccio, rallento un po’ ma non mi fermo e non lo faccio non perché tenga particolarmente alla mia linea quanto più per il rumore d’auto dietro di me. Stringo i denti fingendo di non aver sentito il clacson, in fondo ho le cuffie alle orecchie quindi direi sia un’ottima scusa. Non lo è. Una mano mi afferra e io non riesco a sobbalzare, fingo male e come attrice sarei penosa. Il braccio rientra dentro il finestrino per far posto al viso dalla carnagione olivastra: Juan Hernandez.
«Dolcezza, salta su». Juan è il mio ragazzo. O meglio lui si è proclamato tale, considerando la sua appartenenza ai Latin Kings chi diamine lo contraddirebbe? Io, probabilmente. Ma dopo avergli visto ammazzare un tizio con calci e pugni, dopo aver visto quel viso ridotto una maschera informe di sangue e carne, diciamo che lo contraddico sottilmente ecco. La verità è che sono una puttana, come dice mia madre. Una puttana codarda, una la cui vita non vale un cazzo. Prego in una scossa, in un incontro anche veloce che mi faccia pensare ‘’okay, esiste qualcosa di meglio oltre le mura piene di graffiti di questo posto’’. Ma non arriva, non arriva mai.
«Hope?». Questo è il mio nome, no vi prego non sottolineiamo la crudele ironia. Mia madre mi odiava fin dal mio primo vagito probabilmente. Fisso i suoi occhi scuri, non è brutto anzi è piuttosto attraente nei suoi sfolgoranti diciannove anni, ma francamente penso di detestarlo a giorni alterni.
«Juan, a differenza tua frequento regolarmente le lezioni e quindi devo studiare». Tolgo le cuffie con un sorriso affabile che celi la profonda cazzata appena detta.
«Andiamo, studiare a che pro? Ti darò io i soldi, vivrai da regina insieme a me». La sua risata sguaiata mi disarma, lo vedo battere il cinque con l’amico. Eirc, un coglione borioso poco più grande di me che pensa di avere potere solo per il ferro che porta dietro la schiena.
«Vivere da regina alle tue spalle è proprio il mio sogno nel cassetto dolcezza – riavvolgo con cura le cuffie dandomi un lieve slancio per scendere dal marciapiede – allora dove si va stasera?». Come ho già detto: sono una puttana codarda. Questa è la spiegazione che mi do ogni volta pur di non ammettere che preferisco scoparmi Juan, piuttosto che passare un’altra dolorosa serata in quella casa di merda.
 
 
La sveglia suona insistentemente, allungo una mano schiacciando alla cieca finché non la becco gettandola a terra. Dovrò comprarne un’altra, e siamo a quota cinque. La stanza è completamente immersa nel buio, un vizio che porto da sempre, non riesco a dormire se non c’è ogni singola finestra sigillata. Nessun odore di caffè o colazione mi accoglie, probabilmente perché mia madre si alza sempre in tempo per il pranzo, che neppure cucina perché troppo impegnata a stappare la prima bottiglia di vino. Ha perso ogni lavoro racimolato con fatica, le suggerirei la prostituzione salvo poi ricordare che con Carlos è ciò che in effetti fa.
La scuola è uno dei pochi momenti di pace, mi piace molto la letteratura immergermi in mondi lontani e sconosciuti, conoscere il significato di amore e passione attraverso i versi scritti da qualcuno ormai morto. Sospiro infilandomi i jeans, l’ennesimo strappo si è formato all’altezza delle cosce, è una fortuna che siano alla moda così o farei concorrenza ai barboni dietro casa mia. Indosso una semplice canotta verde acido e una giacca in cotone nera, pettino i capelli e mi rendo conto di quanto siano adesso lunghi, forse dovrei tagliarli? Lasciamo perdere, l’ultima volta che c’ho provato avevo dodici anni e sembravo la sosia di un ananas meglio imparare dai vecchi errori.
La cucina è immersa nel silenzio, cerco di far piano ma uno scricchiolio mi tradisce.
«Stai uscendo?». Osservo Carlos steso sul MIO divano a guardare la MIA televisione.
«Ti stupirà ma la gente comune la mattina lavora, o nel mio caso: si istruisce». Mi fissa con quegli occhi viscidi, vorrei vomitargli la colazione in faccia se solo l’avessi avuta.
«Dovresti solo stare con Juan, è quello il tuo posto. Sei solo una femmina, e pure frigida.»
«Il fatto che io mi rifiuti di aprirti le cosce non fa di me una persona frigida, ma qualcuno con del buongusto». Gli sorrido candidamente ma la mia vittoria dura troppo poco, lo vedo alzarsi lentamente e sospirare come suo solito, con quel silenzioso dirmi ‘’sei tu a provocarmi’’.
«Ho detto a tua madre che non ha saputo educarti come avrebbe dovuto». Il rumore del coltello ancora sporco di burro che sfrega contro il tavolo mi fa accapponare la pelle. Non rispondo, a che pro? Parlava di qualcuno che non esisteva più, quella stronza che ancora russava nella stanza accanto non era mia madre. Devo pensare e agire, la porta dista solo qualche metro, se lo colgo di sorpresa posso riuscire a scappare e con un po’ di fortuna quando tornerò stasera lui avrà dimenticato perché troppo ubriaco. Lo vedo slanciarsi verso di me, la mia gamba si muove da sola piantandogli il ginocchio sulla coscia, sento le sue imprecazioni soffocate e capisco che è la mia occasione. Peccato la mia disperazione non superi abbastanza la sua rabbia, non in quel momento.
 
