Nickname partecipante:
_Flowermoon_ / -Sacchan-
Titolo: Che diavolo
sta succendendo? Puoi dirmelo, per favore?
Genere:
Introspettivo, Psicologico
Fandom +
Pairing: Vocaloid / Len Kagamine + VY2 Yuuma (no pairing)
Note: Ispirata alla
ECHO, canzone originariamente di Gumi, qui ripresa nella cover fatta
dagli utaite MafuMafu e Nqrse.
ATTENZIONE:
la fan fiction tratta del problema della depressione al punto da avere
pensieri suicidi, se sensibili a tale tematica maneggiare con cura.
Introduzione: a causa
del suo problema Len è costretto a frequentare il Centro di
Psicoterapia Cognitiva del suo ospedale. Abituato ad essere sempre da
solo nella sala d'attesa, un giorno non sarà così.
Scritta per il "Plus
Contest - Oltre i nostri limiti" indetto da Akimi-chan sul forum di EFP.
SONO BIANCO? SONO NERO? NO, QUALCOSA NON VA...
Ci
vogliono esattamente quaranta minuti per raggiungere il Centro di
Psicoterapia Cognitiva dell'ospedale cittadino: dieci minuti a piedi
per il tragitto casa - fermata dell'autobus; venti minuti in autobus,
sulle corsie preferenziali del centro, e infine altri dieci minuti a
piedi per percorrere il viale che, dalla fermata, accede all'ospedale
della città.
Si tratta di un percorso statico, che ormai Len pratica una volta a
settimana.
Quando ha iniziato non lo ricorda, sa solo che è passato un
mese, o forse poco più.
No, non ne è sicuro... Sarebbe meglio dire qualche settimana.
Inizialmente si trattava solamente di un senso di inadeguatezza verso
le situazioni in generale come, ad esempio, non essere in grado di
portare a termine un compito assegnatogli, anche il più
facile.
Poi erano iniziati lievi attacchi di panico, soprattutto in ambienti
troppo affollati.
Len aveva attribuito la colpa allo stress dovuto agli esami per entrare
all'università, ma le crisi si susseguivano anche di notte,
costringendo a svegliare persino sua sorella.
In tutto questo si era aggiunta la perdita dell'appetito e un calo del
peso fulmineo ristabilito solo grazie al parere di un esperto
nutrizionista.
Len non ci aveva dato troppo pensiero: sebbene era conscio di qualcosa
che non andasse continuava a pensare che era solo un periodo no e che
presto o tardi sarebbe passato da sé.
Trascurandosi capì di aver toccato il fondo quando i suoi
amici gli fecero notare che c'era decisamente qualcosa di anormale in
lui: era capace di passare intere giornate chiuso in camera, senza
curarsi del suo aspetto o della propria igiene personale, a giorni dove
era il primo a organizzare uscite, a fare cose, a proporre cosa fare
per le settimane successive o addirittura per il mese dopo.
Il che, in un contesto normale, non avrebbe destato nemmeno
preoccupazione se non fosse stato che Len proponeva, sì, ma
irrimediabilmente non concludeva mai nulla.
E allora tornava a chiudersi a chiave in camera, davanti a un computer,
isolato dal resto del mondo grazie a delle cuffie.
Allora sì che erano iniziati i perché.
Meno male che la smossa principale gliela diede proprio sua sorella con
una semplice domanda:
"Come ti senti?"
Bene, avrebbe voluto risponderle Len; invece la risposta fece scappare
Rin dalla sua stanza a gambe levate, gridando il nome della mamma.
Mi sento come il pezzo
di una scacchiera: a volte sono nero e a volte sono bianco.
Sì, così era iniziato tutto: da sentirsi incapace
di riuscire, ai problemi fisici, per poi vivere nell'ansia interiore e
perenne.
Sprofondando a sedere in una delle seggioline della sala d'attesa Len
si tappa le orecchie: è convinto che quegli echi siano tornati
a farsi sentire, forandogli la mente peggio di un martello pneumatico.
In più il senso di nausea, che lo accompagna ogni volta che
esce di casa, diventa sempre più accentuato non appena mette
piede dentro l'ospedale. Per sopprimerlo Len è persino
costretto a tenersi la pancia con un braccio, nella speranza di
cancellare i conati di vomito.
