Disclaimer:
alcuni
personaggi che appariranno in questa storia sono comuni e/o
APPARTENGONO alle
serie di Kim WinterNight, Black
Hole
e Martin&Joe.
Le trame dei nostri personaggi si intersecano, per questo motivo
l’autrice originale
MI HA AUTORIZZATO a utilizzare i suoi personaggi!
Beh,
ma quassù non
vi posso dire chi apparirà, altrimenti vi rovino la sorpresa
XD
Forgotten
Roots
Feci il mio ingresso
in cucina, gettai un’occhiata allo
schermo del televisore su cui – come al solito –
scorrevano le scene di una
serie tv crime, poi posai lo sguardo su mia madre che stazionava sul
divano, un
occhio rivolto alla tv e l’altro su una pila di documenti non
meglio
identificati.
Accennai un sorriso e
mi piazzai davanti al ventilatore
acceso, tirandomi indietro i capelli. Faceva davvero caldo.
“Non
sarà mica arrivato il momento di tagliarli?”
commentò mia madre, sfogliando alcuni fogli.
“Non esiste
proprio” ribattei, attorcigliandomi attorno
all’indice destro un boccolo ramato.
“Allontanati
dal getto d’aria: non ti fa bene starci
davanti se sei sudato” mi rimproverò, e le
sopracciglia sottili le si
aggrottarono.
Sbuffai e non mi mossi
di un centimetro, continuando a
fissarla con insistenza.
Forse avrei dovuto
approfittare di quel momento di
quiete; da lì a poco, lo sapevo, sarebbe scoppiato il
putiferio.
Dopo circa un minuto,
mia madre sospirò e sollevò gli
occhi verdi e stanchi su di me. “Quel sorrisetto e quello
sguardo fisso non mi
piacciono. Cosa mi devi dire?”
Ecco. Ora non potevo più tirarmi indietro.
Stirai ancora di
più le labbra, sperando di assumere
un’espressione innocente e credibile. “Io? No,
niente di che.” Lasciai
trascorrere alcuni istanti di silenzio. “Sai, stamattina ho
chiamato nonna
Joanne per farle gli auguri di compleanno…”
“Ah
sì? Come sta?” domandò lei
distrattamente.
Non faceva certo i
salti di gioia quando sentiva nominare
la sua ex suocera o qualsiasi altro componente della famiglia di mio
padre, ma
non mi aveva mai impedito di mantenere i contatti.
“Tutto bene,
era molto felice di sentirmi. Dice che in
Montana non succede mai niente di bello o nuovo, soprattutto
d’estate. E che le
farebbe molto piacere rivedermi, dopo tutti questi anni.”
“Ah,
bene.” Mamma si sistemò gli occhiali da vista
sulla
punta del naso con un gesto frettoloso e riprese a sfogliare il
fascicolo che
aveva in mano.
Mi grattai appena la
testa e continuai a scrutarla, nella
speranza di leggere qualche emozione sul suo viso. “In
effetti è da un po’ che
non la vedo… da quando avevo cinque anni. E mi piacerebbe
visitare il Montana,
visto che non ci sono mai stato. Potrei addirittura approfittarne
quest’estate,
non credi? Visto che ho litigato con Jia e tutte le mie amiche sono in
vacanza…”
“Non se ne
parla nemmeno. Perché invece non utilizzi
queste settimane di noia per recuperare i debiti in matematica e
biologia?”
Continuai a sorridere.
“Sapevo che l’avresti detto.”
“Bene, e io
spero che mi darai retta” aggiunse lei.
“Peccato che
io abbia già promesso a nonna che tra una
settimana sarò da lei” buttai fuori tutto
d’un fiato, mantenendo il solito
sorrisetto.
Mia madre
sollevò il capo di scatto e mi trucidò con
un’occhiata. “Cosa?!”
“Ecco
perché non te l’ho chiesto prima: sapevo che non
mi
avresti mai dato il permesso!” ammisi.
Lei si
passò una mano sulla fronte, scompigliando quelle
ciocche bionde che erano sfuggite alla coda di cavallo.
“Prima o poi mi farai
venire un esaurimento nervoso…”
“Dai, non
è mica così grave!” cercai di
stemperare
l’atmosfera, tuffandomi sul divano accanto a lei.
“Ormai gliel’ho promesso, povera
nonna Joanne, si sente così sola e annoiata nel
Montana, ci tiene così
tanto a rivedermi…”
“E con le
materie che devi recuperare come la mettiamo?”
“Porterò
i libri con me!”
“E chi ci
crede che studierai?”
Mi accostai a lei e
poggiai la testa sulla sua spalla,
regalandole un’occhiata supplicante. “Ti prego,
mamma! Io sono l’unico che non
va mai in vacanza da nessuna parte, è così noioso
passare l’estate da solo!”
“Lo sai che
in Montana ci vive anche tuo padre, vero?”
“E chi se ne
importa? Tanto è probabile che nemmeno mi
riconosca” minimizzai.
“Esiste un
modo per dissuaderti?”
“Non credo
proprio.”
Mia madre
sospirò. “Sei un demonio,
Randy…” disse in tono
arrendevole.
Lanciai un grido e le
saltai al collo, lasciandole un
bacio sulla guancia e facendo cadere a terra i fogli che teneva
poggiati sulle
ginocchia. “Grazie, sei la mamma migliore del
mondo!”
