Leo:
“Mi ricordo ancora il primo giorno che sono arrivato in
ospedale... Lei mi disse tutte quelle cose belle e brutte
che... che avrei potuto vivere da quel momento in poi...”
Dottoressa
Lisandri: “Me lo ricordo, sì...”.
Questo
capitolo racconta proprio di “quel” giorno: il giorno in
cui Leo, che da pochissimo ha avuto la conferma di avere un
osteosarcoma alla tibia, pretende di sapere tutto quello che gli
potrà succedere da quel momento in poi, e la Lisandri, dopo
un'iniziale titubanza, non si tirerà indietro. Osservatore
esterno di questo intenso dialogo, Matteo: impotente e inadeguato
davanti a quanto sta succedendo a suo figlio.
Venerdì,
6 luglio 2012
Fisso
il soffitto della mia stanza, senza decidermi ad alzarmi. La sveglia
è già suonata due volte, e due volte l'ho spenta. Oggi
è il giorno della Verità e non ho per niente
voglia di alzarmi. Ufficialmente, il giorno della Verità
è stato lunedì, con quella cazzo di diagnosi che non mi
lascia scampo, ma oggi saprò per davvero che schifo di estate
mi aspetta.
Che
schifo di destino, mi aspetta.
Sul
fatto che debba fare la chemio pare non ci siano dubbi, posso solo
sperare in un miracolo; sperare che la pet abbia smentito tutto, che
gli altri esami che ho fatto non fossero attendibili, che nemmeno il
pezzo d'osso che mi hanno preso fosse attendibile: “Scusaci
Leo, ci siamo sbagliati! Sei sano come un pesce: vai, e goditi
l'estate! L'unica rogna che avrai sarà quella di non poter
fare il bagno per altre due settimane, per colpa dell'inutile
intervento alla gamba, ma per il resto vai e sii felice!”.
Sì,
nei miei sogni, proprio!
La
realtà è ben diversa.
La
realtà fa schifo.
“Leo,
è ora che ti alzi!”; la voce di papà mi giunge
forte e chiara dalla cucina; dieci minuti fa è venuto a
chiamarmi e poi ha lasciato la porta aperta.
“Sì...”
gli rispondo senza troppa convinzione, mentre ancora prendo tempo. Ho
una paura fottuta di tutto quello che mi aspetta da adesso in poi, di
sapere quanto è effettivamente stronza la Bestia, e di quanto
sarà difficile e sanguinosa questa guerra che non ho scelto di
combattere.
“Leo,
dai! Ti ho preso i cornetti!”.
Mi
ha preso i cornetti.
Anche
se non è domenica.
Mi
viene da sorridere per questa sua premura, per i gesti goffi che fa,
cercando di compensare le cose che non riesce a dirmi e la forza che
non riesce a darmi; mi ha preso i cornetti: pure più di
uno, a quanto pare. Non si è accorto che ultimamente faccio
fatica a mangiare? Che lo faccio giusto perché devo, il minimo
indispensabile, senza la mia solita voglia? O se n'è accorto e
spera che con i cornetti mi torni l'appetito?
Sospiro
e mi alzo: “Arrivo!”; forse almeno uno riuscirò a
mangiarlo.
Per
tutto il viaggio verso l'ospedale, io e papà rimaniamo in
silenzio; lui appare molto concentrato sulla strada ed io sono alle
prese con la nausea, quasi pentito di aver mangiato un intero
cornetto alla crema: pare sia stato troppo, e la tensione che ho
addosso non mi aiuta di certo a digerirlo. Quando arriviamo è
anche peggio, mi viene persino da vomitare e me ne sto almeno un
quarto d'ora in bagno, con la sensazione di dover vomitare da un
momento all'altro, anche se poi non succede e mi decido ad uscire,
dopo essermi bagnato la faccia con l'acqua fredda. Vado alla
macchinetta a prendermi una Coca, e me la bevo seduto fuori dallo
studio della Lisandri, cominciando ad avvertire un po' di sollievo,
mentre papà guarda nervosamente l'orologio perché siamo
già in ritardo di cinque minuti.
