Francis cercò per
l’ennesima volta di svegliare Feliciano scuotendolo
violentemente, senza alcun successo. Il ragazzo dormiva beatamente
perso in
chissà quale sogno mentre un po’ di saliva gli
colava dalla bocca. Inutile era
urlargli nell’orecchio e colpirlo, sembrava quasi morto.
Nemmeno l’intervento
di Matthew riuscì a cambiare la situazione, non che Francis
si aspettasse
chissà che cosa, il grazioso canadese non sembrava proprio
il tipo da riuscire
a farsi valere.
Gli schiamazzi attirarono
l’attenzione dei due fratelli
tedeschi che iniziarono ad osservare insistentemente la scena.
“E’ di nuovo
quello sporco maccherone a creare problemi!
Questa volta glie ne darò così tante da lasciarlo
davvero morto a terra!”
Esclamò Gilbert agguantando il suo manganello, ma fu
prontamente fermato dal
fratello.
“Occupati degli altri,
questa sciocchezza la risolvo io.
Credo debba iniziare a guadagnarmi il rispetto e il timore dei
prigionieri”
Gilbert sorrise e annuì
alle parole del fratello per poi
uscire per abbaiare altri ordini ai detenuti sparpagliati nello
spiazzale
antistante al dormitorio. Ludwig lo guardò per qualche
istante, poi si diresse
verso la fonte di tutto quel chiasso. Nella sua mente il tedesco si
complimentò
con sé stesso per aver salvato nuovamente quel ragazzo da
morte certa.
“Deve avere qualche santo
lassù che lo protegge in
continuazione” Pensò mentre si avvicinava alla sua
cuccetta.
Francis e un timido ragazzo biondo
sbiancarono quando lo
videro e aumentarono i suoi sforzi per svegliare l’italiano
ma non ci
riuscirono nuovamente. Ludwig li guardò dritto negli occhi
con uno sguardo di
ghiaccio, poi spostò il suo sguardo sulla figura stesa sulla
paglia.
Con un cenno fece capire ai due ragazzi di lasciarlo solo con
l’italiano.
Francis cercò di protestare ma uno sguardo agghiacciante lo
fece desistere e,
preso per il gomito l’altro ragazzo, uscirono frettolosamente
fuori guardando
più volte nella loro direzione.
Una volta rimasti soli Ludwig si
concentrò sul ragazzo che
ancora dormiva beatamente. Il suo sguardo si soffermò sul
groviglio di capelli
castani che cadevano morbidi sulla paglia e sul volto, e sul bizzarro
ciuffetto
arricciato che si allungava su un lato della testa. Quel ricciolo
sembrava così
morbido da tentare Ludwig di toccarlo e tirarlo.
Lo sguardo poi si spostò sulle sue labbra rosee e morbide.
Ludwig non riusciva
a capire perché ma si sentì fortemente tentato di
accarezzarle con un dito per
sentire la loro morbidezza al tatto.
Infine il tedesco fissò la figura del corpo seminascosto
sotto la sottile
coperta. Subito il ricordo della notte precedente e soprattutto di
quello che
aveva fatto si insinuò nella sua mente facendolo arrossire
violentemente.
Distolse velocemente lo sguardo e si
tolse il cappello
lisciandosi i capelli impomatati con una mano guantata cercando di
calmarsi.
Doveva agire in fretta altrimenti suo fratello si sarebbe insospettito.
Essendo
fervente cristiano e nazista, non avrebbe minimamente accettato anche
solo di
ascoltare i problemi che Ludwig stava affrontando in quel momento. Lo
avrebbe
sicuramente bollato come persona moralmente scorretta e deviata e lo
avrebbe
rispedito a casa supplicando il padre di farlo visitare da un medico e
di
mantenere il segreto per non gettare l’intera famiglia nella
vergogna più
totale… perché dopo la scorsa sera Ludwig aveva
capito di provare una sorta di
sentimento omosessuale nei confronti di quel ragazzo.
Ma non era questo il momento di
pensarci. Rimettendosi il
cappello, Ludwig afferrò una spalla del ragazzo e lo scosse
violentemente come
avevano fatto prima Francis e l’altro detenuto.