Lei mi spinse via,
fingendosi infastidita, ma sorrideva
sotto i baffi. “Non farmene pentire! Se non recuperi i debiti
a scuola, dalla
miglior mamma del mondo mi trasformerò nel peggiore dei tuoi
incubi, quindi non
abusare della mia bontà!”
“Non te ne
pentirai” le assicurai, alzandomi dal divano e
dirigendomi verso il frigo. Aprii lo sportellino dei freezer e vi
frugai
dentro, beandomi del fresco ristoratore che si sprigionava
dall’elettrodomestico. “Ti va un gelato?”
Non appena scesi dal
treno, tutte le mie speranze si
infransero: avevo sperato che in Montana facesse meno caldo rispetto
alla
California, ma quell’anno pareva che l’estate non
volesse darci tregua.
Sotto il sole cocente
del pomeriggio, trascinavo il mio
grande trolley con la mano sinistra mentre con la destra armeggiavo col
mio
cellulare, intenzionato a consultare il GPS per capire come arrivare a
casa di
mia nonna. Lei non aveva l’auto e non poteva venire a
prendermi al momento del
mio arrivo, così l’avevo rassicurata dicendole che
non sarebbe stato poi così
complicato arrivarci a piedi; del resto abitava in un piccolo paese, il
tragitto non doveva essere tanto lungo.
Mentre passeggiavo per
le stradine strette e dall’asfalto
crepato, mi guardai attorno: non c’era poi tanto da
osservare, se non i negozietti
con le porte spalancate da cui si propagavano frammenti di
conversazioni
allegre, le abitazioni dallo stile antico baciate dal sole e la piazza
principale piena di bambini e ragazzini impegnati nei loro giochi.
La casa di nonna
Joanne era situata in una tranquilla e
periferica zona residenziale: quando giunsi nel punto indicatomi dal
navigatore
del cellulare – sudato e col fiatone – mi trovai
davanti a un basso cancelletto
in ferro, oltre il quale si poteva scorgere un grande giardino
stracolmo di vasi,
arbusti e alberi rigogliosi; un vialetto conduceva
all’ingresso della casa, che
consisteva in un portoncino in legno scuro.
La tipica casa di una
nonna. Non che io avessi tantissima
esperienza sull’argomento, ma a giudicare da quello che avevo
sempre visto in
tv doveva essere così.
Non feci nemmeno in
tempo a suonare il campanello che
l’uscio si spalancò e una donna dai capelli grigi
e il sorriso raggiante si
precipitò all’esterno con l’entusiasmo e
l’energia di una ragazzina, nonostante
le rughe che le raggrinzivano la pelle chiara.
Dei capelli rossi che
ricordavo dall’ultima volta che
l’avevo vista non era rimasto niente, ma i suoi occhi
nocciola brillavano come
se non fosse invecchiata nemmeno di un giorno.
“Randy,
nipotino mio! Stavo cominciando a preoccuparmi!”
Mi aprii in un enorme
sorriso mentre nonna Joanne
spalancava il cancello e mi stringeva in un caloroso abbraccio. Fui
costretto a
mollare la presa sul trolley, che cadde all’indietro
sull’asfalto, ma nessuno
ci fece veramente caso.
“Ehi,
nonna!” la salutai io, sciogliendo l’abbraccio e
guardandola dritto negli occhi.
“Quanto sei
cresciuto! L’ho sempre saputo, da quando ti
ho visto in fasce per la prima volta: saresti diventato uno schianto!
Quanti
anni hai adesso?” esclamò.
Mi chinai per
raccogliere il mio bagaglio. “Ne devo
compiere diciassette a dicembre. Ehi, ma quale schianto!”
“Ma certo
che lo sei, come potevi uscire brutto con una
nonna come me?” si posò una mano sul petto con
fare tronfio e ridacchiò. “Ah
già, diciassette anni… sei del ’97,
dico bene? Perdonami, ma la matematica non
è mai stata il mio forte: ci avrei messo mezza giornata a
fare il calcolo.”
“Allora
oltre alla bellezza mi hai trasmesso anche questo
tratto” commentai, trascinando la valigia su per il gradino
basso che delimitava
il giardino.
Nonna Joanne, con un
movimento fulmineo, afferrò la
maniglia del trolley e lo sollevò di peso. “Lascia
fare a me, lo porto
direttamente in camera tua.”
Sgranai gli occhi,
preoccupato. “Ma è pesantissimo, e tu
sei anziana!”
Lei scoppiò
a ridere. “Ho soltanto settantun anni,
anziana non direi proprio. Su, vieni dentro: ho
preparato la macedonia
fresca!”
Ed effettivamente,
mentre trasportava il trolley sul
vialetto, non notai nessun segno troppo evidente di fatica sul suo viso.
Quella donna era una
forza, sicuramente alla sua età
sarei voluto essere come lei.
“Come mai
dici che ti ho passato l’ignoranza per la
matematica?” indagò una volta
all’interno dell’abitazione.
L’ambiente
era accogliente e assolutamente delizioso: le
tende alle finestre lasciavano passare solo uno spiraglio di luce,
l’aria
condizionata era al massimo e i quadri alle pareti mostravano paesaggi
di mare
e romantici tramonti. I mobili – sia quelli
dell’ingresso che quelli della zona
giorno – erano in legno scuro; mi sorpresi nel notare che i
soprammobili non
consistevano nelle classiche cianfrusaglie dal dubbio gusto e centrini
in
pizzo, ma si trattava di oggetti esotici che parevano provenire da
terre
lontane e avevano tinte calde e allegre.
