⚔️
Era stato un errore, uno dei
peggiori che potesse commettere.
Se l’avesse saputo non si sarebbe certo messo alla ricerca di
quel mito della malora. Se ne sarebbe rimasto a pulire fino
all’ultima insipida particella di pulviscolo che aleggiava
nella
vecchia biblioteca della Shibusen. Avrebbe sistemato i libri sugli
scaffali in ordine cronologico e l’altra metà in
ordine
alfabetico. Avrebbe grattato via la muffa dai tomi più
vecchi e
riverniciato le pareti consumate dall’umidità.
Black Star sarebbe stato disposto persino a scrostare via dal bancone
del bibliotecario tutte le fottute chewing
gum che
puntualmente lo schifoso panzone appiccicava sotto al legno della
scrivania, come uno studentello da quattro soldi che non avesse voglia
di alzarsi per buttarle nel cestino dell’aula.
E invece no. Era lì, in quella grotta umidiccia e fangosa,
con
una sottospecie di bipede dal discutibile colore bianco tendente al
giallo – della stessa tonalità dei moribondi
mangiati
dall’ittero – e gli occhi allucinati di chi abusava
un
po’ troppo di marjuana. Come se non bastasse già
il
bizzarro e grottesco aspetto, la creatura portava un cappello
più alto della sua stessa statura ed un fastidiosissimo
bastone
che continuava a puntargli contro, attentando in continuazione alla sua
pazienza – non che il meister
ne avesse molta. In pratica, quell’irritante gargoyle gli
pareva
la misera riproduzione d’un formichiere travestito da mago.
Black Star s’era ritrovato quel coso
davanti perché aveva impugnato piuttosto incautamente la
splendente elsa, forgiata dal giallo sfolgorante tipico
dell’oro.
V’era stata un’immensa luce che aveva illuminato la
grotta
buia, sbattendo con violenza lungo le ombre delle stalattiti e
riflettendosi nell’acqua stagnante. Avrebbe potuto aspettarsi
di
tutto: un demone, un angelo, un messia. Ed invece era apparso lui.
— E tu saresti la Sacra Spada? — aveva farfugliato
tentando
di contenere una risata, ancora ignaro di chi si trovasse davanti.
— Conciato in quel modo? È patetico.
Excalibur aveva sbuffato con nonchalance, puntandogli il bastone contro
e rispondendogli con tono imperioso: — Scusa se mi permetto,
ma
in quanto a look tu hai ben poco da criticare.
Black Star, la cui indole era votata esclusivamente alla piena
consapevolezza della sua forza, non sapeva ancora che la superbia non
fosse un vizio esclusivo della sua persona, ma che potesse esprimersi
anche attraverso altri individui. In quel caso, altri esseri.
— La mia leggenda comincia nel Dodicesimo secolo —,
esordì la Sacra Spada, interrompendo la presentazione del
ragazzo che aveva tentato di dirgli il suo nome. — Tu sembri
essere un meister,
da dove vieni?
Black Star tentò di fare appello al suo buonsenso,
limitandosi a
spostare il bastone che il formichiere giallognolo continuava a
sbattergli contro. — Piantala di puntarmi quel bastone
addosso.
Comunque vengo dalla Shib…
— Lo so! — Excalibur lo interruppe ancora.
— Voglio mostrarti una cosa.
Il meister
accigliò lo
sguardo, concedendosi d’osservare lo stravagante animale
mentre
camminava, rimanendo in realtà sempre nello stesso punto.
— Non sente neanche quello che gli si dice —,
mormorò innervosito, ignaro che – a dirla tutta
–
anche lui non fosse un campione ad ascoltare gli altri compagni.
Excalibur si girò nuovamente verso il ragazzo, puntandogli
ancora una volta l’asta contro. Black Star, se fosse stato
abbastanza vicino, gliel’avrebbe volentieri spezzata in due.
