Stupida
ma non breve oneshot su un giovane
Tarn che non si
chiamava ancora tale. Spero che apprezziate almeno un po’ :)
La canzone che
troverete
all’interno è questa,
vi consiglio
di ascoltarla prima o dopo la lettura :)
A
light for the lost and the meek
.: Indefiniti eoni nel passato :.
Il
rumore prodotto dalla sua corsa disperata era quello che arrivava
più
chiaramente ai suoi recettori audio, già assordati dalla
pioggia battente di
quella sera disgraziata.
Si
infilò nel primo vicolo buio che vide, acquattandosi tra la
spazzatura e
sperando di non essere trovato.
“Io
non
volevo, non ho fatto apposta. Non volevo disattivargli il braccio,
giuro” pensò
Damus, il giovane robot dalla
carrozzeria arancio, terrorizzato.
Quelle
erano le periferie della città dalla trista fama conosciuta
col nome “Tarn”.
Lui viveva in un settore della città un
po’più tranquillo, si era recato solo
per questioni di lavoro -carico e scarico di certe merci- in quelle
zone, e
stava cercando di tornare a casa quando era stato aggredito da due
completi
sconosciuti che avevano tentato di rapinarlo.
Non era
la prima volta che certi tipi di persone gli davano addosso, anzi. A
volte
aveva persino l’impressione di star andando in giro con un
cartello che diceva
“sono una persona mite che non sa lottare, aggreditemi pure
liberamente” senza
saperlo.
“Me
ne
sto per fatti miei, cammino con la testa bassa e vado per la mia
strada, perché
mi succedono certe cose? Io non avevo fatto niente a quelle persone, io
non
faccio niente di male a nessuno… non potrei nemmeno volendo,
e comunque non
voglio…”
Pensiero
che si scontrava con le sensazioni che aveva provato quando i due tizi
che
l’avevano aggredito gli avevano quasi strappato il pacco
dalle mani. L’ondata
di rabbia che aveva provato in quel frangente era stata tutto il
contrario di
“non voglio far male a nessuno”: in quel momento
aveva desiderato ardentemente
di avere il potere di ribellarsi all’ennesimo sopruso.
Certi
desideri però erano pericolosi, almeno nel suo caso,
perché il potere in
questione c’era. Era nato
col dono
-la maledizione- di poter “spegnere” le macchine e
le parti corporee altrui, ma
farlo gli causava dolore e, oltretutto, non era abbastanza forte
perché fosse
utile, forse perché non aveva potuto cercare di svilupparlo.
Quell’abilità
che non c’entrava nulla con la sua struttura fisica lo
rendeva un outlier, e
gli outlier in quanto tali erano ricercati dal Senato, ragion per cui
era
vitale tenere la testa bassa e cercare di nascondersi da tutto, da
tutti,
sempre.
«Dov’è
andato quello stronzo?! Non possiamo lasciarcelo scappare, consegnarlo
per
farlo arrivare al Senato ci darà un mucchio di
shanix!»
Precisamente
ciò che non era riuscito a fare quella sera, avendo
paralizzato il braccio di
uno dei due aggressori che ora gli stavano dando la caccia.
«Credi
che io non lo sappia, cretino?... eccolo!»
Lo
avevano visto, doveva scappare.
Maledicendo
la carrozzeria arancio spento, ma sempre troppo vistosa, Damus
ricominciò a
correre con la sensazione di essere inghiottito dalle pareti di quei
cunicoli
rischiarati appena da luci bianche intermittenti, capaci di spargere
solo in
modo fioco una luce sinistra sui tubi arrugginiti che si snodavano tra
una
parete e l’altra.
«Sei
lento, outlier! Fai prima a fermarti, lasciare che ti massacriamo di
botte e
andare a farti mettere una testa e delle pinze nuove!»
gridò uno dei due
inseguitori.
Con
sommo terrore, Damus si rese conto di aver sbagliato strada e di
essersi
infilato in una strada senza uscita. Vide la sola possibile salvezza
nella
porta di metallo già mezza arrugginita che riuscì
a buttare giù con una
violenta spallata, e si catapultò dentro quello che si
rivelò essere un
magazzino abbandonato di… combustibile? Sì, era
quel che recitava la scritta
sbiadita e divorata dal tempo sui contenitori che aveva attorno e
dietro ai
quali tentò di nascondersi, senza particolare successo.
Quel
posto tuttavia non poteva ripararlo né dalla pioggia, che
continuava a
picchiare forte su di lui dal tetto semi sfondato, né dai
suoi cacciatori.
«È
finita. Te l’avevamo detto che dovevi lasciar
perdere» ghignarono i due.