Che diavolo sta
succedendo? Qualcuno me lo può dire, per favore?
Lo schermo dello smartphone, che vibra all improvviso, lo riporta alla
realtà: è un messaggio da parte di sua sorella,
che gli chiede se è arrivato.
Len non può fare a meno di chiedersi quando mai lo avrebbe
appoggiato sulla sedia accanto dato che non lo ricorda; allunga persino
la mano per poter rispondere, ma qualcuno è più
veloce di lui: lo afferra e lo sottrae alla sua vista, prendendolo
così tanto alla sprovvista da fargli scappare un singulto
spaventato.
Ora, davanti a lui, c'è un completo estraneo e nemmeno se ne
è accorto.
Il giovane, perché tanto vecchio non è, scruta lo
smartphone assottigliando gli occhi color ambra. Solo dopo aver
sbattuto le palpebre più volte sposta la sua attenzione
verso Len, ancora interdetto.
"L'ultimo modello di IPhone? Devi avere un paparino davvero ricco tu."
Len non sa nemmeno cosa rispondere che lo sconosciuto si permette di
accendere lo schermo del dispositivo schiacciandone il tasto laterale,
come fosse di sua proprietà.
"Hey, Siri. Tell me how to get outta here, I'm sick."
Len, sempre più confuso, apre appena la bocca osservando il
suo interlocutore: i capelli, tinti di un rosa pallido e tagliati a
caschetto, sono nascosti da una cuffia nera, la quale nasconde a sua
volta delle giganti cuffie - stereo sempre di color nero, il cui filo
si perde sotto la felpa verde militare allacciata solo fino a
metà petto.
Dagli auricolari è persino udibile la provenienza di un
leggero suono ovattato; probabilmente da qualche parte, nascosto in una
tasca interna, vi è un IPod da cui proviene quella musica
che è appena percettibile nell'aria, irriconoscibile per
quanto il volume è basso. Il viso, più
pronunciato e ossuto rispetto a quello di Len, lascia intendere che sia
di qualche anno più grande di età.
"Avevi l'aria di chi se lo stesse chiedendo: fatemi uscire da qui, sono
malato." Obbietta lo sconosciuto piegandosi sulle ginocchia e
restituendo a Len il suo IPhone, che, mentre lo riprende in mano,
lascia lampeggiare la scritta I
don't understand your question sullo schermo.
"Non sono malato." Replica Len, mettendo al sicuro il cellulare dentro
la tasca della felpa.
"Non è quello che dicono tutti i malati?" Cita quel ragazzo
davanti a lui, mostrando i denti bianchissimi.
Incurvando le spalle Len si lascia scappare un sospiro di disagio;
spera che, in quel modo, lo sconosciuto decida di andarsene,
lasciandolo solo con i suoi pensieri e il suo mal di pancia.
Diamine, quella sala d'attesa, a quell'ora, è sempre
così vuota e desolata. Perché non dovrebbe
esserlo anche quel giorno? Len riesce a sopportarla proprio per il
fatto che nessun sguardo indiscreto si posa su di lui ricordandogli
quanto è patetico al mondo intero.
Tuttavia, a giudicare dal modo in cui lo vede allargare le braccia e
indicare l'ambiente circostante, tutto lascia intendere il contrario:
quel ragazzo di andarsene proprio non ne ha l'intenzione, anzi sembra
disposto a rimanere e a chiacchierare.
Len lo fissa stringendo i denti.
"Beh, come ti sembra? Questo corridoio, intendo. Come lo descriveresti?
Con che colori?"
Len lascia vagare i suoi occhi azzurri da destra a sinistra alla
ricerca di un colore con cui potrebbe descrivere quello spazio.
Bianco è la prima cosa che gli viene in mente: bianche sono
le pareti, spoglie e vuote se non di qualche manifesto sanitario;
bianco è il pavimento di marmo, le cui mattonelle si
susseguono regolari, separate solo dalle righe nere e quadrate. Sopra
di lui i led emettono una luce chiara e abbagliante, sempre bianca.
"Sterile... E accecante." Lentamente sposta una ciocca di capelli
biondi, caduta vicino agli occhi, tirandola di lato. "Tutto questo
bianco mi stordisce."
Lo sconosciuto si allontana di qualche passo e volge il viso di lato,
verso la finestra in fondo al corridoio.
