Cinquecentoquattro
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Diana apre la
porta lentamente e si intrufola nella stanza in
silenzio. Come se potesse disturbare. Come se qualcuno se ne potesse
accorgere.
Quando chiude
l’uscio il suo sguardo cade sul letto
d’ospedale e diventa un po’ più triste.
Non è cambiato niente e lei, che un po’
ci sperava, ci rimane male.
Ogni volta che
viene qua, pensa di trovare qualcosa di
diverso. Diverso dall’azzurro delle pareti, diverso dal
candido letto, diverso
dalla foto che ha appoggiato sul mobiletto che fa da comodino, diverso
nell’uomo inerme disteso fra le lenzuola.
I suoi occhi
sono stanchi, ma sorride. Ha il viso scavato e
probabilmente questa notte non l’ha passata serenamente.
Anzi, di sicuro. Sono
quattro mesi che non riposa. Quattro mesi che si sveglia di notte e
allunga la
mano verso la parte vuota del letto e sospira, non trovando il marito.
Quando
si rende conto che è successo davvero e che non è
stato un sogno, piange. E
piange tutte le notti.
È
doloroso vederla così. Doloroso, ma necessario.
Si avvicina al
letto e accarezza il viso al marito
chiedendogli come sta. Lo fa tutti i giorni. E riesce anche a
sorridergli. Non
si aspetta più una risposta, ma glielo chiede tutti i
giorni. A volte porta un
fiore, un soprammobile, un ninnolo fatto da Andrea, loro figlio, e lo
appoggia
sul mobiletto, vicino alla foto di loro tre, raccontando un aneddoto, o
una
cosa nuova che è successa.
Diana
è veramente in gamba e non si dà mai per vinta.
Lo so
perché la conosco dai tempi
dell’università. L’ho incontrata la
prima volta nel
corridoio che porta all’aula di storia e mi sono innamorato
di lei a prima
vista.
Si china a
baciare la guancia fredda del marito e poi si
siede sulla sedia accanto al letto, prendendogli la mano. A volte se la
porta
al viso, a volte la bacia. L’altro ieri, invece, se
l’è posata sul ventre. Con
le lacrime che scendevano sulle guance gli ha parlato del bambino che
sta
aspettando. Il loro bambino.
Un bambino di
cui suo marito non sa niente. E non conoscerà.
Quando ha scoperto di essere incinta è stata molto
combattuta: una donna sola, con
un figlio di sei anni e un marito in coma, avrebbe potuto crescere un
bambino
serenamente? Ci ha riflettuto tanto e a volte pensa di aver fatto la
scelta
sbagliata, infatti non l’ha ancora detto a nessuno.
È
rimasta incinta il giorno prima dell’incidente del marito.
Ci ha messo più di un mese per accorgersene. Più
un altro mese per decidersi a
rendersene conto e accettare la realtà.
Quattro mesi fa
suo marito è stato investito da un’auto
pirata e non è più stato cosciente. Ora riposa su
quel letto, sdraiato, senza
bisogno dell’aiuto di niente per rimanere in vita. Eppure non
sta vivendo. Giace
lì, con gli occhi chiusi, come se dormisse. Ma non dorme:
è in coma. Hanno
parlato di coma in stato vegetativo,
ma non è totalmente esatto. A dir la verità non
sanno neanche loro spiegare
bene la sua situazione. L’ho sentito mentre ne parlavano due
dottori in un
momento che Diana non era presente.
Loro non lo
sanno spiegare bene. Loro no, ma io sì.
Io che da
quattro mesi sono in questo angolo a osservare la
stanza. A controllare ogni cosa. A vedere i giorni che passano senza di
me. Io
che sono stato investito sulle strisce pedonali da una Mercedes grigia
che è
scappata. Io che posso osservare il mondo ma non farne parte. Io che
non
resterò qui per sempre.
Non avrei dovuto
essere qui, a dir la verità. Avrei dovuto
morire in quell’incidente. Morire sul colpo e non
risvegliarmi più. Invece no.
Lui è lì, su quel letto. Lui
perché
non posso proprio dire di essere io.
Quando
quell’auto mi ha investito ho chiuso gli occhi per
sempre. Ho pensato, in quei pochi secondi, a Diana e Andrea e ho chiuso
gli
occhi, consapevole di non riaprirli più. Ma non me ne sono
andato. Non ho
potuto.
Appena ho chiuso
gli occhi, ho visto quello che sarebbe
successo. Ho visto il dolore di Diana, le lacrime di Andrea, la
tristezza di
amici e parenti. Ho visto che le loro vite sarebbero andate avanti e
loro, pur
ricordandomi per sempre, avrebbero accettato la mia morte e vissuto del
mio
ricordo. E il bello è che a me stava bene. Davvero. Mai
avrei voluto che
piangessero per sempre o che non riuscissero più a vivere
senza di me. Ma…
Ma ho visto il
futuro. Questo bambino che Diana aspetta, il
nostro bambino, avrebbe potuto aiutarla a superare il dolore, aiutarla
a
distrarsi e continuare a vivere. Se non fosse che Mattia, il piccolo
che porta
in grembo e di cui ancora non sa neanche il sesso, è malato.
È malato di atresia
biliare che è una malattia insidiosa e difficile da curare.
Fra l’altro i
dottori non si accorgeranno della sua malattia subito e questo,
purtroppo,
porterà uno spreco di tempo indicibile. Ma chi sono io per
lamentarmi? Nessuno.
Nessuno se non un uomo, che non si sveglierà mai
più, in un letto.
Ma sono un uomo
che può salvare suo figlio da morte certa. Un
bambino con una compatibilità quasi nulla con il resto del
mondo. Ma io sono
suo padre e posso essere utile: il mio fegato lo salverà. E
allora sono qui.
Qui a vegetare in un letto, aspettando che il tempo trascorra e a dare
il
tormento alla mia famiglia.
Perché
se fossi morto, loro se ne sarebbero fatti una
ragione. Ma perdere il piccolo Mattia sarebbe un dolore insormontabile
e non riuscirebbero
più a riprendersi.
Così,
quel giorno, ho fatto un patto con il diavolo: starò
qui, qui a guardare questa stanza mentre la vita va avanti. E conto i
giorni:
ne sono passati centoventitré e ne mancano ancora
cinquecentoquattro.
Cinquecentoquattro giorni.
Cinquecentoquattro
mattine, cinquecentoquattro pomeriggi e
cinquecentoquattro sere. Fino al giorno in cui potrò aprire
gli occhi, vedere
chiaramente mia moglie per l’ultima volta, e dirle:
“Prendimi. Sono rimasto per
lui”.
E poi
morirò davvero, il macchinario accanto a me
sibilerà e
verrà dichiarata la mia morte celebrale. E la mia vita
potrà salvarne un’altra.
Ma ora sto solo
aspettando e aspetterò ancora
cinquecentoquattro giorni.
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***Eccomi con un altro contest! Stavolta la storia doveva riguardare
qualcuno che avesse una malattia/sindrome/avuto incidente insomma che
riguardasse la sua salute.
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