la signora b. cap 1
"Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla."
- Richard Bach
Capitolo 1
Il
cinguettio degli uccelli appollaiati sul balcone l’avevano
improvvisamente ridestata da sonni angusti, immagini caotiche che,
affollandosi nella sua mente buia, la riportavano indietro ad un
passato fiorito e così stranamente familiare. Nei suoi sogni, una
piccola Margaret richiamava alla mente ricordi frammentari, tornando
così indietro nel tempo, alle vecchie corse a perdi fiato, agli
sguardi timidi che si incrociavano durante i pasti. Il passare del
tempo aveva in un qualche modo scremato le sue memorie, lasciandole
solo i piccoli gesti, le frasi pronunciate senza farci troppo caso,
quel bagliore e quella luminosità negli occhi di Hayden che lo aveva
fatto restare bambino, quella sua tradizione nel prenderle la testa
fra le mani e imprimerle un bacio sulla fronte di primo mattino,
prima di scappare e correre alla miniera. Margaret si appigliava a
briciole di memoria incastonate negli anfratti più remoti della sua
mente e immaginava il modo distratto ed innocente in cui Hayden,
durante i mesi più freddi, si leccava spesso le labbra per non
avvertirne la secchezza oppure, se lo rivedeva seduto ai piedi del
camino con una tazza di latte caldo e un biscotto sotto i denti.
Persino i suoi ricordi profumavano, di sole, d’estate, di biscotti
fatti in casa.
Margaret
aprì gli occhi; dal piano inferiore provenivano odori caldi e
fragranti, come quello di un tozzo di pane che aveva appena fatto il
suo ingresso in cucina, l’invitante profumo speziato degli avanzi
della sera precedente, o il puzzo insistente della legna arsa nel
camino annerito dalla fuliggine. Margaret inspiro’ prepotentemente
il lezzo di aria stantia misto al sapore di bucato proveniente dalle
lenzuola fresche e confortevoli.
Poi
il rumore di passi spediti su per le scale cigolanti e Margaret capì
che il richiamo al dovere sarebbe presto sopraggiunto. Si voltò
verso l’altra sponda di un letto ogni giorno sempre più stretto e,
imboccate le coperte, si immerse nuovamente tra le coltri e desiderò
sprofondare nuovamente nei suoi sogni.
Margaret
sognava spesso. Anche di giorno. Sognava ad occhi aperti e agognava
il fatidico giorno in cui, assorta nella miriade di lavori
quotidiani, avrebbe alzato lo sguardo e avrebbe rivisto Hayden: se lo
sarebbe ritrovato dinnanzi, lì, a un passo da lei, con le braccia
protese in avanti e il suo vivace sorriso impresso sulle labbra
carnose, pronto a stringerla tra le braccia, promettendole in un
dolce sussurro che il tempo non li avrebbe mai più divisi. Eppure
Margaret aveva ormai perso le speranze. Era certa che Hayden si fosse
ormai dimenticato di lei, della sua adorata Marge che lo attendeva
ancora a casa, la loro lontana e grigia casa. Le lettere tanto
appassionate che le aveva inviato con accurata e maniacale
tempestività avevano ben presto cessato di arrivare. Eppure le
conservava ancora tutte: le teneva nascoste tra la federe dei cuscini
oppure sotto il materasso. Erano il suo unico tesoro che
l’avvicinavano al cuore di Hayden.
Un
miraggio, una speranza o forse un’inutile illusione. Un po' come
quando, la sera, Margaret sedeva alla finestra, lei sola ed il
silenzio ad abbracciarla, e le capitava di udire un colpo di tosse o
una voce familiare invocare il suo nome, e chiamarla “Marge”,
assottigliando la “e” fino a farla scomparire in una “i”
silenziosa. Credeva di essere diventata pazza, una Giovanna D’Arco
inglese.
Margaret
scosse il capo, prese una grossa boccata d’aria e fece per
addormentarsi di nuovo, come sorpresa tra le braccia del Dio Morfeo,
quando udì la porta aprirsi impercettibilmente.
“È
ora di alzarsi! “ la voce melodiosa seppure un po’ sgraziata di
Lilith la percosse dalle punte dei capelli fino alle dita dei piedi.
Poteva percepirne la presenza, anche a metri di distanza, ne
riconosceva lo sguardo pungente e se l’immaginava con le braccia ai
fianchi, in una posa di superiorità forzata e un sorriso nascosto
tra le pieghe delle labbra.
Tutti,
ben presto, si erano accorti del repentino cambiamento nei modi di
Margaret, la sua espressione fiera e battagliera era stata eclissata
da un atteggiamento più accondiscendente, quasi fatalista, che non
le apparteneva e lei ne era più che consapevole.
“Ancora
cinque minuti… “ mugolo’ Margaret da sotto le coperte. Sapeva
che le sue preghiere non si sarebbero di certo realizzate, né allora
né mai, e si mise l’anima in pace: non c’era nulla che poteva
contro il suo ingiusto destino e quelle odiose e interminabili
routine senza sosta.
“Forza!
Non farmelo ripetere, sei in ritardo per la colazione! “ Due
acuminate mani ossute si fecero largo tra le spesse coperte di lana
grezza e il corpo affusolato di Margaret. Lilith la afferrò ad una
spalla e non smise di percuoterla finché non la vide rotolare su un
fianco e poggiare i piedi a terra. Le scosto’ le coperte con
noncuranza e le gettò ai piedi del letto.
Margaret
sentí freddo, uno spiffero di aria fresca si era intrufolato tra le
caviglie e l’orlo dell'ampia veste da notte color panna sbiadito e
quando finalmente decise di alzarsi, la consolazione che il freddo
pungente aleggiava finalmente nell’aria, la colse impreparata.
Lilith
l'aveva aiutata a indossare tre delle sue sottovesti più pesanti,
due paia di calze invernali rattoppate qua e là, il suo vestito
verde in spugna grezza e la pesante casacca grigia su cui era stato
cucito un grembiule improvvisato con uno strofinaccio slavato. Le
pettino' i lunghi capelli rossi, lisci e lucenti come l'albume di un
uovo. Li lavorò con le mani, intingendo le scaltre mani callose
nella folta chioma di Margaret, districando con le dita eventuali
nodi. Afferrò una lunga e grande ciocca e con il pettine la stiro'
in tutta la sua lunghezza.
Lilith
era di certo la più turbata per le stranezze dell’amica che
riconosceva a malapena: dalle prime ore del mattino alle ultime della
sera Margaret sembrava un fantasma che, bofonchiando tra sé e sé,
rimuginava su pensieri tutti suoi che non voleva di certo condividere
con gli altri.