— Vuoi conoscere la mia leggenda? — gli chiese, tra
le minacce del meister
che continuava ad ammonirlo sul togliere quel fottuto bastone.
—
È una storia eroica! — continuò, poi
chiese:
— Allora, da dove vieni?
— Ti ho già detto che vengo dalla Shibusen.
— Qual è il tuo numero preferito da uno a dodici?
Quella domanda pareva non aver senso – come tutte le cose che
Excalibur aveva detto fino a quell’istante – eppure
Black
Star rispose con un sicuro: — Mi sembra così
ovvio! Non
può che essere l’uno, proprio come me. Io sono il
numero
uno!
Che il giovane dai capelli cianotici fosse ormai consacrato alla hybris[¹]
era già cosa nota a tutta la gente della Shibusen, che ormai
considerava il meister
alla stregua d’un fanatico superbo e immodesto, convinto che
non
potesse esistere nessuno migliore di lui – nonostante la sua
inconsapevolezza di non essere certamente il migliore del mondo, cosa
che Tsubaki non faceva altro che ripetergli. Per cui non fu semplice
per Black Star rimanere impassibile di fronte alla voce autoritaria e
insopportabile del triste omuncolo, mentre asseriva con dispotica
fermezza: — Sei un cretino.
Excalibur gli puntò ancora una volta il bastone verso il suo
naso. — Non hai alcun diritto di scegliere! — Poi,
con la
solita aria che forse era ancor più altèra di
quella di
Black Star, ripeté: — La mia storia comincia nel
Dodicesimo secolo.
— Ma prima mi hai chiesto il mio numero preferito!
— biascicò tra i denti il meister,
trattenendo un ringhio dovuto alla frustrazione.
La Sacra Spada scaraventò il bastone contro di lui.
— Vuoi conoscere la mia leggenda o no?
La prima vena pulsante spuntò dal nulla sulla tempia del
ragazzo, che sibilò: — Ti ho detto di piantarla
con quel
maledetto bastone.
La seconda apparve sullo zigomo, quando sentì Excalibur
ripetere: — La mia leggenda comincia nel Dodicesimo secolo.
— La terza sorse sull’altra tempia quando lo
sentì
cianciare su cosa bevesse la mattina, il pomeriggio e la sera prima di
coricarsi.
— Un bicchierino? — lo interruppe il ragazzo,
prosciugato
da ogni energia. — Mi sembra adatto per un vecchietto come te.
— Cretino! — lo rimproverò la spada.
— La serata comincia mettendomi il pigiama!
All’inizio Black Star s’era imposto di trattenere
la risata
per la grottesca figura che gli era apparsa davanti. Eppure, in quel
momento l’ilarità che aveva provato prima aveva
ceduto il
passo ad un’inquietante ira, ch’era uno di quei
vizi che
non aveva mai davvero sperimentato. Ammesso che ne avesse mai provati
altri, oltre alla superbia. — Tutto questo non
c’entra un
bel niente.
— Cretino! — Excalibur scrutò il ragazzo
con quei
suoi assurdi occhi fatti solo di pupille. — Sai
cos’è questo cappello?
— Che?
— Ti ho chiesto se sai cos’è questo
cappello!
— Come faccio a saperlo, scusa?
— Cretino! Allora se non lo sai te lo dirò io!
— Con
un’aura incredibilmente austera nonostante la sua
schifosamente
ridicola altezza, la spada continuò con gravità:
—
Più è alto il cappello di uno chef,
più è
grande lo chef.
— Quindi stai cercando di dirmi che sei un grand…
— Cretino! Io non sono uno chef!
Black Star si convinse a ritrattare tutto quello che aveva pensato
della Sacra Spada fino a quell’attimo: Excalibur non era
affatto
posseduto dalla superbia. Era solamente il più grande
imbecille
che avesse mai incontrato – il che, da un certo punto di
vista,
era persino consolante.
— Lo sai che non hai un minimo di coerenza?