L’italiano fu sballottato
duramente, ma nemmeno questo riuscì a svegliarlo. Temendo
che arrivasse Gilbert
e di non poter difendere più il ragazzo dalla sua violenza,
il tedesco afferrò
con entrambe le mani un braccio dell’italiano e lo
tirò fuori dalla cuccetta
con violenza facendolo cadere a terra.
Il colpo fece svegliare di
soprassalto il ragazzo che si
guardò in giro con uno sguardo assonnato e confuso,
finché non vide il giovane
tedesco. Subito il ragazzo bruno si alzò da terra e si
appiattì al muro tra le
cuccette spaventato a morte.
“Ve…
v-ve…” Balbettò in preda al panico.
“Come ti chiami?”
“…”
Feliciano non riusciva a risponde per
il terrore. Era sempre
stato molto pigro nello svegliarsi, una brutta abitudine che
condivideva con il
fratello e che spesso creava problemi nel gruppo partigiano in cui
operavano,
ma in quel luogo poteva realmente rischiare la pelle per il suo stupido
vizio.
Ludwig fece un passo in avanti
terrorizzando a morte il
ragazzo. Voleva assolutamente sapere il suo nome, voleva conoscere
tutto di
lui, voleva potergli parlare per tutto il tempo, ma doveva fare un
passo alla
volta. Un soldato nazista non doveva fraternizzare con un prigioniero.
“Il tuo nome!”
Scandì con voce forte marcando il suo accento
tedesco.
Feliciano per poco non si
bagnò i pantaloni per la paura. Il
suo cuore batteva a mille e pensava seriamente che
quell’adone paradisiaco
sarebbe stato l’ultima cosa che avrebbe visto in vita sua.
Balbettando riuscì a tirare fuori dalla sua gola il suo nome
e gli sembrò che
il tedesco lo pronunciasse più volte sottovoce come se lo
stesse masticando con
la bocca per renderlo un suono familiare.
Delle grida da fuori
l’edificio destarono il tedesco dal suo
torpore e, dopo aver risposto ad esse, fece cenno a Feliciano di uscire
fuori.
Il ragazzo afferrò le scarpe che si trovavano ai piedi della
cuccetta e corse
velocemente fuori, rivelandosi un ottimo scattista.
Ludwig rimase a fissarlo mentre
percorreva in pochi istanti
il corridoio del dormitorio per poi scomparire nello spiazzale
illuminato
confondendosi con gli altri detenuti.
Il tedesco sentiva una sorta di calore nel petto, un’altra
sensazione strana e
sconosciuta, ma si decise ad ignorarla mentre raggiungeva gli altri
all’aperto.
L’edificio che ospitava la
fabbrica L14 era piuttosto alto e
malridotto, saturo di odore di metallo fuso e con il pavimento di terra
battuta
sporco di trucioli di metallo. I macchinari che servivano per la
fonditura e la
lavorazione della materia prima si trovavano esattamente nel centro
dello
stabile. Il calore in quel luogo era tale da fare impallidire
l’inferno stesso.
Quando Feliciano entrò
nello stabile Gilbert aveva costretto
a suon di calci e manganellate gli altri detenuti a iniziare il lavoro
quotidiano. Un gruppo di persone erano addette al recupero della
materia prima
da un grosso cumulo di detriti posto all’esterno dello
stabile e al trasporto
fino alla fornace dove un altro gruppo, senza alcuna protezione
addosso, si
occupava della fonditura. Il metallo sciolto colava poi in alcuni
stampi che
venivano calati in acqua da un terzo gruppo di uomini che avevano il
compito di
raffreddare il metallo che ormai aveva assunto la forma di un
ingranaggio e di
trasportarlo in un angolo dell’edificio dove venivano
accatastati.
A prima vista quei grossi ingranaggi
sembravano del tutto
inutili, ma da quando il campo aveva aperto le sue porte ogni fabbrica
del
blocco produceva ingranaggi di varie grandezze che venivano poi inviati
direttamente nelle fabbriche di assemblaggio di veicoli bellici a
Berlino.