Una
volta aveva tentato di rapirla da quel silenzioso incantesimo che la
rendeva prigioniera per parlarle e garantirle un briciolo di supporto
pieno di affetto che la giovane provava nei confronti dell'amica che
conosceva da anni, ma Margaret era fredda, scostante. Non desiderava
essere toccata da nessuno.
Un
pomeriggio, mentre Margaret si recava sul retro per stendere il
bucato fresco di giornata, Lilith le aveva dato una mano ad issare le
lenzuola sul filo per la biancheria.
“Io
e gli altri vorremmo sapere se va tutto bene, Marge.” La cuffietta
bianca che copriva in parte il volto longilineo di Margaret si voltò
di scatto, scoprendo un paio di folte ciglia e due occhi increspati
dall’apatia più totale. “Non chiamarmi a quel modo! Quante volte
devo ripeterlo!?” I raggi del sole pomeridiano sbattevano sulla
facciata della casa facendola sembrare di un grigio meno spento del
solito, le finestre spalancate assomigliavano da fuori a piccole
porte nere che se attraversate avrebbero condotto a luoghi lontani e
ancora più assolati di quello. Margaret sistemò il lenzuolo
spiegazzato sul filo e dopo qualche secondo di silenzio rispose alla
domanda. “Certo che sto bene.” Il tono piatto e impalpabile della
sua voce fece venire i brividi a Lilith che -
Lilith
fu sorpresa da un lontano ricordo che senza preavviso le tornò alla
mente. Sentì il bisogno di fermarsi e assaporare quella visione.
Lei
appoggiata sullo stipite della porta di casa. Era magra e aveva i
capelli arruffati dal vento, le guance scarne e le mani dietro la
schiena mentre guardava Margaret e Hayden giocare assieme a Mark e
alla più piccola Caroline: era estate anche in quel ricordo e il
Sign. Durk era andato in visita ad una fiera di paese vicino Brighton
con un amico della sua locanda preferita.
Hayden
aveva da poco iniziato a lavorare alla miniera e Margaret sembrava
così piccina in quel ricordo. Le urla rumorose dei giochi in
cortile, le corse e le scampagnate, il soave riso gracchiante dei
bambini che le riecheggiava nella mente sembrava trasmetterle un
calore che era sicura non sarebbe più tornato, un passato ormai
distante.
Eppure
se Lilith si fosse concentrata, sarebbe riuscita ancora a sentire il
profumo dolciastro e selvatico dell'erba appena tagliata in
lontananza, le sferzate di vento caldo che non facevano altro che
aumentare l'afa di quella giornata, il verso stridulo dei gabbiani
che dal mare si alzavano in volo per sfrecciare sopra le loro teste e
dirigersi in posti nascosti allo sguardo umano. -
“Voglio
solo che tu sappia che, per qualsiasi cosa, io sono qui per te. Mark
e Caroline ti pensano e sono in pena per te...” Una volta tornata
alla realtà, Lilith sussurrò queste parola con l'immagine della
piccola Marge ancora impressa negli occhi lucidi. “E’ dura per
tutti.”
“Lo
so, Lilith.” Margaret si limitò a pronunciare queste parole con un
sorriso di sbieco impresso sulle labbra, poi si sistemò il corpetto
compresso tra le vesti, afferrò l’enorme cesta vuota del bucato e
si avviò verso l’ingresso di casa.
Abbandonata
la camera da letto e le soffici coltri, Margaret si diresse in camera
del Sign. Durk, che si era già allontanato dall'abitazione dopo aver
sbattuto bruscamente la porta e aver svegliato la maggior parte degli
abitanti della casa. Afferrò dal penultimo cassetto del comò
traballante un paio di guanti e si avviò al piano inferiore non
prima di aver allacciato gli stivaletti logori e dall’odore antico
che ogni inverno sfoderava dalla soffitta con felicità.
Percorse
le scale cigolanti di casa con estrema e meticolosa lentezza per non
rischiare di inciampare nella lunga sottogonna dell’abito poi,
quando raggiunse la cucina, tirò un respiro nel vedere Mark, il
petto imberbe nascosto dall’ampia camicia bianca, la cintura
pendente lungo un fianco e i pantaloni leggermente calati sulle
natiche, che appoggiava una tazza di thè caldo sul mobiletto di
legno per poi asciugare un piatto, probabilmente quello utilizzato da
Durk, dopo averlo lavato nel catino d'acqua lasciato pieno da
Caroline la sera prima.
Una
volta Mark aveva provato a baciarla, ne era certa. Era accaduto
nell'aia, dove Margaret era solita recarsi subito dopo pranzo:
scendeva giù in cortile e andava a controllare le galline e gli
animali giù nel retro. Mark si trovava ad arare la terra dei campi
poco più in là, quando urlo' il suo nome e le fece cenno di
raggiungerlo.
Margaret,
il cesto con le uova sottobraccio e una mano a tenersi la cuffietta
sul capo, gli andò incontro ridente e spensierata ma solo quando si
trovò a pochi metri di distanza, si accorse di una piccola palla di
pelo color delle arance, una matassa screziata e dalle striature
opache che si dimenava tra un paio di braccia nude e muscolose.
"Guarda
cosa ho trovato!" Il ragazzo lo teneva per la collottola mentre
osservava incantato con i grandi occhi scuri quella piccola creatura
sofferente. Margaret, che aveva il cuore dolce e soffice come il
burro, lo pregò con voce languida: "Posso accarezzarlo?"
Sul volto scuro di Mark si formò un ghigno saccente “Puoi
accarezzarlo, soltanto se prima mi dai un bacio!" Margaret
arrossì di tutto punto, nascondendo il volto dietro al cesto in
vimini che stringeva avidamente tra le braccia tremanti. "Mark,
smettila di scherzare!" gli aveva detto, indignata e un po'
offesa. Mark lo faceva sempre, era più forte di lui e non poteva
resisterle. Così non perdeva mai occasione per tentare di rubare un
bacio, seppur insulso, alla tenera Margaret oppure alla più seriosa
e impavida Lilith, un bacio sulla guancia era tutto quello che
riusciva a strappare alla più giovinetta Caroline.
Tenendo
il gatto dietro la schiena, le si avvicinò di soppiatto tutto gonfio
e di rimpetto, si protese in avanti e con la bocca corrucciata piegò
le labbra in una smorfia di soddisfazione. Margaret si sentí
afferrare il cestino che stringeva in mano e quasi non perse
l'equilibrio quando i suoi stivaletti neri sprofondarono nella terra
umida e morbida. Il gitano la teneva per un polso e la guardava con
occhi teneri e un espressione che Margaret non credeva potesse
appartenergli. Non era la prima volta che baciava un ragazzo e di
certo Mark non era brutto come gli altri ragazzi del contado,
piuttosto, le era sempre sembrato un fascio di muscoli ben piazzati,
con la pelle caramellata dal sole e i capelli neri e sbarazzini.