—
domandò retoricamente, consapevole di non potersi irritare
più di tanto con quel folle omuncolo. D’altronde,
era
convinto che i pazzi andassero sempre assecondati in una maniera o
nell’altra.
— È per questo che non sopporto i paesani
—,
asserì infine il formichiere giallo, voltandogli le spalle.
— Dopotutto, non sono il migliore del mondo. Anche se penso
che
nessuno sia meglio di me.
Che
nessuno sia meglio di me.
Che
nessuno sia meglio di me.
Che
nessuno sia meglio di me.
— Bastardo! — Fu tutto quello che uscì
dalla bocca
di Black Star, mentre la rabbia prendeva il sopravvento e la furia
mandava al diavolo la sua discutibile pazienza. Non aveva mai
conosciuto un essere così sorprendentemente insoffribile e
indigesto, ed una parte di sé arrivò persino a
chiedersi
se lui apparisse in quel modo agli occhi dei compagni. Non sapeva come,
ma se fosse davvero stato così, avrebbe dovuto trovare ben
più d’una maniera per scusarsi con loro.
— Ti odio
con tutto me stesso! Sacra Spada un cazzo! Questa merda di libro
è completamente inaffidabile! — Strinse tra le
mani il
tomo, controllando l’autore e sorprendendosi di trovarci
scritto
sopra il nome della spada incriminata. — L’hai
scritto tu?!
Excalibur gli puntò il bastone contro. — Non
rilascio autografi.
⚔️
S’accorse che persino la sua risata supponente gli stava
sulle
palle: non avendo una bocca, quel formichiere giallognolo si limitava
ad un grugnito scomposto e decisamente poco opportuno, che tuttavia
aveva la singolare caratteristica di far incazzare Black Star ben
più di quanto sarebbe stato in grado di fare quel secchione
di
Kid. Se il figlio di Shinigami fosse andato con lui, almeno in quel
momento sarebbero stati in due a soffrire.
Invece il discendente della Stella era solo, ed in mano stringeva una risma
intera di fogli che, come il loro proprietario, parevano ingialliti a
causa della muffa e dell’umidità. Si
ritrovò a
sfogliarne qualcuno, incapace di comprendere a cosa servissero e
soprattutto titubante su che razza di assurdità ci fossero
scritte sopra. Il meister
alzò un sopracciglio diffidente, mentre si concedeva alla
scialba lettura dei numeri scritti in cima al primo foglio, volgendo
poi lo sguardo verso la Sacra Spada. — Che diavolo sarebbe?
Excalibur si limitò ad ignorare la domanda, mentre con le
pupille dilatate si lanciava in un appassionante sermone sui vari
compiti di un maestro d’armi. Black Star, che di certo non
spiccava per sagacia e capacità di concentrazione, si
limitò a concepire l’ingrata omelia come una
noiosissima
lezione del professor Stein, mentre la sua mente vagava alla ricerca
del perché si trovasse lì con quel ridicolo
omuncolo.
Avrebbe potuto fare molte altre cose quella mattina: allenarsi,
studiare in vista dell’esame, aiutare Tsubaki con la pulizia
della biblioteca. Invece s’era fatto infinocchiare da Kid
sulla
ricerca dell’arma più potente di tutte, dannandosi
per non
essere stato abbastanza lungimirante da non rendersi conto che
Excalibur sarebbe potuto essere una fastidiosa palla al piede, col
vizio dell’egocentrismo e con quel suo fottutissimo bastone
che
gli avrebbe volentieri infilato in ogni posto dove non battesse il sole.
Il meister
non s’era mai
troppo interrogato sul concetto di superbia. Forse perché
essa
costituiva una parte della propria indole, o forse più
semplicemente perché per lui essere arrogante e sicuro di
sé non aveva mai costituito davvero un problema, al
contrario.