Pensai, anche se non
ne avevo la certezza, che nonna
Joanne avesse viaggiato tanto e gran parte delle chincaglierie esposte
fossero
souvenir delle sue avventure. Sicuramente, nel corso delle due
settimane che
avrei trascorso da lei, avrei avuto modo di chiederglielo.
“Beh, mi
hanno lasciato il debito in due materie
scientifiche quest’estate, quindi mi toccherà
studiare per recuperare” spiegai,
prendendo posto sul divano bordeaux.
Nonna Joanne
posò sul tavolo un insalatiere in ceramica,
poi si voltò a osservarmi, sconcertata. “Non
gliel’hanno spiegato agli
insegnanti che l’estate è fatta per riposarsi?”
Risi. “A
quanto pare no.”
“E tu sei
voluto venire qui per sfuggire a questa
tortura, dico bene?”
Scossi il capo.
“In realtà mi sono portato dietro i
libri. Se non passo gli esami e dovrò ripetere
l’anno, a mia madre verrà un
infarto!”
“E a te non
importa?” Nel frattempo versava due porzioni
di macedonia colorata in due ciotoline in vetro.
Mi strinsi nelle
spalle. “Mi dispiacerebbe dover cambiare
classe, ma a parte questo non è che mi interessi poi tanto
della scuola. Non so
bene cosa farò da grande, ma sicuramente non avrà
a che fare con lo studio!”
“Per esempio
seguire le orme di Celia e diventare un
pattinatore?” chiese ancora, accostandosi a me e porgendomi
ciotola e
cucchiaino, poi si sedette al mio fianco.
Anche la
curiosità doveva essere una caratteristica di
famiglia: nonna Joanne aveva il mio stesso modo di sommergere di
domande chi
aveva di fronte.
Scossi il capo mentre
gustavo il primo boccone di frutta.
“In realtà no. Cioè, a me piace
pattinare, ma non sono così tanto preso come
mamma o certi altri ragazzini che vengono agli allenamenti. Insomma,
loro
vogliono fare gli agonisti, mentre a me non va di impegnarmi; certe
volte
faccio degli spettacoli in giro per Los Angeles, soprattutto
d’inverno, ma non
partecipo ai tornei.”
Già, il
pattinaggio su ghiaccio era l’ennesima attività
in cui non mettevo veramente il cuore. Certe volte capivo mia madre e
la sua
disperazione nei miei confronti: non doveva essere facile per lei
vedere che
suo figlio, a quasi diciassette anni, non aveva alcuna aspirazione per
il
futuro.
Ma io che ci potevo
fare?
“Tu non hai
un sogno, Randy?”
Giocherellai con
alcuni pezzetti di fragola e mela con la
punta del cucchiaino. “Non saprei. Avere tanti amici e vivere
in una casa
vicino al mare, tutto qui.” Poi sollevai lo sguardo e la
scrutai, un sorrisetto
curioso sulle labbra. “E tu, nonna, ce l’hai un
sogno?”
“Oh, io ne
ho tantissimi! Mi piacerebbe
innanzitutto visitare l’India, in cui non sono mai stata. E
imparare a fare
surf; magari una volta verrò da te in California e allora
sarà la buona
occasione per cimentarmi!”
Scoppiai a ridere.
“Ma alla tua età non si può fare
surf!”
“E chi
l’ha detto? Non avrò più
l’età solo quando sarò
nella tomba!”
Continuai a
ridacchiare e un rivolo di succo zuccherino
della macedonia mi colò lungo il mento.
“E poi
vorrei ridipingere le pareti esterne della casa di
azzurro e diventare bisnonna” aggiunse con enfasi.
“Ah, non
guardare me, non ho nessuna intenzione di figliare
a breve!” mi tirai subito indietro con una risata.
Continuammo a
chiacchierare e fare merenda finché, circa
mezz’ora più tardi, il suono del campanello
annunciò delle visite.
Rimasi seduto sul
divano mentre nonna Joanne andava ad
aprire. Sentii delle voci concitate nell’ingresso –
un uomo, una bambina e mi
parve di udire anche una donna – che non mi erano familiari;
tuttavia, quando i
nuovi arrivati fecero il loro ingresso nella zona giorno, mi fu tutto
chiaro.
Un uomo sui
quarant’anni, spaventosamente simile a me,
teneva per mano una bambina che non doveva avere più di
dieci anni; li seguiva
una donna dall’età non meglio definita e
l’aspetto curato in maniera maniacale.
Il cuore prese a
martellarmi nel petto, ma mi sforzai per
mostrarmi indifferente e presi a giocherellare con cucchiaino che
ancora
stringevo in mano.
Certo, sapevo che
nell’arco di due settimane sarebbe
potuto succedere, ma non potevo immaginare che quell’incontro
sarebbe avvenuto
così presto e senza alcun preavviso.
Non appena
l’uomo posò lo sguardo su di me, gli occhi gli
si appannarono di confusione e si grattò appena la testa,
come se stesse
cercando di ricordare qualcosa di estremamente lontano e sfocato.
Non avevo
tutti i torti quando ho detto a mamma che
non mi avrebbe riconosciuto.
“Ciao”
salutai educatamente, allungandomi per poggiare la
ciotola vuota sul tavolo.