«I-io
non ho fatto niente, mi dispiace, non volevo… i-io stavo
solo passando, n-non…
non ho fatto niente» fu tutto quello che riuscì a
dire Damus «N-non ho fatto
niente…»
«Peccato
che a noi “n-non” interessi» lo prese in
giro uno, avvicinandosi «E che
“passerai” nelle mani del Senato. Non che con
l’empurata cambieresti molto,
adesso hai ancora le tue mani e la tua testa, ma sei già un
inutile scarto
disgraziato».
«Del
tutto inutile no, ci pagheranno per questo» lo contraddisse
l’altro, una mano
tesa ad afferrare Damus «Ci pagheranno bene e-»
“Come,
wayward souls
And
wander through
the
darkness…”
Una
voce femminile tranquilla e delicata, ma altrettanto chiara
nell’intonare quella
canzone triste, indusse tutti quanti a sollevare lo sguardo verso
l’alto senza
riuscire a scorgerne la fonte.
«Chi
c’è?!» gridò uno dei due
rapinatori, tentando senza successo di identificare la
quarta persona presente.
“
There
is a light, for the lost and the meek…”
La voce
sembrava muoversi attorno a loro, sempre più vicina in una
spirale discendente,
e tanto i due aggressori quanto Damus iniziavano ad essere
più che inquietati.
Forse
perché avevano ricordato una delle tante voci riguardanti
dei mostri che
giravano in quei luoghi dimenticati da ogni divinità.
“Sorrow
and fear are easily forgotten
When you submit to the soil of the earth…”
Mentre
i due continuavano a guardarsi attorno, Damus vide arrivare la loro
fine.
Due
cavi metallici piuttosto spessi iniziarono ad
avvolgersi
attorno alle loro gole senza ancora sfiorare i delicati cavi del collo,
cercando un punto particolarmente debole nel quale penetrare.
“Grow,
tiny seed
You are called to the trees…”
Lo
trovarono.
I cavi
metallici raddoppiarono, si fecero strada nel collo arrivando nel petto
e ad
uscire dalla loro gola proprio come avrebbero fatto le radici di certe
piante
tecnorganiche.
I suoi
ormai ex aggressori rantolarono, terrorizzati e senza speranza, mentre
altri
due cavi rompevano uno dei loro sensori ottici e, passando
dall’interno,
sbucavano da quello accanto.
“Rise
till your leaves
fill the sky…”
Più
morti che vivi, vennero sollevati leggermente da terra e fatti
ondeggiare
leggermente come se fossero stati marionette.
In
tutto ciò Damus non era riuscito a muoversi, incapace di
distogliere le ottiche
da quello spettacolo orribile, macabro, osceno, spaventoso quasi come
il senso
di soddisfazione che aveva provato per qualche attimo e aveva subito
soffocato.
“Until
your sighs fill
the air in the night…”
I cavi
che avevano divelto le ottiche uscirono dalla testa dei due, andando ad
accarezzare i contenitori di combustibile.
Solo
allora Damus iniziò finalmente a riscuotersi, a
indietreggiare, a provare appieno
il terrore che fino a quel momento l’aveva bloccato.
“Lift
your mighty limbs…”
E,
infine, a correre via con un grido atroce somigliante quasi al lamento
di un
animale ferito dopo aver alzato lo sguardo e aver scorto un mostro, con
un
unico occhio giallo, intento a penzolare a testa in giù
dalle travi metalliche
e le tubature rotte del soffitto.
“
And
give praise to the fire”.
L’ultimo
verso di quella canzone cupa arrivò comunque ai suoi
recettori audio, così come
arrivò il calore delle fiamme, ma a lui in quel momento non
sarebbe potuto
importare meno. Voleva solo andare via da quel posto e raggiungerne un
altro,
uno qualsiasi, uno sicuro, voleva solo togliersi dalla testa quel che
era
accaduto, quei cavi che erano stati come radici, i rantoli e i versi di
terrore
soffocati e disperati, i sensori ottici spinti fuori dalle orbite che
rotolavano sul pavimento bagnato, quella voce nel suo processore che
diceva
“l’hanno meritato”.
Damus
non seppe dire per quanto tempo corse e quanta strada fece, non se ne
rese
conto, proprio come non si era reso conto di aver iniziato a piangere,
singhiozzare mentre si malediva per essere nato in quel modo, outlier e
debole.
Rallentò la corsa solo quanto la stanchezza
iniziò a farsi sentire più
dell’orrore e dello shock, ancora presenti e ancora
palpitanti nella sua
Scintilla verdastra da point one percenter, e le sue gambe iniziarono a
tremare
forte.
Si
sentiva ancora in pericolo, le sue componenti di ventilazione interne
iniziavano a dargli l’impressione di poter collassare e farlo soffocare da un
momento all’altro e
stava per crollare in ginocchio quando i suoi sensori ottici, in tutto
quel
buio, videro la luce potente di una lanterna attraverso un pannello di
vetro:
per la precisione la vetrina di un negozio, sul cui ingresso
campeggiava una
scritta giallastra che diceva “aperto”.