L’unica persona che mancava
nei vari gruppi era Francis che
era stato spedito da Gilbert con un forte calcio sul fondoschiena nelle
cucine
con il compito di preparare il rancio del giorno al dormitorio intero.
Nel campo di concentramento prussiano ai prigionieri veniva concesso un
pasto
al giorno qualora avessero svolto bene il loro lavoro, che spesso
consisteva in
una zuppa acquosa e poco consistente che li lasciava più
affamati che mai
accompagnata a un tozzo piuttosto duro di pane. Le guardie invece
avevano
diritto a un lauto pranzo consumato nella loro mensa personale, seguito
da un’abbondante
cena serale.
Nel vedere l’italiano
correre nello stabile senza scarpe
Gilbert lo raggiunse con poche falcate e lo colpì con il suo
manganello.
“Cosa diavolo stai facendo,
pezzente? Mettiti subito le
scarpe e vai a trasportare le pietre alla fornace, sporco
maccherone!”
Feliciano piagnucolò
qualcosa mentre si metteva le scarpe
tutte bucherellate, poi scappò vicino il ragazzo polacco che
stava uscendo in
quel momento per andare a prendere le pietre da trasportare alla
fornace.
Tutto doveva essere perfetto per Gilbert, soprattutto pulito e
ordinato, e
funzionante. Tutti gli uomini che controllava dovevano lavorare sodo
per
produrre ingranaggi e tenere alto il nome del campo nelle parti alte
del
governo tedesco.
Gilbert ci teneva così tanto da accettare di sacrificare dei
poveri innocenti
pur di risultare perfetto.
Nella fabbrica lo raggiunse anche Ludwig che sembrava perso nei suoi
pensieri
come la sera prima.
“Guarda fratellino, guarda
quant’è perfetta e impressionante
la nostra organizzazione. Questi miserabili hanno trovato uno scopo
nella loro
vita finalmente!”
Gilbert sembrava veramente convinto
di quello che diceva, ed
era così preso dalla sua perfezione da non accorgersi che il
fratello non aveva
sentito nemmeno una parola del suo discorso. Era impegnato invece a
ripetere in
modo quasi impercettibile e insistentemente una parola che rotolava tra
i denti
come se stesse recitando un rosario.
La perfezione tanto amata di Gilbert
fu rovinata
improvvisamente da un rumore sordo e da un flebile lamento. Gli occhi
rosso
fuoco dell’albino subito guizzarono verso la parte sinistra
dell’edificio, dove
gli ingranaggi appena completati venivano accatastati pronti per essere
spediti. Il suo sguardo si fermò su un ragazzo gracilino
nonostante l’altezza che
accucciato vicino a un ingranaggio posato a terra cercava inutilmente
di
sollevarlo, bloccando e deviando la fila di lavoro che si era formata.
Con grosse falcate, mentre il suo
volto diventava rosso per
la rabbia, Gilbert si diresse verso il ragazzo biondo, quasi
investendolo.
“Cosa cazzo stai facendo,
piccolo merdoso stronzo?! Muoviti
a raccogliere quell’ingranaggio e a tornare a
lavorare!”
Le sue grida si sparsero per tutto
l’edificio bloccando
all’istante tutti i lavoratori che si girarono a guardare
nella sua direzione
curiosi e impauriti.
Matthew cercò inutilmente di alzare l’ingranaggio
ma l’oggetto non si mosse di
un millimetro da terra.
“Io… io non ci
riesco… è troppo pesante per me!”
Piagnucolò
nello sforzo.
Gilbert non ci vide più
dalla rabbia. La sua adorata e tanto
sofferta perfezione stava per essere irrimediabilmente rovinata da quel
miserabile individuo dal disgustoso accento inglese che continuava ad
esistere
soltanto per un suo capriccio. Senza pensarci due volte
l’albino afferrò per il
collo il povero ragazzo e sfoggiando una forza fuori dal comune, dovuta
agli
anni di allenamento per rendere perfetti i suoi muscoli, glielo strinse
soffocandolo.