“E tu chi
sei?” sbottò la bambina, sgranando gli occhioni
azzurri come quelli della donna che le stava alle spalle.
“Beh…
diciamo che sono… tuo fratello, più o
meno” cercai
di spiegare, sorridendo appena.
“Ma…
Randy, non ci posso credere!” esclamò quello che
avrei dovuto chiamare padre.
Lo fissai dritto negli
occhi – non avrei certo abbassato
la testa di fronte a lui – e nelle sue iridi lessi sorpresa,
un pizzico di
nostalgia e… vergogna? Poteva essere?
No, improbabile. Non
si era vergognato quando, dodici
anni prima, aveva abbandonato me e mia madre sparendo nel nulla,
dubitavo che potesse
cominciare in quel momento.
Forse si sentiva a
disagio per via della presenza della
nuova famiglia che si era costruito nel frattempo, con una donna molto
più
bella di mia madre e una figlia molto
più carina di me. O forse si
vergognava di me, che ero l’esperimento uscito male, e adesso
come poteva
spiegare la mia esistenza a quell’angioletto dagli occhi blu
e completamente
agghindato di rosa?
Io sapevo poco e
niente della nuova famiglia di Giles
Baker, ma non ero certo che per contro loro sapessero qualcosa di me.
Sorrisi a
quell’uomo con lo sguardo da eterno bambino.
Dopotutto non ero neanche arrabbiato con lui, non lo ero mai stato; ero
cresciuto felice e contento con mia madre, ogni giorno era uno spasso,
e non
avevo mai sentito la mancanza di un padre. Non avevo nulla da
rimproverargli,
se non che aveva fatto soffrire mamma.
“Credici,
invece. Sono io!” Feci spallucce e, sforzandomi
di risultare il più naturale possibile, mi alzai per
stringere la mano alla
donna che era rimasta sulla soglia, impalata e confusa.
“Piacere, Randy Baker,
il tuo… figliastro, in un certo senso. Sapevi della mia
esistenza, sì?”
“Amanda”
mormorò lei, ricambiando la stretta senza troppo
entusiasmo. “Sì, certo che ne ero a
conoscenza.”
Mi sentii tirare per
il bordo della maglietta e fui
costretto ad abbassare lo sguardo, trovando gli occhioni della bimba
vestita di
rosa che mi fissavano.
“Quindi tu
sei l’altro figlio? Quello di
prima?”
chiese, un’espressione scettica dipinta sul visino delicato.
“June! Ma ti
sembra il modo di attirare l’attenzione di
una persona che hai appena conosciuto? Vieni qui, piccola peste, che te
lo
spiego io!” la richiamò all’attenzione
nonna Joanne, sistemandosi sul divano e
battendo con la mano sul posto vuoto accanto a lei.
Mi voltai a scrutarla
e lessi le scuse nel suo sguardo.
Probabilmente non sapeva nemmeno lei che avrebbe ricevuto quella visita
dalla
famiglia di mio padre, non aveva potuto avvertirmi in tempo.
O forse non
l’aveva fatto semplicemente perché non
immaginava che si sarebbe creata una situazione così
imbarazzante.
Sorrisi bonariamente,
come se avessi la situazione sotto
controllo – nulla di più lontano dalla
realtà. “Tranquilla nonna, non
c’è
problema. Posso spiegarglielo anch’io.”
Detto questo mi
diressi verso il divano, seguito a ruota
dalla mia sorellastra che prese posto tra me e nonna. Per fortuna il
sofà era
abbastanza grande da accoglierci tutti.
Gettai una veloce
occhiata a mio padre e Amanda che
parlottavano fittamente in un angolo della stanza, poi tornai a
concentrarmi
sulla bambina. “Ti chiami June, giusto?”
“Sì,
e tu?”
“Io mi chiamo Randy e, come già avevi capito, sono
il figlio che il tuo papà ha
avuto prima di conoscere la tua mamma. Vivo in California, per questo
non ci
siamo mai visti” spiegai pazientemente.
June mi
scrutò attentamente con un’espressione serissima
in volto, come se mi stesse studiando nei minimi dettagli. Ebbi
l’impressione
che, oltre quel fiocco rosa tra i capelli e la maglietta ricoperta di
cuoricini, si nascondesse un severo giudice.
Intanto nonna Joanne,
notando che i toni tra suo figlio e
la sua compagna si facevano più accesi, aveva lasciato il
suo posto per unirsi
alla loro conversazione.
Ero solo con June.
“Mmh…
sei un tipo strano, sembri un po’ scemo”
sentenziò
infine lei.
Sorrisi, cercando di
non prendermela troppo. “Me lo
dicono in tanti.”
“E poi hai
tutti i denti storti. Tua madre non te l’ha
fatto mettere l’apparecchio? La mia mi ha detto che quando
compirò undici anni,
se i denti saranno storti, mi porterà dal dentista che me li
aggiusterà!”
Bisognava ammettere
che i signori Baker non avevano fatto
un gran bel lavoro con l’educazione della figlia. Se io, alla
sua età, mi fossi
permesso di dire una cosa del genere, sicuramente non l’avrei
passata liscia
con mia madre.
“Ma i denti
storti non sono una cosa così brutta. E poi
per raddrizzarli ci vogliono tanti soldi, sai?” ribattei,
tentando di mantenere
un tono condiscendente.
June sorrise.