"Che strano... Io avrei notato anche il blu del cielo e il grigio delle
nuvole, le porte gialle degli ambulatori e il verde delle piante."
Conclude con un sorriso, inclinando il volto di lato.
Blu, grigio, giallo e verde... Len non li ha notati nemmeno per un
momento e la cosa improvvisamente gli fa paura.
"Perché?" Deglutisce Len a occhi sbarrati.
"Uh?" Risponde sorpreso il ragazzo più grande inclinando le
sopracciglia rosa verso l'alto.
"Perché non riesco a vedere tutti i colori che te distingui?"
Len lo vede restituirgli uno sguardo deciso e convinto prima che quello
strambo ragazzo, vestito in modo così tecno, sprofondi a
sedere accanto a lui allungando le gambe e stiracchiando le punte dei
piedi.
"Perché sei malato, ovvio." Conclude secco e sempre col
sorriso dipinto sulle labbra.
Questa cosa deve divertirlo parecchio, pensa Len, sennò non
si spiega il perché quel ragazzo gli sta rivolgendo parola
con fare tanto disinvolto.
Forse lo fa solo per prenderlo in giro; sì, probabilmente la
sua pietosa condizione è fonte del suo divertimento e la sta
sfruttando per sconfiggere la noia che un posto come l'ospedale provoca.
La musica che arriva dalle cuffie-stereo si fa più vivida
grazie alla vicinanza che c'è ora tra loro, ma l'audio
è ancora troppo basso per riconoscere la canzone che sta
rimbombando all'interno di quegli auricolari.
Mordendosi l'interno guancia Len decide di usare la carta del cambiare
discorso.
"Cosa stai ascoltando?" Chiede fingendo un vago interesse e lo vede
scostare di poco una delle cuffie dal suo orecchio.
"Oh, questa?" Risponde. "Bacterial Contamination, la conosci? Una roba
strana... parla di germi, batteri e contaminazioni, credo. Perfetta per
il luogo in cui ci troviamo, non trovi?
Len si prende le ginocchia tra le braccia.
"Non sono un malato virale..." Risponde a muso duro, cosa che porta il
ragazzo seduto accanto a lui a corrucciarsi, sporgendo le labbra in
avanti.
"No, certo che no. Se lo fossi ti troveresti nel reparto esattamente
sopra al nostro." Indica con il dito il soffitto. "E d'altronde nemmeno
io sono qui perché ho una qualche malattia infettiva, mi
piace solo la canzone tutto qua."
Len inclina la testa di lato, socchiudendo gli occhi; tutto quel
parlare gli ha fatto venire una leggera emicrania. Non è
affatto dell'umore giusto per conversare dato che l'unica cosa che
vuole è essere chiamato dentro dalla dottoressa, terminare
la visita di quel giorno e rifugiarsi di nuovo a casa.
Stranamente la psicoterapeuta è in ritardo sulla tabella di
marcia, o forse è lui a essere arrivato troppo in anticipo.
Poiché non ha guardato l'orologio nemmeno quando
è uscito di casa proprio non lo sa.
"Puoi andartene, per favore?" Bisbiglia abbracciandosi di
più le gambe a sé. "Non sono in vena di parlare e
non capisco perché sei qui a farlo con me."
Gli occhi color ambrati si levano nuovamente al soffitto, mostrando
quanto sono svogliati.
"Non c'è un motivo particolare: mi annoiavo. Nelle altre
sale d'attesa c'è troppa gente e se mi mettevo a parlare con
qualcuno le disturbavo. Qui ci sei solo tu."
Len scuote la testa ritenendosi ancora più fortunato di
prima.
"Allora, me lo dici di cosa sei malato?" Incalza ancora, indorando la
pillola; forse ha capito che Len non ha le forze mentali e fisiche per
rispondergli a tono e scacciarlo via, pertanto se ne sta approfittando
alla grande.
Solo un muto silenzio è la risposta ricevuta; il ragazzo,
senza ancora un nome, si affloscia deluso contro lo schienale, il
rumore della musica cessa così di colpo.
"Ti sentiresti più a tuo agio con qualche tuo amico?"