Matthew cominciò ad
annaspare mentre con le mani cercava di
divincolarsi dalla presa del tedesco, ma non vedendo bene a causa degli
occhiali che gli erano stati tolti il giorno prima, non
riuscì a colpirlo né
tantomeno ad appendersi al suo corpo.
“Kesesese, ma a chi stai
mirando, eh fallito?” Schernì
Gilbert ridendo di gusto mentre stringeva la presa sul pallido collo
del
ragazzo.
“Uc…
Oc… Occhi-ali…” Riuscì a
sputare Matthew mentre si
aggrappava con tutte le sue forze alle braccia di Gilbert cercando di
respirare
un po’ d’aria.
“Occhiali? A che ti servono
gli occhiali se stai per
morire?”
Detto questo Gilbert mollò
la presa con una mano e la
sollevò a pugno pronto per calarla con forza sul povero
malcapitato.
Nell’edificio era calato un silenzio quasi sacro. Gli altri
detenuti rimasero a
guardare sconvolti sentendosi disgustati e impotenti allo stesso tempo.
Il
volto di Feliks assunse una smorfia di disperazione nel vedere che un
altro
detenuto del suo dormitorio stava per morire per un motivo futile e
assurdo. Al
suo fianco Feliciano tremava come una foglia e singhiozzava in silenzio
mentre
le lacrime gli bagnavano il volto.
Dalla fornace Toris guardava paralizzato la scena. Nemmeno il giorno
prima
aveva concluso che il canadese non sarebbe sopravvissuto a lungo, ma
non
avrebbe mai pensato di vederlo morire così presto e per un
motivo così stupido.
Semplicemente non era pronto per vedere morire nessuno.
Alle urla disumane Ludwig
uscì dalla sua trance notando
finalmente cosa stava succedendo a pochi metri di distanza da
sé. Vedere il
fratello piegato sul ragazzo indifeso pronto a massacrarlo di pugni lo
lasciò
con un fortissimo senso di nausea mentre l’adrenalina
montava. Doveva salvare
quel ragazzo dalla violenza del fratello, esattamente come aveva fatto
poco tempo
prima con Feliciano, doveva assolutamente farlo. Pensando a
ciò fece uno scatto
in direzione del fratello per poi fermarsi qualche istante dopo,
sconvolto.
Non aveva fatto in tempo.
Gilbert rideva come in indemoniato mentre guardava il volto del ragazzo
rosso e
sofferente. Con la sua morte la sua perfezione sarebbe stata salva.
Gilbert era
pronto a sacrificare chiunque pur di preservarla. Avrebbe colpito
così forte
quella feccia da renderlo irriconoscibile anche a sua madre, non
importa se
avrebbe tolto forza lavoro nella fabbrica, un individuo tanto inutile
era solo
un peso per essa.
Stava per avventarsi sul ragazzo con
foga quando il suo
braccio si fermò a metà strada, come se una mano
invisibile lo avesse
trattenuto con forza.
Gilbert rimane impietrito a guardare il volto del canadese ormai allo
stremo.
Matthew era diventato completamente rosso, quasi viola, per la mancanza
d’aria
e dalla sua bocca colava un rivolo di saliva che cadeva sulla mano
dell’albino
che gli stringeva il collo. Ma quello che più di tutto
pietrificò il tedesco fu
il suo sguardo. Gli occhi del ragazzo, grandi e d’un
incredibile violetto, lo
fissavano socchiusi per lo sforzo e colmi di lacrime che scendevano
sulle sue
guance. Nel suo sguardo Gilbert non leggeva né odio
né rancore né nessun altro
sentimento negativo nei suoi confronti ma solo tanta disperazione e
tristezza.
L’albino cercò
di dire qualcosa ma lo sguardo ipnotico del
ragazzo ormai quasi svenuto gli risucchiava l’intera
facoltà del pensiero, e
forse quasi l’anima. Raccogliendo tutta la sua forza di
volontà Gilbert riuscì
a deviare il suo sguardo da quello del ragazzo. Ancora scioccato da
quello che
aveva provato, gettò il ragazzo a terra lasciando la presa
sul suo collo e
alzandosi. Subito Matthew si portò le mani al collo
respirando rumorosamente a
pieni polmoni, tossendo insistentemente. Gilbert lo osservò
per qualche istante
rimanendo in piedi di fronte a lui, poi si guardò intorno.
