«E
dire che allora...» una voce al
suo fianco lo svegliò.
Era arrivato
all'aeroporto con un'ora di
anticipo per non rischiare di fare tardi, poi si era appisolato su
una delle sedie blu nella sala d'attesa fuori dal gate.
Si
voltò
alla sua destra e vide un uomo in sedia a rotelle che lo guardava.
Portava cappello e impermeabile color cachi, aveva una lunga barba
curata, occhi azzurro cielo e un sorrisetto enigmatico a incurvare le
labbra sottili.
Cosa gli aveva
chiesto? Forse voleva
solo sapere l'ora, guardò l'orologio che aveva al polso.
«Le
quattro e trentacinque» disse, sperando di liberarsene.
«No,
hai
capito male. Non ho detto “Mi sai dire l'ora”, ho
detto “E dire
che allora”».
«E
dire che allora?» chiese spazientito.
L'altro annuì continuando a sorridere.
«Prendi
quello zuccherino
di canna lì dietro» indicò una
senzatetto che dormiva poco più in
là.
«Gran
bella fica, no?»
«Cosa?
Avrà settant'anni»
disse, mentre un senso di inquietudine lo invadeva. Era come se, da
qualche parte in quella sala, ci fosse un serpente pronto a
morderlo.
«A
dir poco. E dire che allora...» ripeté l'uomo.
Aveva perso il
sorriso, lo guardava negli occhi con un'intensità
tale da metterlo a disagio.
«Non
la seguo» sospirò distogliendo
lo sguardo.
«Mi
chiamo Argent, non vivo da queste parti».
«Senta
signor Argent...»
«Solo
Argent» lo interruppe brusco. «E mi
trovo qui, se vuoi saperlo, per via della mossa Kansas City»
spiegò
con lo stesso tono piatto. Era come se la sua voce non conoscesse
altri colori oltre il grigio.
Forse era un
uomo solo che aveva
bisogno di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno e, se l'avesse
ascoltato, magari la Divina Provvidenza sarebbe stata magnanima con
lui e glielo avrebbe tolto dai piedi.
«Cos'è
la mossa Kansas
City?» chiese sospirando per la seconda volta.
«La
mossa Kansas
City è quando guardano a destra e tu vai a
sinistra».
«Non
l'ho
mai sentita».
«Be',
non è che se ne parli tanto.
Alla fine colpisce chi non vuol sentire. Questa in particolare
è in
preparazione da più di vent'anni».
«Vent'anni,
eh?»
«Non
è una cosa da poco. Richiede una grande programmazione,
coinvolge un
bel po' di persone. Persone collegate solo da un evento
insignificante, una soffiata nella notte in un ambiente che non
dimentica, anche se tutti ne avrebbero voglia».
Argent fece
una
pausa, il suo sguardo si perse in un luogo lontano a lui
irraggiungibile, alla ricerca di ricordi che forse credeva
dimenticati.
«Inizia
tutto con un cavallo. È quella che
all'epoca si chiamava “corsa del droghiere”. Un
tizio vuole una
cosa che un altro definisce sicura e si dà da fare per
ottenerla;
così chiama Doc, un esperto di Anversa molto bravo a dare la
dose
giusta al cavallo giusto, ma molto poco discreto. E lo stesso si
può
dire per la donna di Doc, Gloria. Gloria era troppo miele per un solo
alveare ed Abe era tanto vecchio quanto ricco e riconoscente. E lei
era disposta a farsi mettere le mani addosso da uno come lui per
qualche regalo e feste di lusso, perciò gli
rivelò tutti i dettagli
della corsa truccata che Doc si era lasciato sfuggire».
«E
questo Abe li denunciò?» la storia cominciava ad
appassionarlo sul
serio.
«No,
nient'affatto. Abe non era un ficcanaso, ma aveva un
buon naso. E subito sotto il naso aveva la bocca. Raccontò
tutto a
un amico fidato: corsa truccata ad Aqueduct, numero 7, decima corsa.
Peccato non si trovasse nel suo salotto, ma in un club affollato.
Lì
c'era una farfalla che aveva buone orecchie e che guarda un po' era
lo zio di qualcuno. Lui, il nostro uomo».
«Il
nostro
uomo?»
«Già,
lo chiameremo così. Il nostro
uomo».
«Lo
zio faceva il cameriere proprio nel club
frequentato da Abe e caso volle che fosse lì a prendere i
bicchieri
vuoti proprio mentre Abe vuotava il sacco».