Considerava la sua presunzione come un vantaggio, un punto da cui
partire per poter sminuire chi gli stava di fronte. Non s’era
premurato di migliorarsi, perché non ve n’era mai
stato
bisogno: sapeva – e questo per via della sua incrollabile
sicurezza – che gli altri non gli avrebbero rimproverato in
nessun caso quella condotta, che in situazioni di pericolo
s’era
persino rivelata utile, se non indispensabile.
Black Star, così pieno di sé che avrebbe dovuto
esser
alto almeno altri due metri per poter contenere tutta la presunzione
della sua anima, non s’era mai trovato dalla parte di chi gli
stava di fronte. Lo provò solo in quell’istante,
mentre
Excalibur continuava ad ammorbarlo con la storia della sua esistenza,
perdendosi nei meandri della sua mente contorta e che si dilettava a
passare rapidamente in rassegna tutte le sue discutibili e fantasiose
esperienza di vita – ammesso che fossero vere,
perché al meister
non parevano poi così convincenti.
Quell’arma, che gli pareva possedere il suo stesso vizio[²],
rasentava il perfetto individuo da cui stare alla larga, e nonostante
questo Black Star si sorprese di quanto gli somigliasse: considerarsi
il migliore e credere che non potesse esistere nessuno capace
d’essere in gamba almeno quanto lui; era questa la
prerogativa
che più li accomunava. E la cosa risultava così
fastidiosa che persino Dio s’era rifiutato di mandarli
all’Inferno, condannandoli a quel limbo chiamato Purgatorio
ch’era prerogativa di quelli che in vita avevano scelto il
proprio ego a scapito di una vita umile[³].
Black Star, in quel momento, si sentì proprio come le
cariatidi
descritte dal Sommo Poeta, con un pesante fardello sulle spalle che
sembrava soffiargli all’orecchio: “Visto? Questa
è
la tua punizione.”
— Cretino! — sentì gridare
all’improvviso. — Non stai prestando attenzione!
Sai che ora è?
Il meister
lo fissò imbambolato, perso nelle sue deprimenti
elucubrazioni. — Cosa?
— Ti ho chiesto se sai che ora è.
— Non ho un orologio.
— Cretino! — Excalibur gli puntò il
bastone contro. — Torniamo al compito numero cinque.
— Quanti diavolo di compiti sono? —
sbiascicò stanco
il ragazzo, certo di non aver mai provato prima quel senso di
affaticamento.
— Cretino! Non hai ascoltato. I compiti sono mille.
I compiti
sono mille.
I
compiti sono mille.
I
compiti sono mille.
— Ma tu sei completamente pazzo! —
ringhiò iracondo il meister,
buttando al vento la risma di fogli che, per qualche strano scherzo
della mente, stringeva ancora tra le mani. — Chi cazzo vuoi
che
prenda sul serio questa cretinata? Hai idea di quante altre armi
esistono nel mondo?
— Cretino! — Excalibur si concesse ad
un’altra
supponente risata, mentre il riflesso dell’acqua stagnante
gli
rigava il volto d’un giallo sempre più acceso,
rendendolo
la perfetta allegoria del peccato col quale Black Star sembrava
scontrarsi. — Potrò non essere l’arma
migliore del
mondo, ma penso che non ne esista nessun’altra migliore di me!
— Che diavolo vuoi che m’importi se sei
l’arma
migliore? — Il ragazzo digrignò la mascella e
dilatò le pupille, contenendo il fumo che sembrava uscirgli
dalle narici e che lo rendeva simile a un cinghiale pronto a caricare.
— Sei un rompiballe colossale, non sopporto di vederti un
secondo
di più!
Gli voltò le spalle, deciso a prendere la via del ritorno.
Era
certo che, di lì a poco, il suo cervello avrebbe avuto
un’embolia se non fosse stato abbastanza scaltro da sfuggire
al
molesto formichiere; ma nonostante i suoi sforzi, la voce di Excalibur
si fece più imperiosa, dicendogli: — Ehi tu! Non
vuoi
diventare il meister
più forte?