“Tanto
non scappano” gli dico piegando di lato le labbra.
“No,
però...”
“Preferisci
se gli vomito davanti?!” gli chiedo con tono polemico. “Io
dico che loro piuttosto preferiscono aspettare.”
“Senti,
vuoi... vuoi che entri solo io? Vuoi aspettarmi qui?”.
Io
lo guardo allibito, anche se in parte apprezzo il suo tentativo di
proteggermi. In parte. “Ma che dici?! Si tratta di me!
Al massimo quello che deve aspettare fuori sei tu!”
“Ho
pensato che forse..., non lo so, magari preferisci sapere le cose per
gradi.”
“Io?!
Ma mi conosci o no?!” esclamo alzando la voce. “Piuttosto,
davvero, aspetta fuori tu, che mi metti solo altra angoscia, e non mi
serve.”
“No
Leo, anche stavolta entro con te”.
Io
sbuffo e mi alzo: “Vabbè, promettimi che lasci parlare
me, almeno, senza metterti in mezzo!”
“Certo,
va bene”.
Vado
a buttare la lattina vuota, e poi busso allo studio della Lisandri,
mentre il mio stomaco si contrae in una morsa dolorosa.
“Tieni”
mi dice il dottor Alfredi porgendomi un block-notes giallo, quando io
e papà ci accomodiamo davanti a lui e alla Lisandri.
“E
che
devo farci?” gli chiedo perplesso aprendolo e vedendo che è
completamente vuoto.
Lui
mi rivolge un sorriso bonario e mi porge una biro: “Scriverci.
Scriverci tutto quello che ti vuoi ricordare, tutte le domande che ti
vengono in mente, tutte le cose che non capisci o che hai bisogno di
capire meglio.”
“Va
bene...” rispondo un po' disorientato, togliendo il tappo alla
biro.
La
Lisandri si toglie gli occhiali e appoggia le mani sulla mia cartella
clinica chiusa: “Allora... La buona notizia è che
abbiamo potuto classificare il tumore al secondo stadio, perché
è localizzato e non ci sono metastasi né linfonodi
coinvolti. Per il momento”.
Per
il momento.
Certo.
Quando
hai a che fare col cancro diventa tutto “per il momento”;
me lo ricordo bene quello che succedeva con mamma, che da un giorno
all'altro poteva cambiare tutto.
Per
il momento la Bestia è al secondo stadio. Due su quattro.
Poteva andarmi peggio.
“Al
secondo stadio un tumore è ancora considerato iniziale”
continua lei. “E la prognosi è favorevole, nella
maggioranza dei casi”.
Nella
maggioranza dei casi.
Altra
frase che ti senti ripetere spesso quando hai il cancro.
Per
il momento, nella maggioranza dei casi...
Ma
davvero stanno dicendo queste frasi a me?!
A
me?!
Andiamo
ragazzi, fino a poco fa la mia vita era scandita dalla scuola, dai
miei amici, da Giulia, dalla pallanuoto, dalla mia famiglia... Com'è
possibile che io adesso mi ritrovi qui, anziché essere a mollo
in una piscina, a sentir parlare di stadi di tumore, prognosi,
terapie e tutta quell'altra roba schifosa?
Mi
viene quasi da ridere, mentre prendo appunti come se fossi a scuola;
papà sta rispettando l'accordo e continua a restare in
silenzio. Io finisco di scrivere e poi sollevo la testa e guardo la
Lisandri dritta negli occhi: “E la cattiva
qual è?” le domando con un sorrisetto nervoso. “Perché
dopo una buona notizia, ce n'è sempre una
cattiva, no?”.
Lei
resta ancora una volta spiazzata dal mio essere così diretto,
ma non abbassa lo sguardo: “La cattiva è che il tumore
sembra essere parecchio aggressivo. Cresce molto velocemente.”