 
«Signorina Kurtzman vorrebbe dirmi qualcosa?». Qualcosa. Io vorrei dire tante cose, ma credo non servirebbe.
«No dottoressa Freeman». Le sorrido gelidamente fissando la stanza attorno a me, i colloqui con lo psicologo sono divenuti ormai un appuntamento fisso nella mia vita. La scuola pensa sia un buon modo per tutelare i propri studenti.
«Nemmeno sul livido sotto l’occhio?». Lo tocco involontariamente, fa un fottuto male e sono passati solo due giorni.
«Su questo avrei da dire parecchie cose, ad esempio che mischiare rum e vodka è una pessima scelta per il mio equilibrio ..oh ma aspetti non dirà mica ai professori che bevo pur essendo minorenne vero?». Il suo sospiro è la mia sconfitta, anche se lei pensa il contrario.
«Mi stai dicendo quindi che te lo sei procurato accidentalmente?». Beh..
«Si». Vedo la sua idea di chiamare i servizi sociali sfumare miseramente, come ogni volta. Sembra avermi preso a cuore e forse si chiede anche il perché io mi ostini a negare tutto. Il punto è che non esistono vie d’uscita, dopo i servizi sociali ci sarà solo vendetta. Verso di me, verso mia madre che francamente non merita la mia preoccupazione. La gang di Carlos non scherza, e lui all’interno di quella merda detiene un certo potere.
 
«Non ti fermi?». L’auto continua a seguirmi, la voce di Juan diventa pericolosamente aggressiva. Mi giro forzandomi a sorridere.
«Hai bisogno di qualcosa?»
«Che cazzo hai fatto all’occhio?». Inarco un sopracciglio e sorrido.
«Uccideresti Carlos per me?». Lo vedo sbiancare per un secondo, in fondo fanno parte della stessa banda: i Latin Kings.
«Che cazzo di domande sono?»
«Allora non chiedermi cos’ho fatto all’occhio». Capisce finalmente, in fondo ci tiene a me. O meglio la sua è solo smania di possedere ciò che sa di non poter avere, nonostante le mie moine sa che non provo nulla. Neppure quando la sua mano mi scosta le mutandine. Sono sorda e muta.
 