Certo che lo voleva. Passava la maggior parte dei giorni ad allenarsi
come un folle, impiegava ore per cercare d’imparare
–
seppur senza molto successo – ad essere un bravo assassino,
aveva
persino dedicato gran parte del suo tempo ad ascoltare le infinite
prediche di Tsubaki, che puntualmente lo sgridava per la sua
discutibile condotta. Black Star non aveva mai bramato altro nella vita
se non la consapevolezza d’essere il migliore di tutti,
celando
il suo obiettivo dietro ad una facciata fintamente buonista e
mostrandosi per ciò che era solamente nei momenti
più
difficili. Quel suo spietato orgoglio era il sintomo più
genuino
della sicurezza che nutriva verso sé stesso, eppure in
quell’istante – per la prima volta –
vacillò.
Excalibur, con lo sguardo dilatato e il bastone puntato contro il suo
naso, sembrava la personificazione della sua stessa indole e Black Star
si ritrovò a pensare che ciò che si portava
dentro
facesse davvero schifo, se aveva assunto le fattezze d’un
fastidiosissimo formichiere giallo col cappello e il bastone, simile a
una brutta copia d’un triste cabarettista di squallidi locali
notturni.
— Più forte un cazzo, —
sbottò infine il meister,
che iniziava a percepire un’insolita spossatezza, —
non ho
alcuna intenzione di farmi venire un esaurimento per causa tua! Vattene
al diavolo!
Si voltò, sguazzando ancora una volta per la stessa via
dalla
quale era venuto. A nulla valsero i compromessi che Excalibur
tentò di negoziare, accettando persino di ridurgli gli
ingrati
compiti. Black Star non si voltò mai a guardarlo, e in
quella
sua decisione l’orgoglio non sembrava avere voce in capitolo:
il meister
era semplicemente distrutto, incapace di pensare ad altro che non fosse
tornarsene alla Shibusen.
Quando si ritrovò di fronte al grande palazzo, il suo
sguardo
riuscì a stento a tollerare la fiamma gialla delle candele,
di
quella lucentezza che gli ricordava l’essere molesto che
aveva
appena abbandonato nella caverna. Tsubaki, come un cane che aspettasse
fedelmente il padrone, era di fronte al portone con quella sua solita
aria innocente e trasognante.
— Black Star! — la sentì chiamare, con
il tono di
chi era visibilmente preoccupato. — Ma dove sei stato?
Il meister
afferrò
saldamente le spalle sottili e morbide della sua arma, ch’era
il
gesto più simile ad un abbraccio che avesse mai potuto
concederle. — Tsubaki.
— Sì?
— Sono stato in Purgatorio.
Tsubaki lo fissò, sbarrando lo sguardo in preda alla
confusione.
Sapeva quanto fosse pericoloso contraddire Black Star,
perciò si
limitò a domandargli: — E… E
com’è
stato?
Black Star ripensò ad Excalibur, ai piagnistei, ai continui
battibecchi, alle storie inventate e ai mille compiti trascritti in
duplice copia sulla risma di fogli. Poi si concesse al ricordo
più angosciante: quella risata molesta gli
riecheggiò
alla mente come l’eco distorto d’un terrificante
incubo.
Storse il naso, concedendosi ad una smorfia tormentata.
— Un inferno.
Fine
NOTE:
[¹]
Un topos (tema ricorrente) della tragedia greca e della letteratura
greca. Significa letteralmente "tracotanza", "eccesso", "superbia",
“orgoglio” o "prevaricazione". Si riferisce in
generale a
un'azione ingiusta o empia avvenuta nel passato, che produce
conseguenze negative su persone ed eventi del presente. È un
antefatto che vale come causa a monte che condurrà alla
"catastrofe" della tragedia {Wikipedia}.
[²] Riferito appunto alla superbia,
che erroneamente viene definito peccato, ma in realtà
è appunto un vizio.
[³] Riferimento
alla Divina Commedia
di Dante Alighieri.
【Angolino
di
ℰver】
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