Aveva qualche anno in più di Margaret eppure non sembrava
dimostrarli: Mark era alto e malgrado i suoi vent'anni, aveva i
lineamenti di un uomo di trenta e sembrava già maturo, con il
pizzetto sotto il labbro inferiore e un rado filo di barba sotto il
naso e vicino le basette ricciolute.
"Sto
scherzando, Maggie!" Le aveva infine ululato ad un orecchio,
provocandole uno spasmo involontario. Il gattino era finito tra le
sue braccia e Mark era tornato ad arare la sua amata terra bruna. La
ragazza era rimasta lì, allibita e un pò sconcertata, finché il
gatto non le aveva morso il dorso di una mano per darsela a gambe.
Anche Margaret era tornata ai suoi doveri giù all'aia, con lo
sguardo basso e pensoso.
Ora
Margaret lo guardava e se lo immaginava proprio com’era quel
giorno. Un paio di pantaloni larghi e scuciti e una maglia di cotone
legata in vita. Il petto glabro e lucido e un ciuffetto di peli scuri
tra il ventre piatto e la fibbia della cintura. Mark non sembrava
ricordarsi di quella volta, quella volta nell’aia, quando un
semplice gesto aveva fatto tornare a galla sentimenti e sensazioni
che Margaret pensava avesse dimenticato e ricacciato per sempre nella
ruota della dimenticanza. Non sopportava l'idea che Mark le
ricordasse, seppur lontanamente, il suo caro Hayden: Margaret, aveva
come la sensazione che gli anni le stessero sfuggendo di mano e i
giorni, volati uno dopo l’altro, erano trascorsi come coperti da un
alone grigiastro che con il passare dei mesi le aveva annebbiato
anche i ricordi più cari.
I
mesi successivi alla partenza di Hayden, Margaret, assorta in un
mondo tutto suo, aveva richiamato a sè tutte le forze che possedeva
così da trascinarsi in un perpetuo e fragile ricordo che rievocava
vagamente in lei, un riso compiacente di bambino e due occhi verdi e
grossi come due chicci d’uva. Ma con il passare del tempo,
quell'immagine dai colori nitidi che nella sua mente si era impressa
sotto il nome di Hayden, si andava a mano a mano sbiadendo in un
pallore indefinito e dai bordi smussati.
Mark
stava lentamente prendendo il posto dei ricordi felici trascorsi con
Hayden e lo aveva fatto subito, quel mattino, quella volta nell’aia,
quando l'aveva chiamata giù al campo. Ed era stato come se Margaret
si fosse ridestata da un lungo sogno e d'un tratto il suo corpo si
fosse rianimato e riempito di nuova linfa.
Margaret
era ancora lì, nascosta dietro lo stipite della porta, con le mani
incrociate al petto. Mark non sembrava essersi accorto della sua
presenza così si avvicinò lentamente, camminando in punta di piedi,
e quando fu abbastanza vicina, allungò un paio di dita tremolanti e
gli fece il solletico alle braccia.
“AH!-!”
Mark, la voce stridula e la sua espressione di puro spavento mista
alla meraviglia, ondeggiava tutto e si dimenava come un’anguilla
nella speranza di liberarsi delle piccole mani della giovane che fra
le risa continuava a stuzzicarlo. Con le lacrime agli occhi, il
ragazzo si voltò e, sovrastandola di un paio di spanne, afferrò
improvvisamente Margaret per le braccia che, con il volto arrossato
dal piacere e le guance alte e colme di risa, sembrava più piccola
del solito, con il fazzoletto bianco legato intorno al capo e la
fronte bassa e opalescente. I due si ritrovarono ben presto a pochi
centimetri di distanza, entrambi con il fiatone per lo sforzo.
“Buongiorno anche a te!”
Mark
si stava preparando per uscire e Margaret l'aveva afferrato per mano
e l'aveva stretta con insistenza. "Marge?" Il ragazzo aveva
fissato i suoi occhi scarlatti con insistenza finché non la vide
muovere le labbra, all'unisono con le sue folte sopracciglia
effemminate. “Oggi vado giù in città, ti va di accompagnarmi?”
In un giorno così inospitale, Margaret non era di certo dell’umore
giusto per avventurarsi sola tra gli sconosciuti.
“Ma
certo che ho voglia di accompagnarti!” Una vena sottile quanto un
filo d'erba si stagliava sulla parte destra della sua fronte alta e
squadrata: ogni volta che qualcosa non andava, quella venuzza saltava
fuori, in risalto su di un volto mulatto e dai lineamenti gitani.
Margaret sorrise all’evidente premura e gli sfiorò una guancia
ricoperta dalla barba corta ed ispida che le pizzicava sempre la
pelle ma che le piaceva così tanto. Ora Mark era più alto di lei e
teneva sempre le mani dietro la schiena, come fanno i vecchi. Il suo
passo spavaldo le ricordava quello del Signor Durk quando rientrava a
casa ubriaco e altero.
“Vuoi
del thé caldo?” Mark era sempre il solito gigante buono e buffone
che amava ascoltare i problemi degli altri con devozione ed un
fervore tali da risultare spesso invadente e assai scortese. “Sì,
grazie Mark.” La ragazza sedette a tavola dove qualche avanzo dei
biscotti preparati il giorno prima da Lilith giaceva in un piatto di
porcellana screziata. Mark si ripresentò qualche minuto dopo con una
tazza fumante in entrambe le mani, le porse quella piena e le intimò
di fare attenzione. “Scotta.” Margaret addentò un biscotto alla
cannella indurito e sorseggiò qualche boccata di thé. Mark,
dall’alto della sua posizione, guardava la ragazza seduta al suo
fianco e disse qualcosa.
“Mi
hanno preso a lavorare nei campi, qui vicino. La paga non è un
granché, ma almeno non dovrò sporcarmi troppo le mani o restare
lontano da casa. Inoltre, potrò contribuire alle spese e Durk non mi
vocerà contro dicendo che sono il solito nullafacente...” La
ragazza fece una risatina sommessa dato il tono buffo in cui Mark
aveva pronunciato quella frase.
“Quando
inizi?”
“Domani,
non è lontano, posso andare a piedi…”
Dopo
aver terminato la colazione e aver salutato Lilith, Elizabeth e
Caroline che si erano svegliate da poco, i due si prepararono per
uscire in città.