Le sue
gambe si mossero da sole verso quello che il suo processore aveva
classificato
come “posto sicuro”, i passi veloci ma incerti lo
fecero quasi inciampare più
di una volta ma alla fine riuscì a raggiungere la sua
destinazione, aprendo di
scatto la porta appena prima che le sue ginocchia cedessero e lo
costringessero
a trascinarsi sul pavimento fino a un angolo libero, giunto fino al
quale prese
la propria testa tra le mani e chiuse le ottiche, tentando
disperatamente di
tornare a far funzionare regolarmente la sua ventilazione.
I
minuti divennero ore, la concezione di “tempo”
perse significato per Damus,
troppo invischiato in un groviglio di emozioni che non era abituato a
gestire,
non a quel livello.
Quando
finalmente riuscì a riacquisire un po’di
autocontrollo e sollevò lo sguardo,
sobbalzò all’indietro andando a urtare una scatola
il cui contenuto -rocchetti
di fili di tessuto- si riversò sul pavimento.
«C-chi
s-sei?! Cosa...»
La
persona seduta su un divano accanto a lui, una femme blu e magenta con
gli
occhi gialli, rimase immobile e in silenzio.
«Lei
è
il doppio di me. Anche di più».
Damus
si voltò di scatto verso sinistra, in direzione della voce
che aveva parlato,
restando senza parole per qualche momento. Si trattava di una femme, o
meglio,
quel che rimaneva di una femme che doveva aver subito un incidente
terribile o
essere stata vittima di una malattia molto grave.
Il
braccio sinistro della donna era blu e magenta come quello
dell’ “altra”,
quella ancora seduta accanto a lui, così come parte del
petto e una minima
parte del suo bacino. Priva di gambe, sedeva accanto a un tavolo da
lavoro,
intenta ad assemblare parti di bambola bianche terribilmente
somiglianti a
quelle che completavano il suo corpo ove questo non c’era
più. Neppure il viso
era stato risparmiato, l’unica parte
“viva” era quella attorno al sensore
ottico destro dal colore gradevolmente dorato com’era
gradevole l’intreccio
elaborato dei dodici cavi metallici che aveva sulla testa e che
ricadeva lungo
la sua schiena fino a poggiarsi sul pavimento.
«Ma
non
devi avere paura di lei, è solo una bambola. È il
mio lavoro: costruire bambole
in questa valle di lacrime che chiamano
“Tarn”» disse la femme, con la bocca
semiaperta e immobile in una maniera inquietante a vedersi
«Non saprei fare
altro, ma è un lavoro onesto e ci mangio.
C’è chi sta peggio. Come te».
«I-io,
io sto bene. S-sto b-bene. Sì»
farfugliò Damus, cercando di rimettere
rapidamente i rocchetti dentro la scatola. Le mani tremanti
però non lo
aiutavano granché.
«Lo
vedo» replicò l’altra «Hai
appena fatto cadere sette rocchetti degli otto che
avresti voluto rimettere a posto».
«All’Inferno!»
sbottò Damus, sbattendo a terra la scatola e irrigidendosi
subito dopo «N-no,
io… mi dispiace. N-non dovevo farlo,
è-è solo che prima è
successo… è-è
successo che…» cercò di calmarsi,
sentendo un nuovo principio di
iperventilazione «N-niente. Niente. Sono solo inciampato e
caduto nel tuo
negozio. Era aperto…»
«Tre
ore e mezzo fa».
Damus
sgranò i sensori ottici azzurri, poi si strinse nelle
spalle. «T-tre ore e
mezzo?...»
«Già.
Ora il negozio è chiuso» disse la femme, indicando
la spessa serranda metallica
che copriva ingresso e vetrina «Ma direi che sia meglio
così, considerando la
gente che gira».
«La
gente… già» mormorò il mech,
abbassando lo sguardo. Fece una breve pausa di
silenzio «Grazie per… per n-non avermi
cacciato».
«Farlo
sarebbe stato un po’faticoso per me, non sei leggerino. La
tua designazione?»
«Come?...»
«Qual
è
la tua designazione? Come ti chiami?»
«D-Damus»
rispose lui.
«Con
una “d” sola o due?» domandò
le femme, grattandosi il mento con la mano sana.
«U-una»
mormorò il mech aranciato.
«Io
invece mi chiamo Scylla» si presentò lei
«Siediti sul divano accanto al doppio
di me, altrimenti crolli di nuovo».
L’idea
di sedersi accanto a quella bambola estremamente realistica lo
inquietava
molto, tuttavia non si sentì di obiettare.
«Perché dici che… insomma…
“il
doppio di te”?»
«Anche
di più, già solo perché adesso sono
senza gambe. Ero bella una volta, vedi?»
Senza
attendere una risposta, perché evidentemente non ne sentiva
il bisogno, Scylla
e la sua sedia con le ruote scomparvero dietro un separé con
motivi floreali.