“Ah, ma noi i soldi ce li abbiamo, non è un
problema! A maggio, quando ho compiuto nove anni, i miei genitori mi
hanno
organizzato una festa bellissima con i giochi gonfiabili, i giocolieri quelli
veri e le persone che truccano i bambini sulla faccia, e
c’erano tutti i
miei compagni di scuola. Ed è costato tantissimi
soldi!”
Aggrottai la fronte,
ripensando alle modeste festicciole
che organizzavamo a casa quando ero piccolo e a cui si presentava solo
una
manciata di bambini, perché io ero sempre stato quello
sfigato e il mio
compleanno non interessava a nessuno. Poi ripercorsi mentalmente il mio
ultimo
compleanno: io, mamma e Jia eravamo andati al giapponese a strafogarci
di
sushi, poi avevo trascinato la mia migliore amica al cinema assieme ad
alcune
mie compagne di classe. Nulla di così esaltante.
Com’è
che Giles Baker aveva tanti soldi da sperperare per
la sua seconda figlia, mentre a me non aveva mai dato un centesimo?
“Randy? Oh!
Mi stai ascoltando? L’hai capito quello che
ti ho detto?” June mi strattonò per un braccio,
riscuotendomi dai miei
pensieri.
“Sì,
ti stavo ascoltando. Ma fai piano, altrimenti mi
strappi la maglietta.” Cominciavo a essere leggermente
indisposto
dall’atteggiamento di quella bambina.
In genere avevo molta
più pazienza, ma nell’ultimo
periodo stavo cominciando a essere insofferente a tutto – la
lite con Jia ne
era testimonianza, non avevamo mai trascorso così tanto
tempo senza sentirci e
parlare.
“E tu quanti
anni hai, Randy?”
“Sedici.”
“E cosa fai,
vai a scuola?”
“Sì,
certo.”
“Io ho dei voti altissimi a scuola! La mia maestra dice che
sono la più brava
della classe dopo Sophie Landers, ma secondo me non è vero,
perché Sophie in
matematica ha un voto più basso del mio.”
Sospirai e mi alzai
dal divano, passandomi una mano tra i
capelli per portarli indietro. Improvvisamente, nonostante il
condizionatore
acceso, sentivo l’aria pesante e viziata.
“Dove
vai?” domandò June.
“Fuori.”
“Ma fuori
c’è caldo!”
“Ma io vivo a Los Angeles e sono abituato al caldo”
inventai, dirigendomi verso
la porta che dava sull’ingresso.
Fui quindi costretto a
passare davanti a mio padre, che
richiamò la mia attenzione sfiorandomi appena un braccio.
Sussultai e mi voltai
a fissarlo.
Lui si
schiarì la gola, in imbarazzo. “Come sta
Celia?”
Questa era bella! Da
quando si interessava di mia madre?
Sorrisi forzatamente.
“Alla grande!” affermai, poi cercai
lo sguardo di nonna Joanne. “Ti spiace se vado a fare una
passeggiata?”
“Puoi fare
tutto quello che vuoi” ribatté lei, ostentando
entusiasmo, ma le era bastato incrociare i miei occhi per capire che
qualcosa
non andava.
Salutai
frettolosamente e uscii, lasciandomi alle spalle
quella gabbia di matti.
Forse anche quello
– l’incoerenza, il distacco, la
convinzione che fosse tutto un gioco, il poco impegno in ogni relazione
e in
ogni attività – era una caratteristica di
famiglia. Mia nonna in primis dava
l’impressione di non prendersi mai troppo sul serio, viveva
con leggerezza e
coltivava un sacco di speranze, spesso pure irrealistiche.
Poi c’era
mio padre, che aveva sposato mia madre del
tutto a caso, aveva fatto un figlio senza essere pronto. Poi ci aveva
ripensato
e aveva mollato tutto a Los Angeles per tornare in Montana e
ricominciare da
zero; non che nel frattempo avesse imparato a fare il genitore, bastava
guardarlo negli occhi per capire che non era affatto cresciuto e non
avrebbe
mai imparato a prendersi le sue responsabilità.
E poi c’ero
io, quel ragazzino che cadeva sempre dalle
nuvole, che non aveva un obiettivo nella vita e che non era capace di
odiare il
prossimo – quindi non riusciva mai a difendersi. Ero come
loro, come potevo
criticarli?
E dopotutto non
detestavo nemmeno mio padre, la sua nuova
donna e la sua seconda figlia, anche se avrei dovuto. Non mi importava
di
niente.
Ero solo preoccupato
per me, perché non volevo commettere
i loro stessi errori.
Seduto su una panchina
in ferro al margine della piazza,
gustavo il mio gelato alla vaniglia e stracciatella mentre osservavo i
ragazzini giocare tra loro, al centro del grande spiazzo. Il tardo
pomeriggio
aveva lasciato spazio a un po’ d’aria fresca e
respirabile.
Dal chiosco dei gelati
proveniva della musica,
principalmente hit di quell’estate, che faceva da sottofondo
alle grida e alle
risate dei bambini.
Non c’erano
tanti miei coetanei nei dintorni, solo un
gruppetto di ragazzini sui quattordici anni radunato attorno a una
panchina. Di
tanto in tanto qualcuno di loro mi lanciava delle occhiate, sicuramente
incuriositi dall’arrivo di un ragazzo che nessuno aveva mai
visto prima da
quelle parti. Doveva funzionare così nei piccoli paesi come
quello.