“Quindi?”
“Quindi...,
per evitare un avanzamento di stadio nel prossimo periodo, dobbiamo
agire tempestivamente e in maniera decisa. Non possiamo permetterci
di perdere tempo, la chemioterapia dovrà essere molto
serrata.”
“Ok...”;
deglutisco, mentre immagino la Bestia prendere sempre più
spazio nella mia gamba, ed è un'immagine che non mi piace per
niente.
“Lunedì
mattina cominciamo”.
Lunedì.
Tra
tre giorni.
Tre,
miseri, fottuti, giorni.
“Va
bene” annuisco deglutendo ancora.
“Dovrai
essere in ospedale alle otto, a digiuno. Facciamo gli esami del
sangue e se è tutto a posto partiamo subito con il primo
ciclo. Tre cicli dovrebbero essere sufficienti a ridurre il tumore
abbastanza da poter procedere all'asportazione” continua la
Lisandri, mentre io scrivo tutto. “Di solito, tra un ciclo e
l'altro passano due o tre settimane, ma nel tuo caso abbiamo optato
per un intervallo di una settimana. Farai una seduta intensiva di
quattro ore per tre lunedì di fila, poi procederemo con
l'operazione. È tutto chiaro fin qui?” domanda guardando
me, e poi papà. Entrambi annuiamo e lei
riprende a parlare. “Finita la seduta ti tratteniamo un po'
sotto osservazione e dopo potrai andartene a casa, se non ci sono
complicazioni”.
Se
non ci sono complicazioni.
Un'altra
delle frasi da aggiungere al repertorio.
“Complicazioni?”
le domando con tono ironico. “Del tipo vomitare l'anima e non
riuscire a reggermi in piedi? Cose del genere?”
“Sì”
annuisce il dottor Alfredi. “Cose del genere. Ma speriamo che
non capiti”.
Non
mi illudo: ricordo ogni singola volta che, tornato a casa da scuola,
non trovavo mamma ad aspettarmi perché la chemio era stata
troppo pesante e l'avevano trattenuta in ospedale per la notte.
“E
dopo l'operazione che succede? Dovrò fare ancora chemio?”
“Sì”
mi risponde la Lisandri. “Abbiamo programmato tre cicli
post-operatori”.
Scrivo
anche questo, poi lancio una rapida occhiata a papà che si sta
torturando le dita delle mani, faccio un respiro profondo, passo il
mio sguardo dalla Lisandri ad Alfredi: “E alla fine di tutto
ciò, dovrei essere guarito?”.
Ero
terrorizzato all'idea di sapere tutte queste cose, ma, stranamente,
più so più riesco a tenere a bada la paura; è
come se, facendo le domande che mi spaventano e sentendone le
risposte, la Bestia perdesse un po' di potere su di me: non posso
lottare contro di lei se non so davvero cosa mi aspetta.
“Noi
speriamo di sì, Leo” mi dice il dottor Alfredi. “Ma
con il cancro non si può mai dire”.
Con
il cancro non si può mai dire.
“Perché
tutto questo potrebbe non funzionare, no? È così?”
“È
così, sì. La guarigione non possiamo garantirtela”.
La
guarigione non possiamo garantirtela.
Lo
sapevo già che non possono garantirmela, la guarigione, ma è
lo stesso un pugno nello stomaco. La schiettezza di
quest'uomo, però, mi piace: mi sta dicendo cose terribili,
ma con una pacatezza rassicurante.
“Ditemi
tutto quello che mi aspetta” dico con tono fermo e sicuro, ma
la Lisandri non sembra molto dell'idea.
“Ma...
Leo...”
“Ditemi
tutto.”
“Ma...
ne sei proprio sicuro?” mi chiede lei rivolgendomi uno sguardo
accigliato. “Non è meglio fare un passo alla volta e
vedere che succede?”
“No.