Rimasto
solo, Damus osservò bene la bambola accanto a lui. Era stata
fatta con un
materiale diverso dal metallo ma dipinta in modo tale da sembrarlo. Se
davvero
un tempo l’aspetto di Scylla era stato quello, come le parti
corporee che le
rimanevano effettivamente suggerivano, allora era stata bella proprio
come
aveva detto.
Si
guardò attorno. Prima non era nello stato d’animo
di notarlo ma quel posto
straripava davvero di bambole di ogni forma e dimensione e di materiali
di
tanti tipi. Certe bambole erano perfino appese al soffitto,
curiosamente pieno
di ganci oltre che di travi scoperte. Più di una bambola era
vestita con abiti
belli come ne aveva visti soltanto nelle trasmissioni video che
coinvolgevano
la nobiltà di Cybertron. Nonostante ciò, non
riusciva a togliersi di dosso
un’inquietudine che continuava a pungolarlo ogni volta che le
sue ottiche si
incontravano con quelle morte delle creazioni di Scylla.
«Dicono
che le bambole, in quanto esseri privi di vita, la desiderino e
cerchino di
portarla via ogni volta che le si guarda negli occhi. È per
questo che ci sono
persone che ne hanno paura» disse Scylla, ancora
dall’altra parte del separè
«Tu che ne dici?»
«Sono…
loro sono s-solo bambole. Non possono portarmi via nulla»
rispose Damus «Non
possono farmi niente».
Il suo
sguardo cadde nuovamente sul “doppio”.
Aveva
detto quel che aveva detto, ma non era poi così sicuro.
Sentì
dei colpetti sulla mano destra. «Energon extra forte, ne hai
bisogno».
«Grazie»
disse Damus -senza voltarsi, ancora preso dalla bambola- bevendo
qualche sorso.
«Ah,
c’è anche questo. Ti è caduto dalle
mani prima».
Le mani
di Damus strinsero qualcosa di familiare: un pacchetto, per la
precisione
quello che aveva preso in consegna prima di essere aggredito e che
aveva perso
quando i suoi aggressori l’avevano quasi catturato nel
magazzino di
combustibile.
«Grazie!
Se domani pomeriggio non l’avessi portato al
lavoro…»
Nel
magazzino di combustibile.
Lo
stesso dove quei due delinquenti erano morti e al quale poi era stato
appiccato
il fuoco.
«…
avrei passato dei guai» disse il mech, con la voce sempre
più bassa e sottile e
sentendosi ghiacciare l’energon nelle tubature mentre si
rendeva si rendeva
conto che c’era qualcosa che non andava.
Sentì
la presenza di qualcosa accanto al suo recettore uditivo sinistro.
«“
Lift
your mighty limbs/ And give praise to the fire”…»
Panico:
il solo sentimento che controllò i movimenti di Damus da
quel momento in poi,
avendo riconosciuto la voce e la canzone che aveva sentito tre ore
prima.
Scattò
in avanti, cercò di sfondare la porta d’ingresso e
la vetrina senza riuscirci
-erano entrambi infrangibili- e quindi, senza capire cosa stesse
facendo,
afferrò la prima cosa che gli era capitata tra le mani -una
scopa- per poi
brandirla contro la femme.
«S-stai
lontana da me! Non uccidermi! N-Non provare a
uccidermi, ho una…»
guardò la scopa «Ho una scopa! H-ho
u-una…»
Ammutolì
e strinse la scopa talmente forte da trovarsela rotta in mano.
Scylla
era “in piedi”, si stava spostando lentamente e
inesorabilmente verso di lui
penzolando dalle travi grazie a due dei cavi metallici che fino a poco
prima
erano intrecciati.
«Sì,
era la mia scopa. Ora me ne serve una nuova» disse la femme,
con la bocca da
bambola semiaperta e immobile «Però ne valeva la
pena. Se potessi vedere la tua
faccia!» esclamò, e rise. Uno spettacolo mostruoso
«Ho sempre adorato
spaventare la gente ma da quando sono così ci riesco con una
facilità tale da
far cadere la mandibola. Oplà» aggiunse, quando la
mandibola si staccò e cadde
nella sua mano sana.
«T-t-tu…»
balbettò Damus «Tu…»
«Non
iniziare a iperventilare di nuovo, outlier di nome Damus. Ti
è di nuovo caduto
il pacco».
«E-eri
tu!» esclamò il mech «Tu li
hai… tu li hai-»
«Uccisi
impedendo loro di farti finire davanti al Senato.
Sì».
Damus,
comprensibilmente spaventatissimo, sentiva che le gambe erano
nuovamente in
procinto di cedere. «M-ma tu… tu non hai nemmeno
le gambe, hai solo…»
«I
miei
“capelli”, e ringraziamo Primus che li abbia. La
malattia mi ha lasciato metà
del mio corpo, anzi meno, ma grazie ai capelli posso ancora andare al
gabinetto
da sola e fare passeggiate notturne» aggrottò
l’unico sopracciglio che le
restava in un’espressione pensierosa «Si chiamano
passeggiate anche se non ho i
piedi per fare passi? O si chiamano in un altro modo tipo…
“appendate”? “Arrampicate”?