«Una
vera fortuna,
no? Intendo, per il nostro uomo».
Argent fece
schioccare la
lingua, senza scomporsi.
«Dipende
dai punti di vista, immagino.
Il nostro uomo era giovane, ma in fondo non più
così tanto, e
lavorava sodo. Quanto lavorava. Ed era tanto tanto stanco. Stanco di
lavorare senza vivere, stanco di scoprire la mattina che i suoi sogni
erano solo sogni, ma soprattutto era stanco di non avere un
giardinetto davanti casa. La notizia di quella corsa sicura gli diede
la speranza che aspettava da tempo, quella di poter finalmente
rivoluzionare la propria vita e quella di suo figlio. Già,
non fare
quella faccia, il nostro uomo aveva una moglie e un figlio. Un figlio
molto sveglio e intelligente, che portò con sé il
giorno della
corsa ad Aqueduct. Lo lasciò in macchina ad aspettarlo,
dandogli il
proprio orologio per contare i minuti fino al suo ritorno».
«Perché
lasciarlo lì? Voglio dire era una corsa di cavalli, non una
bisca
clandestina».
«Ci
sei andato molto vicino. Un'occasione come
quella era irripetibile, quindi scommettere al picchetto sarebbe
stato da pazzi: se qualcuno avesse scoperto il trucco gli avrebbero
preso ogni cosa, tutti i suoi soldi e tutti i suoi sogni, senza
contare che sperava di guadagnare qualcosa in più.
Perciò si
rivolse a un allibratore sottobanco, di quello che gestiva scommesse
non proprio legali, un certo Roth. Lui lo avvisò: quella
puntata
sarebbe passata ad un altro allibratore, che gestiva gli affari di
gente poco raccomandabile, gente con cui era meglio non avere un
debito. Se il cavallo avesse perso, il nostro uomo avrebbe dovuto dar
loro ventiduemila dollari».
«E
il cavallo vinse la corsa?»
«No,
certo che no, altrimenti non saremmo qui a parlarne. Il
cuore del cavallo numero 7 esplose a metà della gara e il
nostro
uomo si rese conto che i suoi sogni l'avevano trascinato giù
in un
incubo».
«Accidenti!
E poi cosa accadde?»
«Tornò
al parcheggio, sperava di poter risolvere le cose in
qualche modo. La sua auto però era sparita e di suo figlio
neanche
l'ombra. Lo chiamò a gran voce, tanto da attirare su di
sé
l'attenzione dei lupi che lo stavano aspettando. Ricordi la gente
poco raccomandabile di prima?»
«Sì,
certo».
«Gliele
suonarono di santa ragione, poi gli misero una busta di plastica in
testa. Nel mentre altri due sicari si occuparono della moglie e del
figlio. Morti, tutti morti».
«Merda.
Cazzo! Porca...»
«Merda,
cazzo, porca. Esatto».
«Ma
io non capisco, perché hanno ucciso
la sua famiglia?»
«Una
nuova banda. Non volevano farsi
fregare subito con una corsa truccata appena arrivati. Una lezione
esemplare».
«Wow,
cioè... che cazzo di storia assurda».
«Charlie
Chaplin partecipò a un
concorso per sosia di Charlie Chaplin a Montecarlo e arrivò
terzo.
Quella è una storia assurda. Questa è tutta
un'altra cosa».
Si
pentiva di aver pensato male di quell'uomo, in fondo non era tanto
terribile ascoltare le sue storie.
«Allora
è questa la mossa Kansas
City?» chiese ricambiando il sorriso.
«No.
È solo il fatto
scatenante, il catalizzatore. Questa è una mossa Kansas
City»
indicò con il braccio qualcosa davanti a sé, lui
si girò per
vedere a cosa si riferisse: non c'era nulla.
Si
rigirò a destra
verso Argent, ma la sedia era incredibilmente vuota.
«Loro
guardano a destra e tu vai a sinistra».
Prima che se
ne rendesse
conto aveva il collo spezzato e la vita lasciava per sempre il suo
corpo.
Argent lo mise
sulla sedia a rotelle, lo coprì con il
cappello e il cappotto color cachi e lo portò fuori
dall'aeroporto,
caricandolo nel retro di un camion.
«Mi
dispiace figliolo, ma a
volte la vita non è fatta di solo vivere. E poi non si
può fare una
mossa Kansas City senza un morto».
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