In ogni caso nessuno
aveva il coraggio di avvicinarsi a
me: dovevo essere davvero inquietante e ridicolo, coi riccioli
scompigliati, la
maglietta verde acqua macchiata di gelato alla vaniglia –
proprio come un
bambino – e la faccia di uno che aveva appena affrontato un
viaggio stancante
ma non aveva ancora avuto modo di riposarsi.
E quella volta, a
discapito della mia naturale
propensione a fare amicizia, li ringraziai dal profondo del cuore per
avermi
lasciato in pace. Ci sarebbe stato tempo, più avanti, ma
quel giorno non ne
avevo tanta voglia.
Sbloccai lo schermo
del mio cellulare, aprii la finestra
delle chat e sospirai quando l’occhio mi cadde sulla
conversazione con Jia, che
non veniva aggiornata da due settimane. Mi dispiaceva tantissimo aver
discusso
con lei, non era mai successo prima di allora, ma certe volte sapeva
davvero
rendersi detestabile e nemmeno io riuscivo a far fronte alla sua
chiusura e al
suo carattere scorbutico.
Mi sarebbe piaciuto
poter aprire quella conversazione e
registrare un lungo vocale in cui le raccontavo ciò che mi
era successo, come
spesso succedeva tra noi. E invece ero completamente solo, e forse per
la prima
volta, senza nessun contatto e in un luogo che non conoscevo affatto,
mi
sentivo davvero perso.
Proprio io, che sapevo
sempre come cavarmela e riuscivo a
passare sopra a qualsiasi evento negativo. Proprio io, così
solare e positivo.
Finii il mio cono
gelato, mi alzai e ripresi la strada di
casa; ormai si stava facendo tardi e non volevo che nonna Joanne si
preoccupasse. Magari mio padre se n’era andato e non avrei
nemmeno dovuto
rivederlo.
Forse –
riflettei mentre passeggiavo per le stradine
illuminate dalla luce dorata del sole che si faceva sempre
più basso – dovevo
dar retta a mia madre: quelle settimane nel Montana potevano essere una
buona
occasione per mettermi sotto con lo studio senza nessuna distrazione.
Oppure no. Mi annoiavo
solo a pensarci. Del resto mi ero
recato lì per una vacanza, no?
Con un auricolare
all’orecchio destro e canticchiando a
mezza voce, arrivai davanti a casa di mia nonna, convinto di trovare il
giardino deserto; invece vi scorsi proprio nonna Joanne, in compagnia
di una
ragazza dai capelli rosso fuoco che non avevo mai visto prima. Le due,
armate
di mollette e bacinella stracolma di vestiti, stavano stendendo il
bucato su
uno stendino posto nei pressi dell’ingresso.
Spinsi il cancelletto,
che era soltanto accostato, ed
entrai. Mi bastò solo un’altra occhiata alla
sconosciuta per intuire che si
trattava di un’altra parente: nonostante il colore di occhi e
capelli fosse
leggermente diverso, alcuni suoi tratti del viso la facevano somigliare
a me e
a nonna Joanne.
Lei
intrappolò il mio sguardo, la curiosità a
riempirle
le iridi verdi, e piegò appena il capo di lato.
“Tu dovresti essere Randy,
giusto?”
Annuii e le sorrisi,
sinceramente interessato. Non sapevo
spiegare il motivo, ma da quando avevo visto quella ragazzina tutti i
miei
pensieri negativi si erano volatilizzati, lasciando posto a una
bellissima
sensazione di calore e curiosità. Era simpatica, lo
percepivo sotto forma di
sensazione, e la volevo conoscere.
Mi accostai a lei e
nonna. “Sì, sono io.”
“Piacere,
Beth, tua cugina. Abbi pazienza, non posso
stringerti la mano” commentò, tenendo fermo sul
filo dello stendino un
asciugamano e contemporaneamente cercando di fissarlo con una molletta.
Mia…
cugina?!
Risi.
“Stringere la mano è un gesto da vecchi.”
“Allora non lo farò mai più”
soggiunse nonna Joanne con un sorrisetto.
“Ma come
facevi a sapere il mio nome?” chiesi a Beth,
facendo caso solo allora al fatto che mi avesse riconosciuto come Randy.
Lei si strinse nelle
spalle. “Da quando sono arrivata a
casa sua, nonna non ha fatto che parlare del cugino venuto da
Los Angeles.
Io quasi non sapevo di avere un cugino!”
“Non
è vero, qualche volta te ne ho parlato”
obiettò
nonna Joanne. “Se tu hai la memoria corta, tesoro mio, io non
ci posso fare
niente!”
“Ehi, non
offendere le mie capacità mnemoniche!” finse di
offendersi Beth, dandole di gomito e ridacchiando.
“Sì,
certo… sentite, si è fatto tardi, è il
caso che vada
a preparare la cena” cambiò discorso nonna Joanne,
stendendo l’ultimo
canovaccio e afferrando la bacinella vuota. “Beth, resti
anche tu?”
La ragazza si strinse
nelle spalle. “Perché no? Posso
darti una mano in cucina, se vuoi!”
La più
anziana intanto aveva spalancato il portoncino.
“Non se ne parla: tu e tuo cugino avete tanto da dirvi!
Piuttosto, potresti
chiedere anche a Ben se gli va di cenare qui?”