“Capellate”?... capellate, vada per questo, mi
piace».
«Primus»
bisbigliò Damus, sull’orlo di una crisi di nervi
«Primus…»
«È
morto di vergogna da tanto tempo».
«Li
hai
ammazzati… in quel modo!
»
«Non
c’è di che. Se non ci si aiuta tra
noi…»
Confusione
pura apparve nelle ottiche terrorizzate del povero mech aranciato.
«T-tra
“noi”?!»
«Outliers».
Sentirle
dire questo fece sì che, per qualche attimo, la sorpresa
superasse la paura.
«Non sei una outlier, se lo fossi non lo diresti con tanta
facilità a un
estraneo, considerando quel che succede a noi outliers se…
se ci scoprono».
«Sei
l’ultimo che ha interesse a parlare di outliers a
chicchessia, mi pare. Perché
non ti siedi di nuovo? Lì fuori ci sono cose molto peggiori
di un’invalida
grave» gli fece notare Scylla, rimettendosi a posto la
mandibola.
Damus
esitò non poco ma infine, capendo di non avere scelta,
tornò a sedersi. Non
distolse gli occhi da lei neppure un momento, neppure quando vide
Scylla
indossare uno dei ricchi abiti delle sue bambole.
«È
uno
dei miei preferiti» disse lei.
Il mech
rimase in silenzio.
«Ero
in
giro per una delle mie capellate notturne quando ho visto quei due
inseguirti e
chiamarti “outlier”» iniziò a
raccontare la femme «Ero nel vicolo senza uscita
che hai imboccato. Ho concluso che il cosmo poteva fare a meno di
simili infami
e che erano abbastanza deboli perché potessi occuparmene. In
verità avresti
potuto farlo anche tu da solo, non sei una corazzata da guerra ma
quelli erano
molto meno robusti di te».
«Io
non
posso» mormorò Damus «N-non sono in
grado e comunque… e comunque io non devo
attirare l’attenzione. Se sei una outlier sai
perché».
«Non
attirare l’attenzione non significa andare in giro con
l’aria da “massacratemi
di botte e rubatemi anche l’armatura”. Siamo nei
sobborghi di Tarn, non nel
centro di Crystal City» gli ricordò Scylla
«E sebbene sia vero che quel che è
capitato non è colpa tua e che una persona dovrebbe poter
girare tranquilla a
prescindere, non è così e non lo sarà
mai. Se non impari a reagire finirai
male».
«Io
non
ho i capelli da omicidio» borbottò Damus, con gli
occhi bassi «Tu sì».
«Io
ho a
malapena mezzo corpo, tu ce l’hai intero».
Silenzio.
«Qual
è
la tua abilità da outlier, Damus?»
«Spengo
le macchine e paralizzo le parti corporee delle persone»
disse lui, dopo
un’esitazione «Ma mi fa male se lo
faccio».
Scylla
alzò l’ottica al soffitto. Quell’unica
parte sana del suo viso era dannatamente
espressiva. «Hai mai preso in considerazione l’idea
di usarla per difenderti?»
«Non
posso
attirare l’attenzione».
«Non
potrai nemmeno avere qualcuno a proteggerti sempre nel caso succeda
ancora, ti
scoprano e cerchino di consegnarti al Senato. La mia abilità
da outlier invece è
vedere quale sarà l’aspetto di una persona nel
futuro».
«Allora
mentivi, come pensavo! Non è qualcosa che abbia un
fondamento scientifico,
erano solo chiacchiere!»
«Lo
pensavo anche io quando mi sono guardata allo specchio andando avanti
di pochi
anni e mi sono vista in queste condizioni. Non ci avevo
creduto» fece
spallucce, per quanto poteva «Ora ho cambiato idea».
«Tu…
tu
vuoi tenermi qui, vero? Quando sei andata di là hai chiamato
qualcuno che a
breve verrà a prendermi, vero?! Vuoi consegnarmi e farti
pagare per avere delle
gambe nuove, giusto?!»
Lo
stato mentale di Damus continuava a essere tesissimo e pericolosamente
tendente
all’isteria ma era comprensibile dopo quel che era capitato e
considerando
dove, e con chi, si trovava.
«Eventualmente
preferirei una valvola nuova, la malattia se l’è
portata via insieme a ogni
desiderio di interfaccia. Ormai ho scordato come ci si sente a farne
una.
Niente di grave, comunque».
«Tu
vuoi farmi del male! Io lo so!» esclamò il mech,
senza ascoltarla minimamente
«Hai terminato quei due per non dover dividere il bottino!
