II
Meriggio
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Si chiamava Fearghus[¹]. Era un giovane
borseggiatore di ventisei anni che aveva girato l’Europa a
causa della morte prematura del padre, ammazzato durante una rissa in
un bordello. Non aveva mai conosciuto sua madre, né aveva
altri parenti che potessero prenderlo con sé;
così a Dublino s’era imbucato su un treno
– Abaigeal non ne aveva mai visto uno, neppure sui libri
– e s’era abbioccato nel vagone merci. Al suo
risveglio, s’era ritrovato a Dún Laoghaire[²] e da lì aveva
preso un traghetto per l’Europa, agognando a quella nuova vita che di
frequente sentiva uscire dalla bocca degli avventori della locanda in
cui suo padre era solito portarlo.
La nave attraccò a Dordrecht
la primavera del 1838. Iniziò a rubare poiché non
sapeva fare altro; dapprima si diede allo scippo per le strade
succursali, poi divenne più avido, alla ricerca dei
portafogli di vera pelle in cui poteva trovarvi da vivere per una
settimana. Tuttavia, s’accorse presto di quanto fosse
complicato il concetto di domanda e offerta: con l’inflazione
alle porte a causa dell’avvento della Rivoluzione
Industriale, ciò che rubava non bastava a garantirgli la
sopravvivenza per nemmeno un giorno; poteva rinunciare
all’alloggio – dormire per strada non gli era mai
parsa una cattiva idea –, ma di qualcosa doveva pur sfamarsi.
Giunse ad Amsterdam la primavera del
1839, quando aveva solo undici anni. Si unì per qualche
tempo ad una compagnia d’artisti di strada, in cerca
d’un lavoro che gli permettesse di guadagnarsi da vivere
senza dover rubacchiare come aveva fatto in passato. Ma
l’accento spiccatamente straniero e l’aspetto
malandato non furono mai dei buoni biglietti da visita, specie in
quella città: a causa della guerra contro la Gran Bretagna,
la città aveva iniziato lentamente il proprio declino, e nel
giro di qualche mese le tratte commerciali si spostarono verso Londra.
Nel bel capoluogo, consumato da un popolo in cui perfino lui non si
riconosceva – era irlandese,
non gl’importava affatto degli inglesi –, Fearghus
veniva sempre etichettato con soprannomi come “lo
straniero”, “l’inglesino”,
“il lord”; tutti nomi che, se avesse potuto,
avrebbe appioppato volentieri a qualche ignaro passante con
l’accento di Canterbury.
Così, sconfitto dalla
città da cui sperava di poter ricominciare, si
ritrovò a vagabondare per l’Europa, non trovando
mai un posto dove poter sistemarsi: si diresse a sud, giungendo a
Plombières, in Vallonia; dopo qualche settimana di viaggio,
proseguì per Parigi, incupita dagli stralci dei moti
popolari del 1830. S’affacciò in Spagna, fino ad
arrivare nel Golfo di Guascogna, la parte dell’Oceano
Atlantico che da un lato bagnava la Francia coi suoi Pirenei Atlantici,
dall’altro si riposava sulle coste frastagliate dei Paesi
Baschi sino alla Galizia. Visitò l’Italia, ma non
giunse mai fino a Roma, dove avrebbe tanto voluto vedere
quell’arena dei gladiatori che tutti chiamavano il Colosso[³].
Crebbe nomade, Fearghus, e non
pensò mai di tornare sui suoi passi per capire cosa fosse
andato storto nella vita: non incolpò mai suo padre per
averlo lasciato allo sbando, né sua madre per non essere
stata con lui. Non si pentì mai d’essersene andato
e d’aver viaggiato, seppur non avesse condotto una vita che
avrebbe potuto definire esemplare o esente da privazioni. Non
s’era più interrogato su quante volte fosse stato
costretto a dormire sotto al cielo gonfio di stelle, ma finì
per abituarsi anche a quelle che, col passare del tempo, gli parvero
più belle delle lanterne delle città.
Dormì poco, ma sognò molto. E in quei sogni non
patì mai il freddo, né il caldo.
Fino al giorno in cui decise di
tornarsene a casa.
Abaigeal lo ascoltava rapita, con lo
sguardo perso ad osservare il solito, monotono paesaggio che, al suono
delle parole del ragazzo, si ravvivava e prendeva vita dai suoi
racconti in modo del tutto nuovo; un mondo a colori che sovente si
ritrovava a dipingere, chiedendo all’ospite se ciò
che aveva realizzato fosse vagamente simile a quello che lui aveva
visto dal vivo.
«Sei brava» le aveva
detto un giorno, con il volto immerso nella tela.
«È davvero identica.»