Aggiunge subito dopo aver spento l'IPod. "Ma dimmi: quanti tuoi amici
conoscono veramente il tuo numero di scarpe, la tua taglia di vestiti o
il tuo colore dei fiori preferito? E soprattutto: perché
nessuno di loro è qui con te?"
Alla parola amici Len avverte una fitta allo stomaco più
forte delle precedenti...
Non ricorda l'ultima volta che ha visto un volto amico e si chiede cosa
è successo. L'hanno abbandonato? Oppure lui ha abbandonato
loro? I suoi amici c'erano stati nel momento del bisogno? E lui li
aveva abbandonati rifiutando di chiedere aiuto? I ricordi sono davvero
confusi da quando ha iniziato a prendere le medicine...
Tutti quei pensieri lo fanno piegare in due, tenendosi stretta la
pancia con entrambe le braccia e soffocando un senso di nausea sempre
più crescente.
Aveva preso le medicine quel giorno? Non lo ricorda proprio.
"Ehi stai bene?" Sente gridare accanto a sé e
improvvisamente due mani gli stringono le spalle e lo riportano a
sedere eretto sulla sedia.
Ma Len bene non sta per niente: il respiro è accellerato,
improvvisamente ha persino iniziato a sudare.
"Penso di non aver preso le medicine oggi..." Tra un affanno e l'altro
Len indica la tasca più esterna dello zainetto che si porta
appresso. Subito lo sconosciuto si adopera aprendola, trovando una
confezione di pastiglie persa tra le altre cose; alzandosi recupera un
bicchiere, riempiendolo dal boiler d'acqua messo a disposizione nel
corridoio, e lo spinge contro le labbra di Len inducendolo
così a bere.
Mandando giù le pastiglie Len sembra avere quasi l'apparenza
di stare meglio.
Ma è solo una sensazione effimera, lo sa. L'illusione che un
prodotto sintetico può portare.
"Hai mai provato la sensazione di non essere mai abbastanza?" Gli
chiede Len dopo essersi calmato, rigirando il bicchiere di carta tra le
dita. "Di dover sempre rispondere alle aspettative degli altri?
Genitori, amici, fidanzata... Tutti che ti buttano addosso le loro
frustrazioni e mai una volta che si sono chiesti: stai bene oggi? Come
ti senti? Vuoi parlare?"
Len solleva gli occhi azzurri e stanchi in attesa di una risposta che
non arriva e nemmeno capisce se quel silenzio è dovuto a uno
smarrimento per la domanda strana che gli ha appena rivolto o per una
forma di rispetto nei suoi confronti.
"Gli amici mi hai chiesto? Se ne sono andati tutti... Chi per un motivo
o per l'altro. Alla fine sono rimasto solo e senza amici."
Lo sconosciuto dai capelli rosa torna a sedersi permeando nel suo
attento silenzio, la sensazione di avere un mal di testa sempre
più pronunciato non si ferma, al punto che Len si trova
costretto a prendersi tra le mani le tempie e a strizzare gli occhi.
"Insomma, che diavolo sta succedendo? Perchè cambio
così velocemente? Prima sono su e poi sono giù...
Anche venendo qui nulla è ancora cambiato. Il mio nemico
è invisibile e non so nemmeno come combatterlo."
Dei passi riecheggiano lontani, accompagnate da gruppi di voci che si
perdono nei meandri dei corridoi adiacenti. Len è rimasto
senza voce e ancora non si spiega perché la dottoressa non
l'ha chiamato dentro: perché non si sbriga? Vuole tornare a
casa, chiudersi in camera e sentirsi nuovamente al sicuro.
"Ora ho capito il tuo problema." Parla pacato lo sconosciuto: Len lo ha
di nuovo davanti a sé, che lo guarda dritto in faccia, con
le mani tenute al sicuro dentro le tasche della felpa. "E posso dirti
per certo che non c'è nessun nemico da sconfiggere
perché il nemico sei tu stesso."
Len lo guarda spaventato, allontanando finalmente le mani dalla propria
testa.
"Avevo un amico, aveva il tuo stesso problema: d'un tratto si
allontanò da tutti e lasciò la sua ragazza senza
alcuna spiegazione. Persino io, che ero il suo migliore amico, non
riuscivo a capire quale problema avesse."
Gli occhi ambrati osservano un imprecisato punto distante, come alla
ricerca di qualcosa nei cassetti della memoria.