Lilith
aveva scritto su un pezzo di carta giallastro alcune cibarie da
recuperare al mercato: quattro zucchine, una busta di patate, un
cestino di mele, della scorza di arancia, della farina, un pugno di
zucchero, due bottiglie di latte, un cavolo e una manciata di
asparagi.
°°°
Margaret
e Mark arrivarono in centro senza troppi problemi, il vento gelido
che proveniva da nord ad accoglierli e a spingerli l’uno contro
l’altra in cerca di un po' di calore. La siccità dell’estate
precedente aveva ridotto le coltivazioni che costeggiavano la
periferia di Brighton a sterpaglie sfilacciate che ricoprivano un
terreno frammentato e costellato da crepe sorte nei mesi di magra.
Sebbene Settembre avesse portato con sé inondazioni e piogge,
rimarginare il danno era stato tuttavia assai arduo, quasi quanto
rimarginare le ferite nel cuore di Margaret.
Margaret
stava camminando lungo la strada, a ridosso della facciata di una
lunga serie di piccole case a schiera quando una folata di vento
sollevò le gonne di alcune signore dall'altro lato della strada, ciò
malgrado il piacevole tepore emanato dagli ultimi raggi di un sole di
fine Ottobre. Margaret non potè non lanciare un’occhiata alle
enormi ceste di bucato e abiti ammassati ai loro piedi e dall'odore
particolarmente rancido. Poco più avanti un’anziana signora dal
naso aquilino e le labbra nascoste dalle pieghe del tempo, scansava
le foglie dall’angusto cortile di fronte casa. Sopra di lei, un
alberello spoglio se ne stava ritto e impavido. Ora che ci pensava,
quell'anno le foglie erano cadute prima del solito: un giorno si
sentì il boato del vento e le foglie autunnali caddero dagli alberi,
senza rumore, e una ad una, le foglie ormai vecchie, si staccarono
dal proprio ramo. Ne caddero di ogni forma e di ogni colore,
danzarono suadenti e sospinte dal vento precipitarono al suolo,
sull’asfalto dei marciapiedi e delle piazze per lasciarsi
calpestare da chiunque. Quelle foglie dall’aura sgraziata che, con
i loro bordi rovinati e il manto ingiallito dal tempo, erano state
spettatrici delle disavventure dei passanti che, assorti, le
calpestavano con noncuranza.
Il
tempo avanzava e l'autunno stava per cedere il passo all'inverno:
Margaret aveva sempre amato l’inverno, la neve e il camino
accogliente che scoppiettava ad ogni ora del giorno, il profumo di
biscotti croccanti alla cannella provenienti dalle vetrine dei negozi
di dolciumi, le coperte e il Natale, la familiarità degli ambienti
che riscaldava anche con il tempo più rigido. Eppure, il freddo e i
primi fiocchi di neve che scendevano come lacrime da un cielo spento,
le avrebbero ricordato inevitabilmente l’ultima vivida passeggiata
in riva al mare con Hayden. L’ultimo giorno della sua vita mortale.
Margaret
camminava svelta, un piede dopo l'altro e un piccolo borsello stretto
sotto braccio. Dovevano recarsi ai Piers, era lì che era solita
elemosinare. Lì le vie gremivano di passanti a tutte le ore del
giorno e non vi era negozio od osteria in cui Margaret non sarebbe
riuscita a scucire anche un solo penny dalle tasche di un signorotto
qualsiasi, oppure da un prete benestante. Solo le donne evitavano lo
sguardo di Margaret, magari cambiavano strada oppure, se erano in
gruppo, stringendosi l'una sotto il braccio dell'altra, fingevano di
essere troppo indaffarate a ciarlare delle mansioni di casa oppure
dell'ultimo ballo in maschera per potersi accorgere di lei, seduta
sul ciglio della strada, la mantellina stretta attorno al collo e il
visino volutamente sporco e intristito.
La
luce pallida del primo mattino faceva capolino oltre i tetti,
rispecchiandosi sulle vetrate polverose dei pub e dei negozi di
seconda mano e più si addentravano nel dedalo di viottole strette e
ingiallite dal fetido odore di pipí di cani e gatti, più il netto
dislivello sociale tra cittadini appartenenti a classi sociali
diverse si palesava agli occhi vispi di Margaret e a quelli un po'
più stanchi di Mark.
Raggiunto
il bivio che conduce al mercato portuale, i due vennero sopraffatti
da immagini e colori suggestivi. I dolci profumi caldi di una
panetteria appena aperta, la soave essenza della frutta e della
verdura poggiata sul bancone; tra gli innumerevoli contadini dalla
pelle bruciata dal sole e i capelli radi sul capo, Margaret
riconosceva il profumo di morbide vesti appartenenti ad alcuni
signori in giacca e cravatta, seduti ad una caffetteria; il sapore
acetoso della colonia indossata da un paio di anziani banchieri
panciuti che discutevano allegramente di azioni, tasse e prestiti;
oppure l’aroma fruttato del talco indossato da una dama di
passaggio con la sua piccola corte di servi e dame alle spalle.
Margaret respirava a pieni polmoni tutto quel ben di Dio.
Ogni
mercoledì mattina la piazza della città era ricoperta da banchetti
improvvisati da vecchie cassette di legno, sacchi e tendoni nei quali
si poteva trovare di tutto: carni, verdure, frutta, caramelle,
farina, cioccolato, pane, caffè. La piazza pullulava sempre di
gente: da un lato, Margaret intravedeva il bancone del pesce, quello
degli oli e delle spezie, e infine il bancone della carne. Dei grossi
omoni dalle carnagioni scure come la pece e i loro figli, urlavano
pregando i passanti di soffermarsi a dare un’occhiata alla merce
esposta.
“Buongiorno
Margaret! “ La voce roca del signor Smith, il fruttivendolo
all’angolo della piazza del mercato, agitava una mano grossa e
nodosa in direzione di Margaret, intimandola ad avvicinarsi. Con la
barba incolta ed ispida e l’aspetto più di un orso bruno che di un
uomo, Jacob Smith le rivolse un grande sorriso stretto tra i baffi
riccioluti e i lunghi denti giallastri.
Con
un cenno del capo Margaret era sgattaiolata fuori dalla visuale del
suo impossibile pretendente, lanciandosi in un dedalo di viottole e
sentieri dettati dalle nerborute gambe di mercanti e donne di mezza
età e le gambe consumate dei tavoli dei banchi.
Mark
afferrò Margaret sotto braccio, atteggiandosi come un nobile
signorotto e si avviò verso il banco della frutta e quando furono in
sua prossimità, allungo' il braccio per afferrare una grossa mela
verde e succulenta poggiata sul bancone della frutta. “Tieni” Con
una mano cedette la mela a Margaret, poi si affrettò a lasciare
qualche spicciolo. “Grazie, e tornate a trovarci!” La voce
ovattata di una piccola e anziana signora dagli occhi azzurri si fece
largo tra lo scalpiccio dei passanti, mentre le figure di Margaret e
Mark si allontanavano inghiottite tra la folla.