E chi era
Ben, il fidanzato di Beth?
“Non credo
che farebbe in tempo, oggi sta fuori fino a
tardi.”
Nonna
sollevò il pollice verso l’alto e sorrise.
“Cena
per tre allora!” affermò, scomparendo
all’interno dell’abitazione.
“Chi
è Ben?” domandai subito con curiosità.
“Mio
fratello.” Beth prese posto sul bordo di un’aiuola
e
mi fece segno di imitarla.
Sgranai gli occhi.
“Ho un altro cugino?”
“Sì,
dell’89.”
Mi accomodai accanto a
lei. “Quante cose mi sono perso
stando a Los Angeles!”
Lei si illuminò. “Ah, ma sai che potremmo esserci
incontrati un sacco di volte
senza saperlo? Specialmente quand’ero piccola, andavano
spesso in vacanza in
California; Ben si è fatto anche un amico e spesso va a
trovarlo! Abita in una
cittadina proprio vicino a Los Angeles, di cui ora mi sfugge il
nome…”
Sorrisi.
“Dici sul serio? Che bello, le vacanze al mare
con la famiglia… io e mia madre viaggiamo solo per
accompagnare i suoi allievi
ai campionati.”
“Campionati?”
“Ah,
già! Mia madre è un’allenatrice di
pattinaggio su
ghiaccio, e a dire il vero anche io so pattinare, ma non lo faccio come
agonista. Però, siccome una sua allieva gareggia ad alti
livelli e mamma la
deve accompagnare in quanto allenatrice, ne approfitto per viaggiare e
perdere
un sacco di giorni di scuola!”
Beth rise.
“Beh, ma quando tua madre è via, non
potresti…” Improvvisamente si bloccò e
il suo sguardo limpido si rabbuiò.
“Restare con
mio padre?” completai la frase al posto suo,
accennando un sorriso. Probabilmente, essendo a conoscenza della mia
situazione, non aveva voluto pronunciare quelle parole ad alta voce per
non
turbarmi. “Dovrei fare un viaggio piuttosto lungo per
raggiungerlo ogni volta!”
“Scusa
Randy, non volevo…”
Ma io ridacchiai e le
diedi di gomito. “Ehi, è tutto a
posto. Non mi disturba parlarne, davvero!”
Un
po’ rivederlo mi aveva disturbato, in effetti…
Lei si
passò una mano sulla fronte, portando indietro
quelle ciocche scarlatte sfuggite alla disordinata crocchia che le
raccoglieva
i capelli. “Non ne so tanto in effetti, so solo che zio Giles
ora vive qui e ha
un’altra famiglia.”
“Già.
E nel frattempo si è perso un figlio bello e
simpatico come me!” scherzai, intenzionato a stemperare
l’atmosfera.
“Ma
dev’essere una caratteristica di famiglia, credo”
affermò lei, voltandosi verso di me e scrutandomi con
intensità.
“Cioè?”
chiesi confuso.
“Anche mio
padre, che poi sarebbe il fratello del tuo, si
è dissolto nel niente quand’ero piccola.”
“Ma…
un attimo, e le vacanze in California con la
famiglia?”
“Ah, ma io
intendevo con Ben e le mie due mamme!”
Stavo capendo sempre
meno.
Beth
scoppiò a ridere. “Hai una faccia! Okay, forse
è
meglio se mi spiego. Dopo che mio padre se n’è
andato, mamma si è trovata una
compagna e si sono fidanzate; io e Ben siamo cresciuti con
loro.”
Sbattei le palpebre un
paio di volte, poi misi su un
sorrisetto beffardo e piegai appena la testa di lato. “Io
faccio fatica a reggerne
una, di madre… figuriamoci due! Poveri voi!”
Lei
ridacchiò e sollevò gli occhi al cielo.
“Sei pessimo!
Ma si vede lontano un miglio che sei cugino di me e Ben!”
“Sarei
curioso di conoscere anche tuo fratello” ammisi.
“E lui
sarà contentissimo di conoscere te. Non appena ha
un po’ di tempo libero, potremmo passare una serata
insieme… e poi lui ha la
macchina, bisogna approfittarne!”
“Che fa,
lavora?”
“Si sta
addestrando per diventare poliziotto.”
“Caspita,
sicuramente prima o poi finirà per arrestarmi!”
L’avviso di
una notifica attirò la mia attenzione; mi
accigliai e recuperai il cellulare dalla tasca dei bermuda. Strano,
nessuno mi
cercava mai a parte mia madre – che comunque preferiva
telefonarmi.
Mi sorpresi di trovare
un messaggio di Jia. Questo sì che
era veramente strano! La mia amica era talmente orgogliosa che non mi
sarei mai
aspettato di vederla cedere per prima dopo una discussione.
Ma quando aprii la
conversazione, mi fu tutto chiaro.
SEI ANDATO NELLO
SCHIFOSISSIMO MONTANA SENZZA NEMMENO
AVVISARMI?????
Scoppiai a ridere e
lanciai un’occhiata fugace a Beth.
Mia cugina mi
osservava con le sopracciglia leggermente
aggrottate.
Mi ricomposi e
cominciai a registrare un messaggio
vocale: “Innanzitutto il Montana non è schifosissimo,
ci sono delle
persone davvero fantastiche qui. E poi che te ne importa? Non mi
rivolgi la
parola da due settimane e pensavi che ti avrei avvisato?”