Era uno schizzo della Cattedrale di
Notre-Dame, ch’era nato dalle parole di Fearghus e da qualche
descrizione rubata al drammaturgo francese[⁴]. Abaigeal si sorprese della
facilità con cui riusciva ad utilizzare la pittura per dar
vita a ciò che il ragazzo le raccontava, e nel giro di poco
si ritrovò a parlare con lui di tutto ciò che le
passava per la testa: delle sue paure, dei suoi dilemmi, persino dei
fedeli tabù cui sua madre aveva messo un beneplacito divieto.
Fearghus, dapprima restio e poco incline
ad accettare come compagnia una ragazzina di sedici anni che non sapeva
nulla del mondo, si scoprì ben presto intenerito
dall’ingenuità di lei e del suo mondo,
ch’era ridotto a Sedge Hall e a qualche pezzetto di cariceto.
«Non sogni mai di andartene
via?» le chiese un giorno, mentre la vedeva intenta a
dipingere.
«E dove potrebbe mai andare,
una come me?» Il ragazzo non scorse alcun vittimismo in
quella frase. Era ciò che Abaigeal considerava
realisticamente la verità: la sua incapacità
motoria la inibiva, e chiedendo aiuto a qualcun altro si sarebbe
certamente trovata in difetto, consapevole di quanto potesse
rappresentare un peso il suo handicap.
Fearghus non vi pensava spesso, alla sua
malattia; s’era ritrovato qualche volta a fissare la
carrozzella su cui passava le sue giornate, ma presto divenne quasi
normale per lui trovarsela attorno. Non definì mai quel
sentimento di tranquillità che la ragazza gli trasmetteva,
perché non gli era mai stato insegnato, limitandosi a
credere che fosse ormai necessario alla sua esistenza. Fu in quel modo
che smise di rivolgersi a lei con il nome di Abaigeal e
iniziò a chiamarla Abby, poiché era
più semplice per lui da ricordare e più bello per
lei da sentire. E, per giusto
compromesso, permise alla giovane di smettere di dargli del voi, che
proprio non gli si addiceva.
«Sono un vagabondo»
continuava a dirle, «e tu continui a chiamarmi signore.
Quanti anni pensi che io abbia, mocciosetta?»
Allora la ragazza rideva e Fearghus
s’univa a lei col suo ghigno storto e sciancato, chiedendosi
da quanto tempo non si concedesse al benessere del cuore. Quella pacata
emozione l’accompagnava perfino quando circospetto la
riportava nella sua stanza ed Abaigeal gli chiedeva di raccontargli
un’altra storia, e un’altra ancora,
cosicché dovette iniziare ad inventarsene sempre di nuove
per evitare che scoprisse il trucco: che lui, quelle storie, non le
aveva davvero vissute tutte, ma aveva iniziato a farlo stando con lei.
«Un giorno» gli
capitò di dirle una sera, mentre le carezzava i capelli
rossi, «prometto che ti porterò via da qui,
Abby.»
«Voglio andare a
Belfast» gli rispose con gli occhi socchiusi. «E
voglio vedere il Selciato del Gigante.»
Fearghus si ritrovò,
nonostante tutto, a sorriderle.
Voglio.
Non capitava mai che lo manifestasse così apertamente.
S’era così affezionata a Sedge Hall e ai cinque
sassi del confine della tenuta che non l’aveva mai sentita
chiedere altro, soddisfatta di quel misero coccio di
felicità che l’era stato offerto dalla vita. In
confronto a lei si sentiva tremendamente fortunato, eppure prima di
allora non aveva mai posto la mente al fatidico pensiero: Abaigeal
faceva solo finta che la vita le andasse bene così
com’era, poiché se così non fosse stato
non gli avrebbe mai chiesto di rimanere. Ciò che le
permetteva di vivere era proprio lui, Fearghus. Lui con le sue storie.
Lui con i luoghi in cui era stato e dove lei non sarebbe mai potuta
andare.
Alla palese scoperta, il ragazzo si
ritrovò a trattenere un insolito groppo alla gola,
chiedendosi cosa fosse quel peso sul cuore che gli toglieva il fiato.
«Abby.»
La giovane schiuse un occhio, ma non
rispose.
«Posso darti un
bacio?»
Un sorriso fiorì sulla bocca
sottile, e Fearghus si ritrovò a sfiorarle la fronte con le
labbra secche e raggrinzite dal continuo mangiucchiarsele.
Era bello per entrambi, il tempo
trascorso a Sedge Hall.
⚜
⚜
NOTE:
[¹] Pronuncia:
Fergus.
[²] L’attuale
Kingstown.
[³]
Ai tempi ancora un bambino/adolescente, Fearghus non
conosceva la corretta pronuncia del Colosseo.
[⁴] Victor Hugo.
❝
Lo sclero di ℰver❞
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