Voglio sapere tutto quello che potrebbe succedere” ribadisco
stringendo forte la biro. “Anche nel peggiore dei casi”.
Voglio
sapere tutto, voglio
conoscere il mio nemico fino in fondo, solo così sarò
veramente pronto; papà probabilmente non è della stessa
idea, lui non vorrebbe sapere proprio tutto. Mi giro un attimo
a guardarlo: è pallido e si agita sulla sedia, ma continua a
stare in silenzio come gli ho chiesto.
La
Lisandri guarda Alfredi, che annuisce, poi congiunge le mani,
incrociando le dita come se stesse pregando: “D'accordo”
dice avvicinando le mani alle labbra. “Il tumore potrebbe non
reagire alla terapia nel modo che ci aspettiamo..., potrebbe non
ridursi nonostante la chemio, potrebbero verificarsi delle recidive,
e potrebbero diffondersi delle metastasi, anche se al momento non ce
ne sono... La chemio sarà molto dura e avrà delle
conseguenze molto pesanti sul tuo fisico...”
“Questo
lo so” dico io interrompendola. “Nausea, vomito, febbre,
capelli che cadono, giorni in cui non riuscirò ad alzarmi dal
letto... Intende tutte queste belle cose, no?”
“Sì”
annuisce lei. “E potrebbero essere necessarie più chemio
del previsto. A questo proposito, dato che la chemioterapia
prolungata può compromettere la fertilità, sarebbe il
caso di preservarla con la crioconservazione del...”
“No
grazie!” esclamo senza lasciarle finire la frase. “Non ci
penso proprio!”
“Come
sarebbe?”
“Sarebbe
che non mi interessa.”
“E
perché non ti interessa?”.
Perché
non ho voglia di farmi una sega dentro un barattolo, in una stanza
fredda e sterile, e poi darlo in mano a degli estranei, e fare
congelare tutto e poi andarlo a recuperare un giorno se mai mi
servirà.
“Perché
no e basta” dico mentre lei sospira e si porta una mano sulla
fronte.
“Vuoi
parlarne con uno psicologo?” mi propone il dottor Alfredi.
“Potrebbe esserti utile, e non solo per questo. Sarà una
battaglia lunga e difficile, anche a livello emotivo”.
Io
scuoto la testa e accenno un sorriso sarcastico: “Non voglio
preservare la mia fertilità e non mi serve uno psicologo.”
“Leo,
potresti pentirtene” mi dice la Lisandri.
“Fa
lo stesso.”
“E
i prossimi mesi saranno parecchio duri, dovrai convivere con la
paura, col dolore, con l'incertezza, con...”
“Me
la caverò. Da solo.”
“Tu
adesso dici così ma...”
“Lei
non mi conosce” dico con tono duro.
“E
tu non conosci la malattia.”
“Sì,
che la conosco!” esclamo alzando la voce. “Se n'è
già scordata?!”
“Non
è la stessa cosa” ribatte lei con tono impassibile.
“Stavolta la vivrai in prima persona. Sarai tu quello
che dovrà passare molto tempo in ospedale, che starà
male, che dovrà rinunciare a tante cose, che tante ne
perderà...”
“Lo
so”.
Lei
mi guarda con indulgenza, ed è come se mi studiasse, come se
volesse capire fino a che punto davvero io voglio sapere tutto.
Io sostengo il suo sguardo, non lo abbasso nemmeno per un attimo, e
lei decide di continuare: “E potresti perdere delle persone,
anche. Perché non tutte ce la faranno a restarti accanto,
perché è difficilissimo restare accanto a qualcuno che
sta male, e soffre, e lotta per sopravvivere”.
Lo
so, cazzo! Lo so!
Lo
so quanto è difficile stare accanto a chi sta male! Lo so che
potrei perdere Giulia, e i miei amici, e, per come è ridotto,
pure papà; forse l'unica persona su cui scommetterei qualcosa
è Asia.