L’intera fabbrica
aveva puntati i suoi occhi su di lui. I prigionieri erano rimasti a
bocca
aperta a fissarlo increduli mentre Ludwig lo guardava come se
indossasse un
vestito da donna.
Cercando di scrollarsi di dosso
l’immenso disagio che lo
stava assalendo, abbaiò ai prigionieri di rimettersi a
lavoro, poi si rivolse
al canadese intimandolo di cambiare posto con qualcuno della fornace.
Infine,
rosso in volto più per altro che per la rabbia,
girò i tacchi su sé stesso e
quasi corse fuori dall’edificio senza nemmeno girarsi verso
il fratello che lo
seguiva con lo sguardo.
“Cosa cazzo è
successo?”
Questo fu il primo pensiero di
Gilbert quando, uscito dalla
fabbrica, si rifugiò dentro l’edificio dove si
trovavano le docce comuni, a
quell’ora deserto.
Appena entrato, subito si appoggiò con le mani a una parete,
fissando sconvolto
a terra. In nemmeno un minuto era successo l’incredibile, ma
cosa ancora più
incredibile era che non era riuscito a picchiare quel ragazzo.
No, era più corretto dire “non aveva
voluto”!
Gilbert scosse la testa e
tornò a guardare a terra con gli
occhi sgranati. Mai nella sua carriera di amministratore del campo gli
era
successa una cosa simile. Non si era mai fatto scrupoli a picchiare,
vessare,
torturare, ferire o in casi estremi mutilare i prigionieri qualora ne
avesse
avuto bisogno o voglia, ma questa volta semplicemente non vi era
riuscito.
Probabilmente il motivo era il
canadese stesso. Gilbert non
aveva mai preso in simpatia nessun prigioniero da quanto lavorava
lì, ma
riconosceva quando qualcuno lavorava sodo e bene o quando qualcuno era
oggettivamente di bell’aspetto. Quel canadese, se non fosse
stato inglese, sarebbe
potuto essere un perfetto ariano in quanto rispettava la maggior parte
dei
canoni dell’ideologia tedesca.
Il problema però era
soltanto uno: la sua bellezza non era
oggettiva per Gilbert.
L’albino infatti non era stato particolarmente colpito dal
bell’aspetto del
ragazzo quanto dal suo volto e soprattutto dai suoi occhi e dalle
sensazioni
che aveva provato nel guardarli. Occhi grandi, d’un colore
mai visto prima,
innocenti e allo stesso tempo saggi e profondi, carichi di pazienza e
dolcezza.
Uno sguardo che per la prima volta nella vita di Gilbert non lo
guardava con
odio, disprezzo e disgusto.
Gilbert sapeva bene di essere diverso
da tutti gli altri, e
soprattutto di essere estremamente fortunato. La sua caratteristica
principale,
l’albinismo, lo aveva costretto a una vita di forti
sofferenze a livello
sociale dove tutti, adulti, bambini, parenti, insegnanti, semplici
passanti che
lo incrociavano per strada, lo fissavano come se fosse un mostro, lo
additavano
come diverso e lo isolavano. Gilbert aveva dovuto combattere contro la
solitudine e contro il disprezzo per tutta la sua vita, rimboccandosi
le
maniche nel cercare di farsi riconoscere almeno i propri sforzi,
cercando di
essere il migliore in tutto per essere finalmente visto come una
persona
normale e di valore. E accidenti ci era riuscito, era diventato davvero
impressionante, ma nonostante ciò la gente lo guardava
ancora con disprezzo,
disgusto e ora anche con invidia.
Gilbert era consapevole anche che la maggior parte della sua fortuna
derivava
dalla sua famiglia altolocata ed era questo il principale motivo per
cui non si
trovava in quel campo come prigioniero al posto di amministratore.