***
 
Il cappuccio della felpa mi copre del tutto la fronte e parzialmente gli occhi, ciuffi lunghi ribelli escono rendendo palese il mio sesso, come se non si capisse dai jeans che fasciano ad arte il mio culo. Ho un gran bel culo, e non lo dice solo Juan. Sono passati dieci giorni dal cazzotto, il livido ormai è quasi sparito. Mi fermo di fronte la caffetteria con un sospiro, vorrei comprare delle ciambelle ma non posso permettermele, quel bastardo di Juan non si fa vedere da una settimana ergo non posso spillargli soldi. Metto una mano in tasca e afferro le monetine, le conto due volte per essere sicura.
«Un caffè, amaro e senza panna». Sollevo di scatto il viso per capire da dove proviene la voce e infine lo vedo. Ha la schiena poggiata al muro del locale, un ginocchio piegato e l’espressione indolente. Mi fissa con quelle iridi ingannevoli e penetranti, se gira il viso a destra il sole li farà apparire verdi, se invece gira il viso verso sinistra allora sembreranno color caramello e questo basta a renderli ingannevoli (anche se la gente normale li definirebbe: cangianti). Per finire i capelli corvini e un’altezza che santo dio cosa diamine gli hanno dato da mangiare?
«Come scusa?». Il mio tono esce più sostenuto di quanto volessi mentre stringo nel pugno le mie monete.
«Prenderai un caffè amaro e senza panna perché non puoi permetterti altro». Scrolla le spalle sorridendo strafottente. Vuole forse che gli faccia mangiare le monetine? Lecco l’angolo delle mie labbra infilando nuovamente le mani in tasca, avvicinandomi spavalda.
«E tu che cazzo ne sai?». Non si muove, evidentemente non lo intimorisco il che è un bene. Non si scosterà quando la mia ginocchiata gli farà rientrare le palle.
«Vuoi picchiarmi quindi?». Penso di aver mosso un passo indietro per lo spavento, legge nel pensiero?
«Niente di tutto questo». Ha letto ancora la mia mente, lo sento ridere e chinarsi appena per poi indicarmi.
«Mi stai prendendo per il culo? E’ un tuo passatempo questo?»
«Prenderti per il culo? In effetti sembra meritevole». Oh questa si che era divertente, glielo faccio notare sfoderando la risata più falsa che ho in repertorio.
«Semplici deduzioni, la gente è come un libro: basta saperlo leggere. Hai dei jeans alla moda, il modello però è vecchio, alcuni strappi sono dovuti al troppo utilizzo. La felpa è logora ai bordi delle maniche e sui lacci del cappuccio, ti sei soffermata troppo a contare gli spicci. A meno che tu non sappia contare volevi accertarti bastassero per la cosa più economica: il caffè. – una breve pausa mentre sentivo la mia bocca spalancarsi fuori controllo – e poi .. hai sospirato fissando la vetrina, eri frustrata. Per non parlare della zona in cui sembri a tuo agio.»
«Complimenti Sherlock – sfoggio il mio sarcasmo migliore, ma lui continua a ridere – guarda che non sei l’unico bravo a questo gioco». La mia frase fa cessare il suo divertimento e risveglia l’interesse.
«Ah si? Allora leggimi». Merda, ha raccolto la sfida. Mi concentro iniziando a fissarlo, a parte l’essere una specie di figo da paura non noto molto. E non posso di certo dirglielo.
«Cos’è quella macchia tra pollice e indice?». La fisso domandandolo più a me che a lui, sembra ..pittura? Tempera?
«Sei un muratore?»
«E tu una stupida.»
«Vai a farti fottere Mago Merlino». Alzo il mio dito medio mollandolo lì, ma la sua presa mi blocca, sorride di nuovo.
«Hai bisogno di soldi, giusto?»
«Non mi prostituisco». Fisso ancora la sua mano, non si mangiucchia le unghie.
«Buono a sapersi, anche se ritrarre una baby prostituta sarebbe figo». Ritrarre? Lo fisso nuovamente interessata.
«Sei un artista». Mi sento una cogliona per l’ovvietà. Lui sorride, sa cosa sto pensando.
«Si, poseresti per me?»
«Non ho tempo da perdere». Tecniche d’abbordaggio patetiche, o almeno voglio sperare sia così.
«Neppure per cinquanta dollari l’ora?»
«CINQUANTA—Cinquanta dollari?». La sua risata è assurda, mi sta sul cazzo.
«Lo farai?»
«No.»
«Ottimo». Mi sorride afferrandomi la mano, voltando in su il palmo per scrivervi sopra qualcosa. E’ un numero. Il suo.
«Se questo è un tentativo di abbordaggio..» le sue dita mi stringono il polso, i suoi occhi mi scrutano.
«Se avessi voluto abbordarti te ne saresti accorta. Al momento vivo nella zona di Hyde Park». Non riesco a spiccicar parola mentre lo vedo riporre la penna e darmi le spalle andando via silenziosamente, proprio come era arrivato.
 
Ricordo solo dopo pochi istanti una cosa a mio parere essenziale: Avevo chiesto una scossa, e ne avevo ricevute due nell’arco di pochi minuti.
 

 




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