"Alla fine ci siamo persi di vista: io avevo troppi casini miei per
pensare anche ai suoi."
"Mmmm... Che ne è stato?" Len appoggia le mani fino alle
ginocchia. "Che ne è stato di lui?"
Il ragazzo più grande strappa una foglia dalla pianta
più vicina per poi rigirarla tra le dita, mostrando solo un
debole sorriso. Alla fine la getta via esattamente come l'ha strappata.
"Che ne è stato? Ha dato fuoco al suo appartamento e poi si
è buttato da un ponte. Infine è morto sul colpo,
in completa solitudine, esattamente come era rimasto. Non aveva parenti
vicini e persino i suoi amici si erano allontanati."
Addossandosi contro il muro dietro di lui torna a guardare Len dritto
negli occhi, al punto tale che Len non riesce a reggere la pressione e
subito distoglie lo sguardo spostandolo ai piedi.
"E tu? Sei già arrivato al punto di non ritorno?"
Il cuore di Len perde un battito: realizza immediatamente cosa
significava la frase 'punto di non ritorno' e subito nella sua mente
gli balena il ricordo di lui davanti allo specchio. Lo specchio gli
dice qualcosa, ma non riesce comunque a capire cosa.
Si tratta, appunto, di quegli echi lontani che ogni giorno diventano
sempre più incomprensibili da decifrare.
Da piccolo volevo essere
un eroe... Come ho fatto a diventare un completo zero?
Accorgendosi delle proprie mani che tremano Len le intreccia tra loro,
sperando che in quel modo il fremito si possa fermare.
"Questa paura che mi porto dentro è più di quanto
io possa sopportare." Risponde afferrando l'estremita della manica
sinistra e iniziando a raggomitolarla fino a metà braccio.
Sulla pelle bianca e immacolata spicca un taglio lungo e profondo, che
il tempo pare aver già fatto schiarire e cicatrizzare.
"Ci vuole coraggio per prendere una decisione del genere, ma io sono un
codardo e l'unica cosa che sono riuscita a farmi è stata
questa."
Lo sconosciuto si appoggia a una colonna con la schiena, pizzicandosi
una guancia mentre assottiglia gli occhi, alla ricerca di un ricordo
lontano.
Len lo guarda stanco: quella conversazione gli sta costando una fatica
immane, però ora che il ghiaccio iniziale sembra essersi
sciolto la sta iniziando a trovare quasi gratificante perché
è da tempo che non si confessa così con qualcuno.
Inizia a provare la sensazione di essere capito, una sensazione
completamente diversa da quella scientifica che sta provando a dargli
la dottoressa.
"La paura è più di quanto tu possa sopportare?"
Esala il ragazzo roteando gli occhi. "Che strano. Queste sono state le
ultime parole che il mio amico ha detto l'ultima volta che ci siamo
visti. Allora non avevo idea di cosa significavano, ma ora riesco a
comprenderle meglio."
L'attenzione di Len viene nuovamente richiamata quando la porta di un
ambulatorio si apre e il viso della dottoressa si affaccia all'esterno
chiamandolo per nome.
Len avverte un senso di vuoto mentre si alza dalla sedia per entrare
dentro. Davanti a sé il ragazzo ancora sconosciuto non fa
una piega: rimane in silenzio e con le mani nelle tasche, probabilmente
in attesa che lui entri prima di andarsene via.
"Mmm.." Si schiarisce la gola Len. "Ti rivedrò?"
Le sue labbra si distendono, pallide contro la pelle del viso chiara.
"Mi rivedrai se ritornerai qui, Len." Esplicita lentamente, chiamandolo
per nome, lasciando intendere molto più del necessario.
Anche Len si lascia andare a un vago sorriso, decidendo che
è ora di entrare e concludere la sua visita.
Così, finalmente, potrà tornare a rifugiarsi a
casa.
"Allora ci rivedremo tra una settimana."
Quel ragazzo, che ancora non si è presentato, gli sorride
affermativamente prima di dargli la schiena e incamminarsi al lato
opposto del corridoio.
Len fa uno o due respiri, giusto per prendere coraggio, per poi
stringere la maniglia della porta tra le dita prima di spingerla: la
prossima volta, sicuramente, gli chiederà il nome e il
motivo per cui anche lui frequenta l'ospedale.
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