“Però...”
mi dice ancora, accennando un sorriso. “Ti succederanno anche
delle cose belle”. Cose belle?! Mi sta prendendo per il
culo?!
“Guardi
che non c'è bisogno che adesso mi dica delle balle per far
apparire la faccenda meglio di quello che è. Ero preparato a
tutto quello che mi ha detto. Non sono sconvolto.”
“Non
ti sto dicendo delle balle” sorride lei rimettendosi gli
occhiali. “È la verità.”
“E
quali sarebbero queste cose belle?!” esclamo agitando in
aria una mano. “Sentiamo!”
“Tanto
per cominciare la tua vita andrà avanti comunque, anche se in
modo diverso. E sarai felice di essere vivo e grato per ogni giorno,
come non lo sei mai stato prima. Ogni cosa positiva che ti accadrà,
ogni piccola gioia quotidiana, la vivrai più intensamente.
Conoscerai tante persone nuove, e alcune di queste probabilmente
diventeranno le più importanti della tua vita. Conoscerai
meglio te stesso, quello che vuoi, i tuoi veri bisogni. Troverai un
coraggio e una forza che non credevi di avere, supererai limiti che
credevi insuperabili. Uscirai da questa lotta più ricco, di
tante cose. E se anche tu dovessi perdere, niente sarà stato
inutile, perché saprai che hai fatto tutto il possibile per
vivere al meglio, e la morte non ti farà più paura”.
Queste
parole non le ho scritte, mi sono perso ad ascoltarle: le ho sentite
scendere in profondità dentro di me e la loro spietata Verità
mi ha fatto male, ma in qualche modo mi ha fatto anche bene.
Mi
sento forte, potente, determinato; sono
deciso a prendere in mano la situazione.
Sento
tutta la forza del Leone.
Sono
pronto a partire per la guerra. Ce
la metterò tutta per vivere, e alla fine avrò la meglio
su questo tumore del cazzo.
“Grazie”
dico chiudendo il block-notes e restituendo la biro al dottor
Alfredi.
Per
il momento.
Nella
maggioranza dei casi.
Se
non ci sono complicazioni.
Con
il cancro non si può mai dire.
La
guarigione non possiamo garantirtela.
Quelle
frasi rimbombano nella testa di Matteo, una dopo l'altra, mentre
guida verso casa, e non gli lasciano tregua. Leo sta guardando fuori
dal finestrino e se ne sta in silenzio, a parte, ogni tanto,
canticchiare qualche canzone che sente solo lui perché ha
indosso le cuffiette; è stata una mattina così pesante,
sono state pronunciate sentenze così orribili, eppure
lui appare più sereno del viaggio di andata, e Matteo non può
che chiedersi come questo sia possibile. Un'altra cosa che si
chiede è se sia il caso di dire qualcosa, se Leo si aspetta,
oppure no, che lui dica qualcosa. Ha le cuffiette e se ne sta
girato: non sembrano i segnali di chi vuole fare conversazione, no?
Eppure
lui sa che qualcosa dovrebbe dirgli, almeno sulla faccenda
della fertilità e dello psicologo, ma non sa da dove iniziare.
A dire il vero non hanno parlato nemmeno della malattia, né
delle terapie, mai, nemmeno dopo che lunedì hanno avuto
la diagnosi definitiva; ci ha provato più volte, ma ogni volta
le parole gli si fermavano in gola.
Che
farebbe Irene? Lo lascerebbe stare, rispetterebbe il suo silenzio
senza provare a forzarlo, o lo affronterebbe in modo diretto, fino a
farlo urlare e piangere, e buttare fuori tutto quello che si tiene
dentro?
Non
dovevi andartene proprio adesso.
Se
ci fosse ancora Irene sarebbe tutto più facile, perché
lei saprebbe cosa dire e cosa fare, lei saprebbe come prendere Leo, e
saprebbe pure come rassicurare lui.
Rassicurare?!