Hai-»
La
sberla che ricevette lo fece restare immobile per qualche secondo.
«Terapia
d’urto» sentenziò la femme, poggiando la
mano sinistra sulla guancia
leggermente ammaccata del mech «Sei davvero così tanto spaventato da qualcuno senza un
braccio e senza le gambe,
Damus?»
«Forse.
Un po’».
Scylla
annuì. «Sono contenta di sentirlo».
«Cosa?!»
Lei
sollevò il sopracciglio. «Cosa?»
«Tu…
n-niente. Niente» borbottò lui, squadrandola con
una certa diffidenza.
La mano
della femme si posò sulla sua spalla. «A parte gli
scherzi, non ti farò niente
e non venderei mai un outlier come me. Non so se il tuo lavoro ti
porterà altre
volte da queste parti ma sappi che questo per te sarà sempre
un posto sicuro… forse!»
esclamò, avvicinandoglisi di scatto con i cavi metallici
sollevati in posa
d’attacco e ridendo di gusto quando lui, per sobbalzare,
batté la testa contro
la parete.
«Vai
all’Inferno! Tu hai dei problemi, va bene?!»
sbottò Damus «Hai dei grossi
problemi, e per quanto tu sia solo una patetica cosa
mutilata che si trascina quelli fisici non sono i peggiori!»
«E
quindi?»
Damus
ammutolì, tanto perché si era appena reso conto
della cattiveria che aveva
detto quanto perché a lei, della cattiveria in questione,
non importava
alcunché. «M-mi spiace. Ho perso… ho
perso il controllo. Scusami».
«Io
ti
sto spaventando di proposito da prima e tu ti scusi per aver detto
delle
ovvietà? Sei un caso disperato. Spero che prima o poi ti
darai una svegliata»
sospirò lei «Pacchetto».
«Cos…
ah. Grazie» disse Damus, prendendo il suo pacchetto da uno
dei cavi metallici
di Scylla.
La
femme, agganciandosi alle travi e ai tubi del soffitto, si
allontanò. «Domani
mattina quando riaprirò potrai andare, intanto ricaricati
pure, per oggi ti ho
spaventato abbastanza. Quel che ti ho detto sul posto sicuro resta
valido».
«Aspetta».
Scylla
si fermò.
«Tu
hai
detto che puoi vedere l’aspetto futuro delle persone.
Potresti…» Damus esitò
«Potresti vedere come sarà il mio?»
La
femme lo guardò a lungo.
«Oh»
disse, in modo assai poco incoraggiante «Oh! Molto
meglio» esclamò poi, in un
tono ben più sollevato «Ad avere una valvola
ancora funzionale ti avrei chiesto
di darmi una botta in futuro».
«Tutto
qui? Non intendi dire altro?!»
«Non
ti
aiuterebbe a evitare quel che ti aspetta».
«Mentivi»
sentenziò Damus «Non sei una outlier e non hai
quel potere».
«Se
-o
quando- ci incontreremo ancora per la prima volta quando avrai il tuo
aspetto
più bagna valvole ti regalerò una bambolina
piccola di te stesso. A quel punto
mi saprai dire se mentivo o meno. Andata?»
«Sì.
Certo. Sicuro» sospirò Damus, iniziando a sentirsi
molto stanco.
«Domani
mattina potrai anche scegliere la tua bambola da settantacinque
shanix» disse
poi Scylla «Te ne ho lasciati venticinque perché
non si sa mai».
«C-cos…
mi hai rubato settantacinque shainx?! Mentre ero sotto shock
nell’angolo,
magari?!»
«Non
è
un furto: è un auto pagamento con annessa vendita coatta di
bambola» replicò
Scylla, senza negare il momento in cui era avvenuto il furto
«’Notte».
«Scylla!...
andata» borbottò, vedendola
scomparire dietro il separé.
La
stanchezza ormai era tale che Damus non aveva neppure voglia di
arrabbiarsi,
solo di svegliarsi nel proprio letto scoprendo che tutto quel che aveva
vissuto
quella sera era stato un orribile incubo.
“Come,
wayward souls
And
wander through
the darkness…
”
«Uccidimi
domattina» disse il mech ad alta voce «Non ho
abbastanza energia neanche per
strillare spaventato».
«Ah
già, è vero. Sono abituata a cantarla e non ci ho
pensato. Era la preferita di
nonna» disse Scylla da dietro il separé.
«Davvero?»
«No.
L’ha composta mio padre».
«Almeno
questo è vero?» insistette Damus, senza reale
interesse, con le ottiche in
procinto di chiudersi.
«No.
Era in un vecchio riproduttore di musica. Ti piace la musica,
Damus?»
«Sì,
soprattutto… la Empyrean Suite di
Eucryphia»
mormorò, prima di chiudere definitivamente le palpebre.