Lui si divertiva a rendere la vita dei prigionieri un inferno per
cercare di
esorcizzare la sua sofferenza facendo del male agli altri, soprattutto
a quelli
che lo odiavano più di qualsiasi altra cosa.
Non era colpa sua se era nato in quel modo, non era colpa sua se era
diverso da
tutti gli altri, non voleva esserlo e avrebbe fatto di tutto per
proteggere
tutto quello che aveva faticosamente conquistato fino al quel momento.
Ma quello sguardo… quello
sguardo privo di negatività, privo
di odio e rancore, carico solo di tristezza, disperazione e quasi
compassione
lo aveva destabilizzato nel profondo. Quel ragazzo non lo odiava, non
pensava
fosse diverso o che fosse un mostro, aveva anzi quasi pietà
della sua
condizione, e soprattutto non lo giudicava. Guardandolo, per la prima
volta
nella sua vita Gilbert si sentì visto per ciò che
era e non per ciò che
appariva, per un ragazzo che usava la violenza per nascondere la sua
grandissima sofferenza interiore e per cercare di alleviarla, non per
uno
scherzo della natura feroce e senza scrupoli.
Ed era proprio questo che creava in
Gilbert tanta
confusione, il fatto che appena visto quello sguardo il suo io
interiore si era
rifiutato categoricamente di far del male a quel ragazzo, di
distruggere a suon
di pugni la sua innocenza e compassione.
Con un’epifania degna dei personaggi dei romanzi di Joyce,
Gilbert realizzò che
non voleva per nessuna ragione al mondo essere odiato da quel canadese,
ma anzi
voleva assolutamente continuare a essere guardato in quel modo tutto il
tempo,
proteggerlo da ogni minaccia che poteva ledere la sua innocenza,
tenerlo
stretto a per sé in modo quasi possessivo, nutrendosi della
sua presenza e
della sua semplicità come se potessero curare in modo
definitivo le profonde
cicatrici del suo cuore.
Con orrore si allontanò
dalla parete passandosi la mano sul
volto sudato mentre fissava insistentemente la porta
dell’edificio. Un conto
era pensare che una persona fosse di bell’aspetto in modo
oggettivo, un altro
era pensare che quella persona non solo fosse bella ma essere anche
interessato
al suo aspetto interiore. Gilbert deglutì a fatica.
Aveva appena capito di avere degli interessi particolari per un
ragazzo, una
persona del suo stesso sesso, interessi che non aveva mai avuto prima
di allora
e che disprezzava con ogni fibra del suo corpo.
“Impossibile!
Io… io non posso essere interessato a un uomo!
Io….”
Le relazioni tra uomini erano
severamente vietate e punite
dall’ideologia nazista e lui era cresciuto facendo proprio
questo valore. Era
impossibile che avesse interessi per altri uomini, anche
perché ne aveva visti
tanti in ogni modo possibile e non avevano avuto nessun effetto su di
lui, e
poi in gioventù aveva avuto diverse cotte per delle ragazze.
“Devo essermi rincretinito
tutt’un tratto! Probabilmente è
colpa della stanchezza” Ridacchiò tra
sé per cercare di sdrammatizzare il
tutto, ma nel profondo della sua anima sentiva una vocina che urlava
“bugiardo”.
Senza indugiare oltre uscì
dall’edificio e si diresse verso
i dormitori delle guardie deciso a impiegare tutto il tempo che serviva
in
preghiera davanti il crocifisso che aveva appeso nella sua stanza per
cercare
di trovare una risposta ai suoi problemi.
Note
dell'Autore
Ed ecco finalmente un
nuovo capitolo. Mi hanno fatto notare che i capitoli precedenti erano
un tantino corti, perciò iniziando da questo
pubblicherò capitoli più lunghi :D
Lo so, lo so, ho trattato malissimo Canada e me ne pento, ma da adesso
in poi andrà meglio, giuro.
Inoltre abbiamo scoperto anche un lato nascosto di Gilbert che
inizierà ad emergere sempre più!!
Canada è così tenero, piace a tutti :3
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