Never
look back
«Si vive per anni accanto a un essere
umano, senza vederlo.
Un giorno ecco che uno alza gli occhi e lo vede.
In un attimo, non si sa il perché, non
si sa come, qualcosa si rompe una diga fra due acque.
E due sorti si mescolano, si confondono, e
precipitano.»
Boris Pasternak
Elle
Winters lasciò casa sua come una ladra.
Radunò,
a tentoni nel buio, i suoi pochi averi e compresse la sua intera
esistenza in una piccola valigia di pelle consunta che aveva ereditato
dalla madre.
Poi
si accomiatò silenziosamente dalle quattro mura che avevano
assistito ai momenti più felici e più infelici
della sua vita e lasciò un'ultima occhiata al grande letto
in grezzo legno di pino.
Non
provò nulla guardando quel bozzo scomposto, sotto la
trapunta variopinta e scolorita, che un tempo era stato suo marito.
L'uomo alto e forte che aveva stretto il suo braccio esile all'altare,
ora giaceva molle e abbandonato come un grosso scarafaggio.
L'aveva
odiato, l'aveva amato, l'aveva disprezzato e maledetto. Ora non sentiva
più nulla, se non una vaga nostalgia, nel vedere la zazzera
color topo fare capolino attraverso le lenzuola disfatte dall'uso della
liscivia.
Respirava
nel sonno con la pacatezza di un mantice, lo faceva sempre quando
tornava soddisfatto e ubriaco dalle serate del poker, in cui perdeva
più soldi di quanti riusciva a guadagnarne in una giornata
in fabbrica.
L'odore
della brina notturna filtrava deciso dalla finestra semiaperta,
mascherando solo per poche ore il puzzo che la foresta di ciminiere in
lontananza vomitava durante il giorno e che ricopriva i tetti di tegole
cotte con una patina grigia che si perdeva all'orizzonte.
Fra
poco meno di un'ora la luce del giorno avrebbe cominciato a tingere di
un pallido rosa i comignoli, allargandosi sul panorama con la pazienza
di un colore ad acquerello. Ma non ancora.
Le
stelle occhieggiavano diafane nella pece oltre la cornice della
finestra, sospese come lumicini lontani sulla faccia di un mondo che
sembrava allontanarsi insieme alla brezza gelida della notte.
Elle
ringraziò mentalmente le ombre che sottraevano alle ire
della belva sconosciuta sotto le coperte la sua fuga ed ai suoi occhi
la propria immagine riflessa nella specchiera della toeletta sbeccata.
Non
aveva bisogno di vedersi per sapere che un labbro era tumefatto e
spaccato e lo zigomo destro si era gonfiato nelle ultime ore, sarebbe
passato dal rosso al viola e poi al giallo come era successo tante
altre volte.
Si
sarebbe risparmiata la vista della donna patetica e sottomessa che era
diventata. Il pallido fantasma della donna florida dai verdi occhi
arabi che avevano portato ai suoi piedi più di un uomo,
prima che le attenzioni ruvide e innamorate di suo marito l'avessero
strappata alla solitudine.
Ricordare
il suo nome avrebbe dato potere ai ricordi che aveva di lui,
perciò non lo portò con sé. Nella
misera valigetta di pelle usurata, oltre la divisa ben inamidata,
l'unico paio di calze di seta che possedeva e la biancheria, non c'era
più spazio per il rimorso, né per il perdono.
Inspirò
per l'ultima volta l'odore del sigaro spento sul comodino, delle tende
macchiate dall'umidità della sera e della familiare acqua di
colonia mista ad alcol scadente che impregnava ormai le pareti
scolorite.
Con
l'audacia che si addiceva a migliori intenzioni, afferrò
senza esitazione la valigia ed in punta di piedi si avviò
verso la porta d'ingresso, le scarpe in mano e i piedi nudi come una
zingara.
Trattenne
l'impulso di spaccare una delle lampade all'acetilene che tenevano per
le emergenze nello sgangherato stipetto in corridoio, accendere uno dei
fiammiferi accanto alla stufa e lasciare che il passato si disfacesse
nel fumo e nel calore del fuoco.
Invece
uscì sul pianerottolo, con un misto di euforia e smarrimento
per essere riuscita in quella scabrosa impresa, mentre la porta
dell'interno 2 del numero 13 di Remington Street si richiudeva alle sue
spalle con un sordo cigolio di cardini arrugginiti. Il primo rumore
della sua nuova vita.
Con
un sorriso ebete sotto il labbro gonfio, i lunghi capelli arruffati,
completamente sola sul lastricato fangoso che s'immetteva sulla strada
principale, si sentì di nuovo giovane.
Aveva
ancora ventisette anni ed il mondo ai suoi piedi. Continuò a
ripeterselo, mentre percorreva a testa alta il viale deserto fra due
file di case identiche, squallide e prevedibili come lo era stata la
sua vita fino a quel momento.
Dopo
anni che si abita in un luogo, si finisce per confondersi al paesaggio.
Niente di più vero. Era vissuta con la stessa
volontà degli alberi, rinsecchiti e contorti, che
incespicavano verso il cielo nelle aiuole di Remington Street.
Non
bastava il sole a riportarli in vita, perché erano le radici
ad essere marce, affondavano nella melma che si spargeva nel terreno
dal sottosuolo delle fabbriche. Morivano in pieno giorno.
Così
era successo a lei. L'unico modo per tornare a fiorire era piantare
radici altrove, perché non era rimasto nulla per lei nel
luogo che per troppo tempo aveva chiamato casa, senza accorgersi delle
sbarre che bloccavano la luce.
Affrettò
il passo, stringendosi nel cappotto nero, fino alla stazione dei treni.
Il primo sarebbe partito solo da lì a quarantacinque minuti,
quando l'aurora avrebbe cominciato ad aprire il cielo dissipando i
terrori della notte, ma c'era ancora tempo.
La
sbronza della serata del poker le avrebbe regalato ore a sufficienza
per allontanarsi dalla città senza sentirsi braccata.
Si
sedette su una delle panchine in legno del binario stingendo a
sé la misera valigia, passò fra le dita i lunghi
capelli neri da sirena, che un tempo erano stati il suo orgoglio e la
sua vanità, per riguadagnare un aspetto civile e attese.
Attese
finché il battito frenetico del suo cuore non si sovrappose
alla corsa delle ruote d'acciaio sui binari e, mentre la notte moriva,
un fischio sgraziato e assordante annunciò l'arrivo del
treno per Boston.
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