La
pelle liscia e lucida del frutto profumato ora scivolava tra le dita
di Margaret, che amava intravedersi nel riflesso della luce sulla
superficie delle mele.
Poggiando
la mela al petto, ne strofino' la buccia sul grembiule poi spalancò
la bocca e ne addento' un succoso pezzo. Il rumore della polpa che
scrocchiava tra i denti e il sapore acidulo del frutto verde fece
sorridere di gusto Margaret che, con la pancia un pò più piena, si
incamminava in direzione dei Piers, i moli balneari.
Lì
si trovava l'angolo di città più all'avanguardia di tutta Brighton:
negozi di alta moda, pasticcerie e ristoranti di straordinaria
qualità, attrazioni, banche e gioiellerie. Quella era la Brighton
che si affaccia sul mare, quella dei ricchi, dei nobili corrotti e
dalle tasche ricolme di frottole.
Margaret
amava recarsi lì è ascoltare il gremito della gente, annusarne i
profumi, le essenze che quei abiti lussuosi spandevano per tutta la
via. Alle volte, sognava di indossare un abito come quelli indossati
dalle Signore altolocate: pizzi e merletti ovunque, nastri e fiocchi,
penne e perle di ogni tipo. Ogni qual volta ne avesse avuto la
possibilità, Margaret semplicemente adorava osservare e studiare le
persone che la circondavano. Ne imprimeva il ricordo, l'essenza nella
memoria e non le scordava più. Quando Margaret si accucciava in un
angolo, prostata a terra oppure in piedi con le braccia dietro la
schiena, non guardava quasi mai in faccia quei pochi clienti che le
lasciavano qualche penny nelle tasche del grembiule oppure sul
sottile straccio grigio che usava per sedersi.
Pochi
le rivolgevano la parola e quando lo facevano a Margaret si chiudeva
il rubinetto dei pensieri e non riusciva mai ad esprimere la propria
gratitudine ai passanti.
La
sera dopo il tramonto, molti erano gli uomini che l'avevano scambiata
per una prostituta. Allora le lasciavano un penny sulle gambe, poi
magari le sfioravano una guancia e infine finivano palpandole un seno
oppure una natica. Margaret si lasciava toccare, sicché la fame era
troppa per poter rifiutare un penny. Non le dispiaceva, anzi, delle
volte, quando il benefattore era un uomo di bell'aspetto o di garbo
gentile, Margaret tentava la sorte con un bacio su una guancia oppure
una carezza delicata.
Un
uomo, una volta, dopo averla portata in un vicolo buio e appartato,
l'aveva spinta spalle al muro contro la fredda parete di una
palazzina diroccata. L'uomo premeva il duro bacino contro quello
morbido di Margaret che poteva riconoscerne l'evidente attrazione
fisica attraverso il tessuto della gonna. L'immagine di Caroline,
schiacciata tra la dura pietra della cantina e il tanfo selvaggio del
figlio dello stalliere, le tornarono' in mente con la potenza di una
secchiata gelida.
"M-mi
dispiace, ma ora devo proprio andare..." Aveva infine
sussurrato, spingendo via l'uomo con entrambe le mani sul suo petto
largo. Lo guardo' con occhi grandi e languidi, nella speranza di
poter tornare a casa il prima possibile. "Dove credi di andare,
dolcezza?!" Ma Margaret era già lontana. Quella volta Margaret
aveva stimato di morire e che il suo cuore le sarebbe balzato via dal
petto.
Fermo,
seduto in un angolo, un lustra scarpe, un giovinetto di tenera età
dagli abiti larghi e consunti, i capelli biondi e le guance annerite.
Accanto a lui era poggiata una minuscola valigetta in pelle nera, una
di quelle con il manico argentato e gli intarsi incavati. Mentre un
ubriaco sedeva sul portico di una casa abbandonata, una madre matura
e grassoccia, le guance paffute e i capelli sporchi di farina,
affacciata al davanzale di una palazzina di sei metri, puniva il
figlioletto per le azioni sbagliate. Il bambino piangeva e si
dimenava, un rivolo di sangue scendeva copiosamente da un ginocchio
emaciato e le sue urla si spandevano per tutta la città.
Una
volta anche il signor Durk aveva picchiato così forte Caroline da
farle uscire sangue dal naso: quella volta Margaret avrebbe preferito
scomparire e dissolversi nel cielo di Aprile, come una nuvola.
Quel
giorno era rientrata presto dalla strada e, sistemata la giacca
rattoppata e con le maniche troppo corte sull'appendiabiti, aveva
attraversato l'androne a passi spediti. Il ticchettio degli
stivaletti sul legno scricchiolante sotto di sé le ricordava ancora
quanto fastidioso potesse essere indossare scarpe troppo piccole per
i suoi piedi.
Si
trovava ancora in corridoio quando aveva udito un rumore sommesso,
una voce roca e bassa farsi largo fino all'altro lato della casa.
Sporgendosi oltre la parete adiacente la cantina, sul lato opposto
della cucina, Caroline, con le spalle al muro, teneva una mano
premuta sulla bocca per bloccare i gemiti sconnessi e sconci che
sembravano pervaderla e scoppiarle in gola. Margaret, per un
millesimo di secondo, la credette malata e di dover chiamare subito
il prete.
Con
l'altra mano teneva alto il lembo della gonna e della sottoveste, le
calze erano arrotolate all'altezza delle ginocchia e una figura
mingherlina premeva con insistenza il biondo capo tra le gambe chiare
di Caroline. Un lezzo di cavallo e letame: John, pensò Margaret, il
figlio dello stalliere che abita dall'altro lato della strada
stringeva con avidità il fondo schiena di Lilith, generando rumori
insoliti tra le sue cosce morbide. Quelle cosce che, innumerevoli
volte, avevano stretto quelle di Margaret in un abbraccio morbido,
sotto le coperte, quando d'inverno avevano freddo e non avevano altro
modo per scaldarsi.
Margaret
deglutí, distolse lo sguardo e tornò in cucina con il cuore in
gola. Afferrò la casacca scucita dall'appendiabiti e uscì di casa
frettolosamente.