Il
mattino dopo, quel mech aranciato che in futuro sarebbe diventato Tarn -il temuto leader della DJD, il
lealista più fervente di Megatron e della dottrina
Decepticon- se ne andò con
una bambola da settantacinque shanix che Scylla diceva di aver
modellato sulle
fattezze di una nobildonna di Iacon: era bianca e color serenity, con
occhi
azzurri, decorazioni dorate sul corpo e sul volto, e un abito rosa
pastello.
La
tratta di lavoro che era stata assegnata a Damus lo portò
molte altre volte in
quei sobborghi e tornò molte altre volte nel negozio di
Scylla, comprendendo
come quello fosse davvero un posto sicuro per lui…
nonostante continuasse a pensare
che quella femme avesse dei grossi problemi nel suo continuare a
tentare di
spaventarlo -riuscendoci ogni santa volta.
Le
parole di quella femme, “Non potrai nemmeno avere qualcuno a
proteggerti sempre
nel caso succeda ancora, ti scoprano e cerchino di consegnarti al
Senato”,
purtroppo si rivelarono profetiche pochi anni dopo. La strada di Damus
si
incrociò con quella del Senato e fu sottoposto a empurata.
Pur immaginando che
Scylla non avrebbe avuto problemi con la sua nuova condizione, non
riuscì mai a
presentarsi nuovamente nel suo negozio -non ridotto com’era.
Dal
momento dell’empurata in poi iniziò la sua
discesa… o l’ascesa, a seconda dei
punti di vista. Il mech che divenne in seguito aveva ben poco in comune
con
Damus, l’outlier che non voleva attirare
l’attenzione e non sapeva come reagire
a chi gli dava addosso…
O
così
piaceva pensare al mech in questione.
.:
Il
presente :.
Quella
passeggiata nei sobborghi di Tarn era anche una passeggiata nel viale
dei
ricordi per… Tarn.
Era quasi
ironico che ora il suo nome fosse quello della città
dov’era nato e cresciuto.
“Piove
perfino” pensò.
Un
tempo si sarebbe sentito spaventato e teso camminando in quei vicoli
bui che
avevano subito relativamente pochi cambiamenti rispetto ad eoni
addietro
nonostante la guerra, ora invece non provava altro se non totale
tranquillità
e… una punta di soddisfazione, una punticina appena, nel
vedere correre via
spaventati anche mech più grandi di lui.
Lui e
la sua squadra si erano recati in quella città per
cancellare un nome dalla
Lista e, compiuto il loro dovere, aveva sentito il desiderio di fare
una
camminata da solo. I suoi uomini e Nickel, pur ignari del suo passato,
non
avevano avuto problemi né domande a riguardo.
Iniziò
perfino a canticchiare a bocca chiusa l’Empyrean Suite,
lasciandosi trasportare
dai propri piedi in strade che aveva imparato a conoscere a menadito,
quando
notò di essere arrivato a un incrocio familiare.
La
tranquillità provata fino a quel momento scomparve,
lasciando il posto all’immobilità
e a due impulsi contrastanti in maniera snervante.
Non
vedeva Scylla da moltissimo tempo, non sapeva neanche se fosse viva, se
fosse
morta, se si trovasse ancora lì o fosse andata ad abitare da
qualche altra
parte. Ricordando di non essersi più presentato
dall’empurata in poi, non
sapeva neppure come si sarebbe sentito vedendo il suo
negozio… o le macerie.
Poi si
ricordò che quell’insicurezza non faceva parte del
nuovo se stesso, decidendosi
quindi ad andare avanti.
“L’edificio
è ancora in piedi” constatò dopo un
po’, accorgendosi con fastidio di star
contraendo ritmicamente le dita di entrambe le mani per la tensione.
Giunse
a destinazione. Nella vetrina c’era ancora la lanterna
circondata di bambole e
sull’ingresso c’era ancora la familiare scritta
luminosa e giallastra che
recitava “aperto”: significava che lei era ancora
lì, ora come in passato.
Cosa le
avrebbe detto? Cosa gli avrebbe risposto lei?
Poi
ricordò una cosa fondamentale: nessuno, a parte Megatron,
Shockwave e se
stesso, sapeva chi era stato in passato, e ormai era talmente diverso
che
neppure la sua stessa madre l’avrebbe riconosciuto se fosse
stata in vita.
Poteva entrare, fingere di voler dare un’occhiata alle
bambole -quella da
settantacinque shanix ce l’aveva ancora, era nei suoi
quartieri privati- e
andarsene via.
Prese
coraggio e aprì la porta.
“Come,
wayward souls
And
wander through
the darkness
There
is a light, for the
lost and the meek…
”
Dicevano
che il passato era “passato” e non contava nulla.
Chi
osava dire una simile menzogna forse non ne aveva avuto uno degno di
alcuna
importanza.
“Sorrow
and fear are easily forgotten
When you submit to the soil of the earth.