Davvero lo ha pensato?! Ma andiamo! Nemmeno Irene riuscirebbe a
trovare niente di rassicurante in questa storia, e l'unica cosa che
cambierebbe, se ci fosse Irene ancora viva, è che soffrirebbe
per questa situazione quanto tutti loro, se non di più.
E allora, forse è stato meglio che se ne sia andata prima,
almeno si è risparmiata questo dolore così atroce, così
soffocante.
Gli
occhi gli si riempiono di lacrime, li asciuga in fretta con le dita,
riafferra il volante, lo tiene stretto, guarda Leo che è
ancora girato a guardare fuori, guarda i suoi capelli neri e folti
come “la criniera di un corvo” che Irene amava tanto
accarezzare, e non riesce proprio a immaginarlo senza. Vorrebbe
fermare l'auto, scendere, urlare a perdifiato fino a svuotarsi i
polmoni, piangere fino a non avere più lacrime, maledire Dio o
il Destino che lo sta sottoponendo a quest'ennesima prova che lui non
è in grado di affrontare. Dopo quello che ha passato con
Irene, credeva che niente, niente, avrebbe più potuto
fargli male in quel modo, niente. E invece sta succedendo
ancora, e invece fa ancora più male, è ancora più
lacerante, e Irene non c'è più, e lui non sa nemmeno
come fa ad alzarsi ogni mattina e andare avanti, un giorno dopo
l'altro, e non sa come diamine farà ad affrontare anche la
malattia di Leo, perché non è in grado di sopportare
tutto il dolore che ne verrà, tutta la sofferenza che vedrà
nei suoi occhi e che, come sempre, lui si terrà dentro.
“Papà,
lasciami in piscina” gli dice Leo dopo aver guardato il
cellulare.
“Ma
è quasi ora di pranzo!”
“Fa
lo stesso, non ho fame. Se mi viene prenderò qualcosa al bar.”
“E
il costume? Lo hai già indosso?”
“No,
ma tanto il bagno non lo posso fare” gli ricorda toccando la
benda adesiva che ha sulla gamba destra.
“Ah,
già...”; e lui si sente uno stupido per essersene
scordato. “Va bene, ti porto lì. Ci sono i tuoi amici?”
“Sì.”
“Promettimi
però che mangi qualcosa.”
“Dai
papà, non fare l'Asia della situazione!” esclama Leo
ridendo.
Leo
ride, nonostante tutto quello che si è sentito dire poco fa in
quello studio.
Leo
ride, perché è fatto così, come sua madre.
Leo
ride, ed è così bello quando ride.
“Giulia,
vai a farti il bagno” le dico mentre me ne sto semi-sdraiato su
un lettino accanto al suo; tutti gli altri stavano già
sguazzando in acqua quando sono arrivato, lei invece mi stava
aspettando, e non si decide ancora ad andare.
“No,
ti ho detto che voglio stare qua.”
“Ti
ho detto vai! Posso stare da solo.”
“No,
non vado. Ho le mie cose”.
Io
le rivolgo uno sguardo scettico, mentre lei si siede a cavalcioni su
di me: “Non ti credo.”
“Giuro!”
“Ma
poi scusa, tu il bagno lo hai sempre fatto, anche con le tue
cose!”
“Sì,
ma adesso mi fa male la pancia, non ne ho voglia” mi dice
appoggiando la testa sul mio petto nudo. “Preferisco stare qui
a farmi fare le coccole.”
“Chi
ti dice che ti faccio le coccole?”. Lei solleva la testa a
guardarmi e mi sorride, in modo piuttosto convincente, ed io comincio
ad accarezzarle la schiena mentre avvicino le mie labbra alle sue per
baciarla; il bacio diventa immediatamente più profondo e
altrettanto immediatamente io mi eccito e faccio scendere le mani
dalla sua schiena al suo sedere, ma lei me le sposta più su;
ci riprovo e me le sposta di nuovo, per poi mettersi dritta e
rivolgermi un sorrisetto divertito. “Mi stai torturando, lo
sai, vero?” le dico corrugando le sopracciglia.