Una
volta fuori, Margaret respiro’ a pieni polmoni l’aria fresca
della sera, con lo sguardo rivolto al cielo stellato, poteva
percepire il languido bagliore del tramonto all’orizzonte fare
capolino oltre i tetti delle case. L’ultimo grillo friniva in
lontananza, oltre i campi e il bosco mentre le ultime voci della
sera, quelle provenienti dalle cucine e dalle tavole imbandita delle
abitazioni limitrofe, andavano scemando. D’improvviso, il lamentoso
chiacchiericcio di un grasso omino di mezza età, con la pancia
cadente oltre la fibbia dei pantaloni e il capo stempiato sotto il
basco, si fece più chiaro e Margaret distolse la sua attenzione
dallo spazio sopra di sé, rivolgendola all’ubriaca figura del
signor Durk.
Balbettava
frottole e stringeva una bottiglia di alcool nella mano destra.
A
Margaret si gelo’ il sangue nelle vene causandole un sussulto, e il
pensiero della reazione del Signor Durk se avesse assistito ad un
simile atto osceno che si stava consumando in cucina, le balenò in
mente, creandole un nodo immaginario alla gola. Un grappolo di saliva
raschiante e dal retrogusto doloroso.
“Cosa
ci fai fuori di casa!? “ La figura scura e larga si era arrestata a
pochi metri di distanza e Margaret sperò vivamente che la sua voce
rauca e dai toni maleducati fosse arrivata all’orecchio di
Caroline.
“Sono
appena tornata, signore. “
“Beh,
allora vedi di filare…” “Forza! Cosa aspetti? Vai! “
Margaret
giro’ i tacchi e posò la mano sul pomello della porta d’ingresso,
con una lieve pressione del polso fece scattare la serratura della
porta che, con un clack arrugginito, si apri verso l’interno
dell’abitazione. Nella penombra della notte la casa sembrava
abbandonata e una sola candela Illuminava la sala da pranzo.
Margaret
cercò di distrarlo cambiando discorso. “Signore, perché non si
siede? Le andrebbe un tazza di the?”, chiese nel tono più
spontaneo che potesse permettersi. Il tentativo funzionò, almeno in
parte: accettò di buon grado di farsi portare un bicchiere di scotch
con ghiaccio. “Glielo vado a preparare subito! “ Per mesi il
Signor Durk combatteva il sopraggiungere della vecchiaia con lo
scotch. Stasera non sarebbe stato diverso.
Margaret
entrò in cucina dove trovò Lilith comodamente seduta davanti al
focolare. Immersa nei suoi pensieri, sussultò al sentire i suoi
passi. Con occhi pieni di angoscia e terrore velati disse: “Fa
attenzione”. Margaret non rispose.
Per
raggiungere il ripostiglio delle scope, dove il Signor Durk teneva un
paio di bottiglie di alcool, Margaret dovette passarle accanto. Tirò
fuori lo scotch, le ripassò vicino e versò da bere in un bicchiere
impolverato. Le sue mani cominciarono a sudare, mentre sentiva su di
sè il peso della consapevolezza e del segreto. All’improvviso la
distolse un rumore: gemiti, respiri affannati. Provenivano dal
sottoscala sul retro, dove il Signor Durk non andava mai. Eppure
Margaret avvertì la sua presenza ancora prima di vederlo, sentì il
peso del suo sguardo piombarle addosso. Lilith, accovacciata alle sue
spalle.
“Si
può sapere dov’è il mio scotch!?” La paura, fredda e oscura.
“Dammi qua!”
Le
aveva strappato il bicchiere dalle mani e il primo sorso caldo gli
aveva bruciato la gola, provocandogli un attacco di tosse. Eppure, lo
scotch non era riuscito a celare i sospiri e i lamenti di Caroline e
John avvinghiati contro la dura parete di granito sul retro.
Il
signor Durk non era rimasto molto tempo in quella posizione, che si
sentì stranamente turbato. Il silenzio era interrotto soltanto dal
crepitare delle fiamme e dello scoppiettare del gran ceppo nel
camino; ma ecco che gli occhi del Signor Durk si fecero stranamente
freddi e distanti.
“Signore?”
L’uomo continuava ad ignorarla, avvicinandosi passo dopo passo
all’uscita sul retro della cucina. “Signore?!”
“Andiamo.”
Lilith si era alzata dalla sedia di paglia, incapace di terminare la
frase e si era avvicinata a Margaret, le aveva stretto il braccio con
veemenza poi si era volatizzata nel buio dell’androne. Quando
Margaret vide il signor Durk arrestarsi, Caroline non aveva fatto in
tempo a rivestirsi e John a rialzarsi dal pavimento che furioso, il
Signor Durk l’aveva rincorsa e l’aveva buttata a terra,
colpendola con le nocche delle dita e beccandosi un morso nella
lotta. Le era balzato addosso, adirato come una bestia e Margaret
aveva visto Caroline schiacciata sotto l'ingente peso di quell'omone
maleodorante di birra stantia.
"Che
tu sia dannata!" L'aveva afferrata per i capelli e le aveva
premuto la faccia sul pavimento, maledicendo lei e quel suo dannato
lavoro. Si era morso un labbro nell’imprecare e aveva incolpato lei
per la sua maleducazione e mancanza di rispetto in colui che le
offriva un riparo, poi l'aveva colpita ripetutamente alla testa, alla
schiena e alle caviglie. Le strinse i capelli così a lungo che
Margaret credette di aver sentito le radici dei capelli di Caroline
staccarsi lentamente, ad una ad una. “Io ti offro un tetto sulla
testa e tu, ingrata, mi porti in casa questo moccioso!?” John
indietreggiò con le mani lungo il pavimento, un’espressione di
puro terrore dipinta sul suo volto ancora infantile.
Quando
il Signor Durk risollevo' Caroline da terra, le cinse il capo con una
mano sporca e ruvida e la colpi ripetutamente in volto,
scompigliandole i capelli. Le guance di Caroline, rosee per natura,
andavano a fuoco e la pelle le tirava per il dolore che le era stato
inflitto. “Adesso ti faccio vedere io!” Dopo aver lanciato
un’ultima occhiata a John, poi a Margaret, il faccino sconvolto e
lo sguardo rivolto alle assicelle di legno, Durk spinse la testa di
quella povera creatura contro la pietra fredda della parete,
mugugnando parole incomprensibili e senza senso. Prima sembrava
incitarla per poi incolparla di essere un’ingrata e che non poteva
permettersi il lusso di mantenere una lurida sgualdrina da quattro
soldi in casa propria.
Caroline
soffocava, con il volto schiacciato tra la fredda pietra e il corpo
flaccido e grasso del Sign. Durk. John se l’era data a gambe:
avrebbe preferito morire piuttosto che rimanere lì ad osservare la
scena. Ad un tratto, Margaret lo vide prostrarsi e sfilare un piccolo
coltello affilato dallo stivale sinistro. Margaret aveva distolto lo
sguardo: sapeva cosa sarebbe successo.