Grow,
tiny seed
You are called to the trees
Rise
till your leaves fill the sky
Until
your sighs fill the air in the night…
Lift
your mighty limbs…”
Un
pensiero attraversò il processore di Tarn: era tutto uguale,
inclusa la voce di
Scylla, e tutto diverso rispetto ad allora, perché lui era
cresciuto proprio
come l’albero tecnorganico di quella canzone.
“And
give praise to the fire”.
Lei era
dietro il separè, sempre lo stesso, quello con i motivi
floreali, e Tarn la
vide uscire sulla sua sedia con le ruote per mostrarsi al nuovo cliente.
Stava
per salutarla come cortesia voleva, ma non ebbe il tempo.
«Come
avevo detto: ad avere una valvola funzionale, adesso ti chiederei di
darmi
quella botta di cui parlavo anni fa. Alla buonora, Damus»
disse la femme «Il
modo in cui ti sei presentato qui dopo un silenzio tombale durato eoni,
pur
avendo il mio contatto, mi fa cadere le braccia» e
infatti il braccio
destro di bambola cadde «Oplà».
«Allora
era vero. Tu avevi davvero visto il mio aspetto futuro» disse
Tarn, avvicinandosi
lentamente a lei «Empurata inclusa».
«Sei
tu
che non mi hai dato retta quando ti avvertivo che saresti finito male,
con l’atteggiamento
che avevi» replicò la femme, tirandosi su grazie
ai “capelli” agganciati al
soffitto «Anche se sei finito male solo per un
po’».
Lui non
disse niente né si mosse quando Scylla, come quella notte di
eoni addietro,
poggiò la mano sana sul suo volto -ora coperto
dall’iconica maschera.
«Ti
spavento ancora un po’, Damus?»
«Per
niente».
Scylla
annuì.
L’ottica buona sembrava felice. «Sono contenta di
sentirlo».
Uno dei
cavi metallici porse a Tarn una scatola, che il Decepticon
aprì senza
esitazione.
«La
tua
bambola. Te la promisi, ricordi?»
Una
riproduzione in scala del suo aspetto attuale, estremamente fedele
all’originale.
Gli ultimi
rimasugli di dubbio riguardanti il fatto che lei l’avesse
visto in passato
svanirono completamente, ma non svanirono le emozioni contrastanti che
lo
stavano spingendo a volersene andare in fretta da lì.
«Ovvio».
«Ora
posso morire in pace» sospirò la femme, con voce
sempre più esile «Ho mantenuto
la mia parola. Addio, Damus».
«Cosa-»
Scylla
perse la presa sulle travi e cadde a terra come un corpo morto, o una
bambola
inanimata.
Dopo qualche
secondo di stupore, Tarn si chinò rapidamente, la
tirò su e iniziò a scuoterla
leggermente, dimentico di ogni nozione di pronto soccorso.
«Scylla!
Che ti prende? Di’ qualcosa! Reagisci!» la scosse
ancora «Il suo corpo è
freddo, va’ a vedere che…»
Era offline.
Era andata
offline all’improvviso, non tra le sue braccia ma quasi; non
era quel che Tarn
avrebbe voluto ed era quanto di più lontano da
ciò che aveva previsto. Che la
malattia avesse continuato ad avanzare? Poteva essere, in fin dei conti
lui non
si era mai informato sulle sue condizioni. Avrebbe dovuto. Avrebbe
potuto.
Avrebbe-
La
morta, che evidentemente tanto morta non era, balzò in
avanti con un verso
stridulo, e Tarn dopo un’esclamazione di sorpresa -e un
po’di spavento- la
lanciò via.
«Dovevi
vedere la tua faccia!» rise di gusto la disgraziata.
«Me
ne
vado. Me ne vado prima di terminarti sul serio come avresti meritato da
un
pezzo!» disse
Tarn, duro, raggiungendo
la porta a grandi passi.
«Già
che ci sei puoi comunicare a Tesarus che la sua bambola sarà
pronta tra pochi giorni
e verrà spedita a breve?... il tuo soldato ha trovato il mio
sito in rete,
sissignore» aggiunse Scylla, vedendo lo stupore nelle ottiche
di Tarn «Sì, so
che è un tuo soldato. Sì, so anche come ti chiami
adesso. Ti ho riconosciuto
appena ho guardato una tua immagine, avendoti visto in passato».
«Immagino
di non dovermi sorprendere. A sorprendermi di più
è Tesarus, non credevo avesse
interesse per le bambole».
«Erotiche».
«Ah.
Sì. Beh. Addio»
concluse Tarn,
attraversando la soglia.
Non era
un vero addio, sapeva che presto o tardi sarebbe finito a tornare
lì per
qualche motivo. Certi elementi del passato non cambiavano mai ma non si
aveva
neppure il reale desiderio di lasciarli andare e quel negozio, con
quella
lanterna che quella sera gli era sembrata una fonte di salvezza, era
proprio
tra quegli elementi.
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