“Mi
sa che ti sei scordato che non siamo da soli!” ribatte lei
chinandosi a darmi dei baci leggeri sul viso e sul collo, facendomi
rabbrividire di piacere.
“Andiamocene
a casa tua allora” le propongo appoggiando di nuovo le mani sul
suo sedere.
“Prendetevi
una stanza!” esclama ridendo Arianna, che è appena
arrivata, in ritardo come al solito.
Io
sbuffo e allontano le mani, mentre Giulia si alza in piedi per
salutarla: “Ciao Ari!”. Arianna si spoglia velocemente e
va a tuffarsi in piscina, e Giulia torna su di me: “Ma che ti
hanno detto in ospedale?”
“Niente
che non sapessi già” le rispondo cercando di restare sul
vago.
“Lunedì
cominci la chemio?” mi domanda lei abbassando il tono della
voce.
“Sì.”
“E
lo stadio..., te lo hanno detto?”
“Secondo.”
“Oh...
beh..., è una buona notizia, giusto?”
“Hai
studiato, per caso?!” esclamo divertito.
“Wikipedia”.
Io
sorrido e mi passo una mano in mezzo ai capelli: “Comunque sì,
è una buona notizia”; quella cattiva, però,
meglio se gliela risparmio.
“E
poi? Che altro ti hanno detto?”
“Che
la chemio farà schifo, ma questo lo sapevo già. E poi
volevano mandarmi dallo psicologo, ma gli ho detto di no. E dato che
la chemio rischia di farmi diventare sterile volevano che preservassi
la mia fertilità, facendo congelare..., vabbè hai
capito! Ma ho detto di no pure a questo!”.
Lei
mi fissa per qualche secondo, disorientata: “E... perché
hai detto di no?”
“Allo
psicologo o all'altra faccenda?”
“Tutte
e due.”
“Non
mi serve uno psicologo, so cavarmela da solo. E per quanto riguarda
l'altra faccenda..., non è una cosa che mi va di fare.”
“Non
ti dispiace l'eventualità di non riuscire ad essere padre, un
giorno?”
“Non
lo so, non ci ho mai pensato”; e non voglio pensarci adesso.
“Guarda, cambio idea solo se ti fanno entrare con me ad
aiutarmi!” le dico ridendo.
“Scemo!”
esclama lei arrossendo e distogliendo lo sguardo. “Oh, i peli
stanno ricrescendo velocemente!” osserva accarezzandomi la
gamba destra, intorno alla benda adesiva.
“Sì...”
“E
il bagno quand'è che lo puoi fare?”
“Tra
un paio di settimane”; ma tanto, probabilmente, starò
così male che il bagno sarà il mio ultimo pensiero. “Tu
sarai a Londra...”.
Lei
si alza e mi fa allargare le gambe per sedercisi in mezzo,
appoggiando la schiena contro il mio petto. “Prestami una mano”
mi dice prendendomi la mano destra e appoggiandosela sulla pancia.
“Ce le hai sempre così calde!”.
Forse
Giulia ha davvero mal di pancia, ma credo che si sia girata perché
le viene da piangere e non vuole che io me ne accorga.
Le
tengo la mano sulla pancia, accarezzandola lentamente.
Inspiro
il suo profumo alla vaniglia.
Di
tanto in tanto, sposto qualche ciocca dei suoi capelli che un colpo
di vento mi fa finire in faccia.
Provo
un diffuso senso di pace.
Questa
piacevole sensazione, però, dura poco, perché ad un
tratto mi ricordo che questa normalità ha i giorni
contati, che da lunedì sarà tutto diverso e che la mia
vita ruoterà intorno ad altro.
Per
il momento.
Nella
maggioranza dei casi.
Se
non ci sono complicazioni.
Con
il cancro non si può mai dire.
La
guarigione non possiamo garantirtela.
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