"Forza!
Vieni qui!" Le aveva urlato, mentre si buttava a gambe larghe su
di una sedia accanto alla finestra. Caroline inizialmente si era
rifiutata, lo sguardo serio e le sopracciglia corrucciate in una
smorfia di puro odio, eppure erano bastate un paio di frustate alle
braccia con la fibbia della cintura a farla avvicinare.
Durk
le aveva liberato i capelli dalla presa della cuffietta che ora
pendeva goffamente sul collo emaciato di Caroline che, urlando il
nome di Dio si dimenava come una puledra impazzita. "Dio, perché
mi fai questo!?" gli aveva chiesto, tra le urla. Le mani strette
a pugno, Caroline sedeva cavalcioni difronte ad un omone di mezza età
che la guardava, indifferente. “Perché? Perché?” Margaret
tremava tutta, con le guance graffiate dalle lacrime che aveva
cercato invano di trattenere e la bocca dalle labbra turgide. Con gli
occhi ridotti a due fessure adornate da lunghe ciglia bagnate,
Margaret scrutava la scena ma non osava alzare il capo per paura che
le potesse toccare la stessa sorte: il Sign. Durk avrebbe tagliato
tutti i capelli di Caroline, rendendola irriconoscibile.
Caroline
continuava a sbraitare, tirando calci all’aria e pugni mancati, e
pregava il Signore Onnipotente di risparmiarla, oppure di lasciarla
giacere nell’abbraccio della morte. Anche lei era ormai consapevole
del suo destino.
“Sono
io il tuo Dio, e vedi di ricordartelo!” Durk, infastidito da tutte
quelle lamentele, l'aveva infine afferrata per la gola e l'aveva
scaraventata a terra. Si era alzato, le aveva tenuto fermo il capo e
aveva iniziato a tagliare.
Dopo
quella volta, Margaret aveva avuto gli incubi ogni notte: sempre più
spesso si svegliava di soprassalto, ammutoliva e si rattristava,
convinta che tutto ciò fosse accaduto per colpa sua e della sua
negligenza. Allora usciva dal letto, avvolta nella fine mantella di
lana scura, scendeva al piano di sotto e accostando l'orecchio al
legno vuoto della porticina che accoglieva la camera di Caroline,
poteva ascoltare il suo respiro e i suoi singhiozzi provenire
dall'altro lato del corridoio.
Ora,
quelle urla gracchianti di bambino le ricordavano quelle di Caroline
che qualche mese prima, in preda al panico, era corsa a nascondersi
sotto il letto per paura di essere trovata e battuta ancora.
°°°
Mark
e Margaret recuperarono ciò di cui avevano bisogno e una volta
acquistato tutto il necessario da ogni banco uscirono dal mercato.
Mark insistette per portare la maggior parte dei sacchetti, se li
suddivisero in modo impari e si avviarono sulla via del ritorno. Il
sole era ancora alto nel cielo pallido, nonostante Mark si fosse
ripetutamente fermato nel vano tentativo di convincere Margaret a
portare a casa un cucciolo di cane: avevano svoltato l’angolo
quando il guaire di un bastardino dal manto bianco cosparso da
macchie nere li aveva distratti. Mark continuava ad incitarlo nel
seguirli e gli diede persino un nome: “Coldy” per via del clima
di quel giorno e del suo manto bianco, ma il cucciolo era troppo
piccolo per stare al passo e rimase ben presto indietro.
Ripreso
il sentiero di casa Mark posò le carte contenenti la spesa, si fermò
in direzione del mare poi chiamò Margaret. “Maggie, ti va di
camminare sulla sabbia?” Il suo sorriso accattivante e i bei
boccoli scuri che gli coprivano il volto parlavano da sé.
“Dobbiamo
rientrare Mark, e poi come facciamo a scendere con tutti questi
sacchetti?”
“Li
lasciamo qui.” Rispose con ovvietà il ragazzo.
“Sei
pazzo? E se passasse qualcuno e li rubasse?”
“A
chi vuoi che interessino due cavoli marci e una busta di patate!?”
“Lo
sai che non possiamo, avanti, muoviti.” Margaret riprese a
ciondolare a qualche metro di distanza, il passo svelto e i fianchi
dondolanti sotto il peso delle buste.
“Una
volta non eri così...” Mark, immobile, aveva urlato, e l’eco
della sua voce ora tuonava tra gli alberi e le ultime casupole di
città.
“A
cosa ti riferisci?” L'espressione di Margaret passò
dall'impassibile all'ostile.
“Sai
bene a cosa mi riferisco.” Mark era sempre stato piuttosto tenace e
irremovibile nelle sue dichiarazioni.
“A
prima della partenza di Hayden ecco a cosa mi riferisco, al tuo modo
di reagire a qualunque cosa, come se dal giorno della sua partenza
non fossi più tu. Devi trovare la forza di andare avanti Marge, non
è partito solo per te, anche per noi, ma noi non reagiamo come fai
tu. Non è morto, è partito e non c'è bisogno che per ogni minimo
fatto tu reagisca così, evitando tutto e chiudendoti in te stessa.
Io conoscevo un altra Marge non questa.”
La
ragazza lo fissò per qualche secondo senza dire nulla poi si voltò
e si diresse a tutta velocità verso casa ignorando il fastidioso
pizzicore agli occhi.
Margaret
camminava lungo il sentiero che dalle porte della città attraversava
gli interminabili campi e le polverose fattorie del contado. La
rabbia le stava montando in petto mentre l’imbarazzo e il senso di
colpevolezza la divoravano dentro. Le sue impronte, impresse nel
fango denso, seguivano un percorso preciso, dal punto in cui aveva
lasciato Mark queste erano divenute più sporche, pur nulla nitide, e
sembrava come se Margaret si fosse improvvisamente messa a correre.
Camminava
a testa bassa, con il volto coperto gran parte dall’enorme
fazzoletto nero che teneva legato attorno al collo e al capo. I
capelli le premevano contro la nuca e i piedi avevano cominciato a
dolerle irrimediabilmente. L’aria gelida le colpiva ripetutamente
caviglie e polsi scoperti, mentre Margaret si stringeva nella fine
mantellina che portava sulle spalle.
Margaret
voleva raggiungere casa il prima possibile e correre sembrava l’unica
soluzione che le avrebbe permesso di schiarirsi un poco le idee;
eppure la sua corsa, almeno da quanto si poteva evincere dalle tracce
fangose, non era durata a lungo, non fino a casa.