Avevo cercato di
mantenere un tono serio e addirittura
minaccioso, ma la verità era che non ero più
arrabbiato con lei. Anzi, mi
mancava. Ma volevo che non lo capisse, che per una volta fosse lei a
fare
qualcosa per riavvicinarsi a me.
Inviai il vocale e
incrociai nuovamente lo sguardo di
Beth, che era letteralmente divorata dalla curiosità.
Accidenti, quanto eravamo simili.
“È
la mia migliore amica. Abbiamo litigato e non le ho
detto che sarei venuto qui, ma appena l’ha scoperto ha dato
di matto.”
Lei piegò
il capo di lato. “È grave?”
Sospirai.
“Jia è particolare, certe volte esplode e si
comporta in maniera spregevole, ferisce gli altri senza rendersene
conto. E
anche quando se ne accorge, il suo orgoglio le impedisce di chiedere
scusa.”
Una nuova notifica.
Sbloccai lo schermo e lessi il nuovo
messaggio di Jia.
Anche tu non mi
rivolgi la parola da due settimane…
“Ma tu non
sei arrabbiato con lei, vero?” indagò Beth.
Come faceva quella
ragazzina a leggermi dentro? Ci
eravamo appena conosciuti!
Beh, io ero sempre
stato un libro aperto per chiunque…
Scossi il capo.
“Non ci riesco a tenere il muso per
troppo tempo.”
“Io e te
siamo proprio cugini, Randy.”
“Ragazzi,
è pronta la cena!” ci richiamò
all’attenzione
nonna Joanne, affacciandosi al portoncino.
“Arriviamo!”
affermò Beth, mettendosi in piedi e
stiracchiandosi.
Feci lo stesso e nel
frattempo mi soffermai un attimo a
osservarla, cosa che non avevo ancora fatto – non mi
interessava mai l’aspetto
delle persone quando mi ci dovevo approcciare.
Era una ragazza alta e
slanciata, dalla pelle diafana e
dal viso delicato ma incredibilmente espressivo. Indossava degli abiti
semplici, che riflettevano la sua personalità: un paio di
shorts in jeans e una
t-shirt bianca con delle righine orizzontali blu.
“Randy?”
“Sì?”
“Hai una
macchia bianca sulla maglietta.”
Abbassai
istintivamente lo sguardo, anche se già sapevo
di cosa stesse parlando. “Ah già, colpa del gelato
che ho preso prima in
piazza. Mi sono dimenticato di cambiarmi.”
“A proposito
di piazza,” si illuminò, mentre si dirigeva
verso l’entrata, “sai che stasera proprio nella
piazza principale ci sarà il
cinema all’aperto? Se ne hai voglia, possiamo passare a dare
un’occhiata!”
“Davvero?
Che film proiettano?” mi entusiasmai.
Beth si strinse nelle
spalle. “Non lo so, proprio per
questo voglio andarci!”
“E se fa
schifo?”
“Troveremo
un’alternativa!”
Sorrisi mentre la
seguivo dentro casa di nonna Joanne,
tuffandomi in mezzo al profumo di cibo buono e fatto da mani esperte.
Forse la mia vita era
davvero un mezzo disastro, ma per
una volta volevo mettere da parte tutto e godermi due settimane insieme
a
quella bizzarra famiglia che non avevo mai saputo di avere. Ci sarebbe
stato
tempo, più avanti, per porre rimedio a tutto quanto.
♥
♥ ♥
AUGURI RANDYYYYY TESORINO MIO *_________*
Ragazzi, non credevo di riuscire a scrivere tanto per
questo mio bimbo, eppure eccomi qui con una succosa shot in cui si
scoprono
tante belle cose su di lui – che troppo spesso rimane
nell’ombra per via delle
vicende di Jia!
Fatto importantissimo per chi segue anche le serie di Kim:
AVETE VISTO LA PARENTELA??? Randy è il cugino di
Ben&Beth!!!!!!! Io e Kim
non vedevamo l’ora di rendervi partecipi di questa cosa che
noi stesse abbiamo
da poco “scoperto” sui nostri personaggi XD
Altro fatto importante: per quanta pazienza possa avere
Randy, anche lui litiga con Jia – come non litigare con una
come lei? Lo so, lo
so: prima o poi scriverò una storia apposta per raccontare
della loro prima
grande discussione ^^
Sono consapevole del fatto che questa non è esattamente
una storia allegra per celebrare un compleanno, ma è tutto
ciò che mi è venuto
in mente! Spero che Randy mi possa perdonare – ma
sì, lo sa che lo amo tanto e
sono certa che possa affrontare qualsiasi situazione, anche se lui si
sottovaluta
tanto, cucciolo mio T.T
Ultima precisazione: ci tengo a ricordare che il
personaggio di Beth appartiene a Kim WinterNight! Spero,
infatti, di averle
reso giustizia e che la sua ideatrice non mi tolga il saluto XD avrei
voluto
darle più spazio e magari far apparire anche Ben, ma non
volevo che questa
storia diventasse un romanzo… e poi ci sono due settimane
nel Montana da raccontare,
no? KIM, DATTI DA FARE ANCHR TU U.U
Ancora TANTISSIMI AUGURI al mio tesorino Randy, colui che
mi insegna a trovare sempre il lato bello di ogni cosa *______* e
grazie a
chiunque sia giunto fin qui!
Alla prossima!!! ♥
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