D’un
tratto, le tracce degli stivaletti si confondevano, si moltiplicavano
come se Margaret avesse deciso di fermarsi e sbattere ripetutamente i
piedi al suolo, poi si trascinavano a terra, dove ormai le tracce
erano indistinguibili dalla melma scura della pista.
Durante
quella che pensava sarebbe stata una corsa liberatoria Margaret fu
sorpresa da un incontro totalmente casuale.
La
ragazza correva con il viso basso e gli occhi socchiusi: conosceva a
memoria il percorso e l'incrocio dei sentieri al crocevia del bosco
significava che mancavano un centinaio di metri all'abitazione.
Le
lacrime che continuavano a scendere silenziose impattavano con l'aria
fredda, i solchi incisi da queste erano gelate sul viso di Margaret
che si sforzava di non pensare, percependo la fanghiglia melmosa
risucchiarle gli stivalali. Lampi di una vita passata, a volte più
limpidi altre volte più confusi, e di momenti vissuti assieme, con
Hayden, con Mark e tutti gli altri bambini le tornavano in mente, la
colpivano come schiaffi in pieno volto.
Improvvisamente,
durante la sua corsa febbricitante e concitata, Margaret cadde dentro
una pozzanghera, le ginocchia impattarono con il suolo e il morbido
tessuto del vestito si intinse di melma scura. Nel cadere il busto le
si spostò in avanti e per impedire di cadere faccia a terra Margaret
protese istintivamente con le mani, che si ricoprirono subito di
fango.
Aveva
freddo e per di più l’orlo della gonna era infradiciato di acqua,
tutto per via della cesta in vimini che teneva con entrambe le mani:
un pezzo di pane, un paio di patate e una forma di formaggio ora
annegavano annacquati nell’acqua torbida. Avrebbero fatto la
giornata e forse avrebbero sfamato tutti loro per l’intera
settimana, se solo Margaret non fosse caduta.
Costretta
ad arrestare la sua corsa, la ragazza rimase per qualche istante lì,
immobile, fissando il suolo e l’enorme pozza in cui era caduta
quando, d’un tratto, il nitrito di un paio di cavalli da soma la
costrinse a voltarsi: a pochi passi da lei, in fondo al viale, una
carrozza laccata nei colori del rosso e del nero sfrecciava lungo il
sentiero, innalzando polvere e terra miste assieme.
Margaret
pensò che se una carrozza doveva passare per quella strada non c'era
tempo da perdere, doveva alzarsi e levare i tacchi altrimenti
l’avrebbero di certo investita. A Marge venne spontaneo domandarsi
per quale motivo non aveva udito prima il cavallo o le ruote
procedere sul sentiero.
Decise
di accantonare questo interrogativo e con decisione si alzò, un poco
indolenzita, estrasse le mani dal suolo e cercando di non sporcarsi
ulteriormente l’abito insudiciato si alzò e si diede una rapida
sistemata, rendendosi velocemente conto che togliere quell'enorme
macchia di fango sul vestito non sarebbe stata un impresa semplice.
Mentre
la carrozza si avvicinava, con la coda dell’occhio, Margaret riuscì
a coglierne alcuni dettagli: come gli intarsi color argento che
decoravano il mezzo donandogli un aria raffinata, “sarà di un
nobile importante” pensò Margaret.
Era
trainata da due cavalli bianchi ed imponenti, due albini con un paio
di macchie grigie sul muso: sembravano cavalli giovani e in ottima
salute, che di certo un povero contadino squattrinato non si sarebbe
mai potuto permettere.
Il
cocchiere era un uomo di mezza età con la barba bianca ed ispida,
portava un cappello di un verde intonato alla giacca, un verde
intenso e spento. Il suo naso era grosso e violaceo, in netto
contrasto con il bianco cadaverico del viso svigorito, portava un
paio di guanti marroni e un lungo foulard nero che sobbalzava
sospinto dei leggeri saltelli del mezzo.
Quando
la carrozza fu abbastanza vicina da udire il vento sferzarle il
volto, Margaret si fece piccola piccola e si spostò a lato della
strada quando un bussare energico proveniente dall'interno
dell’abitacolo si accompagnò ad una voce calda e forte: “Ferma!”
I
cavalli e la carrozza si arrestarono qualche metro più avanti e la
tendina della portiera si scostò. “Signorina!” Una mano guantata
di bianco e una voce maschile fecero capolino dal finestrino
appannato. Margaret ci mise qualche istante per rendersi conto che
quella voce si rivolgeva a lei e che i suoi piedi avevano preso a
muoversi in sua direzione.
Le
ruote parevano enormi agli occhi di Margaret: due meccanismi perfetti
che procedevano imperterriti, anch’esse erano nere sebbene
all’esterno della ruota si intravedesse una buona quantità di
fango fresco.
I
cavalli sbuffarono adirati, soffiando nuvole di vapore, mentre
Margaret si avvicinava. Quando raggiunse la portiera, la ragazza
riconobbe uno stemma impresso nel legno della porticina, aveva al
centro un leone ma la giovane non seppe identificarlo.
Dalla
tendina vellutata di un rosso vinaccia, emerse un giovane dal sorriso
beffardo, un naso dalla perfetta concezione greca: sopra un paio di
labbra ben fatte, si trovava una folta peluria ben curata e
arricciolata ai lati e i capelli, lunghi e amaranti, sebbene fossero
legati dietro la nuca, ora erano sparsi in morbide ciocche lucenti
che gli ricadevano sul viso. Con una mano, questi li scostò senza
farci troppo caso rivelando un paio di occhi ambrati che scrutavano
Margaret, giocosi. Sembrava si stessero burlando di lei.
Il
giovane uomo si avvicinò a Margaret protendendosi attraverso la
finestrella.
“Cosa
ci fa una bella ragazza come voi, tutta sola, in questo posto?”
Margaret alzò lo sguardo a quelle parole. L'aveva definita bella e
subito. Il giovane rideva allegro mostrando un sorriso all'apparenza
innocente ma che nascondeva il sincero desiderio di burlarsi di lei.
“Ecco,
i-io…” Margaret arricciò il naso. Era consapevole di avere un
aspetto orribile, con le vesti imbrattate di fango e l’orlo della
gonna incrostata di terra.
“Non
temete, la prossima volta che ci incontreremo avrete una risposta, ne
sono certo. Arrivederci...” Lo sconosciuto chiuse la tendina e la
carrozza ripartì alla velocità con cui era arrivata lasciandosi
Margaret indietro, sul ciglio della strada. Per qualche misterioso
motivo il sorriso insolente di quello sconosciuto le rimase impresso
così come la luce grigia di quella giornata asettica sembrava
rendere il mondo attorno a lei un quadro freddo e abbandonato
dall'autore.
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