Sono paranoica e pignola, lo
sappiamo tutti, e la versione che c'era di "...A porte in faccia" non
mi piaceva un granchè. L'ho ripresa in mano, questo
è quello che ne è uscito grazie anche al supporto
tecnico di Silvia, whatheverhappened,
che è stata una beta supergentile
e superveloce.
Grazie a chi ha
voluto farla finire tra le Scelte e grazie per questo
primo anno qui.
Kim.
...A porte in faccia.
Guardo la scritta
“Kurata” sul campanello da dieci minuti buoni.
Stavolta l’ho
combinata grossa. L’ho combinata grossa eccome. Non
è… Non è come tutte le altre
dannatissime volte, è addirittura peggio.
Ma, in fondo,
è colpa sua.
Il problema è
che non ci ho fatto proprio caso: sembrava un normale litigio da
routine.
Stavamo come sempre a
casa mia - un pomeriggio come tanti altri, un film come tanti
altri… A dir la verità, come tutti i film degli
ultimi anni, non l’avevo guardato.
Preferivo di gran lunga
starmene a guardare lei,
Sana. E’ decisamente più divertente, stupisce con
le sue espressioni sceme e le dita strette al bordo del cuscino che
ormai abbiamo ribattezzato come suo,
tante sono state le volte in cui se l’è stretto al
petto.
Altro che film.
Beh, e poi mi ha sempre
fatto ridere più di quanto potesse qualsiasi comico disponibile
in videoteca - ridevo, ridevo, ridevo come un pazzo perché
lei piangeva.
Kami, per inciso, la
cosa che più mi fa rotolar dal ridere è come
riesca a trovare sempre il motivo per farsi venire gli occhi lucidi e
il labbrino tremulo che scatena tutta - tutta - la mia
ilarità repressa.
E’ capitato
che piangesse di fronte alla morte del fratello del sosia del cugino
del protagonista, o all’addio alla stazione tra il gemello
buono dell’ex spia russa morta in guerra e la sorellastra
dell’eroina di turno. Magari avrebbe pianto anche guardando
un cartone per bambini o un’animazione di plastilina. Ecco
una cosa che forse dovrei provare a farle vedere - avrei dovuto, visto
come si sono messe le cose.
Per me uno vale
l’altro, per lei no… E giù lacrime su
lacrime, tutte ad inzuppare il disgraziato suddetto cuscino.
Ovviamente a quella
vista io ridevo, ridevo come un dannato, al che lei si staccava il suo
cuscino di dosso e iniziava a tirarmelo in faccia, sbraitando qualcosa
che poteva variare dallo “Smettila di prendermi in
giro!” al “Sei un emerito cafone!” a
seconda dei giorni e del genere di film.
Io prendevo il cuscino
asciutto per contrattaccare - mica mi faccio picchiare da una donna -
ed inevitabilmente iniziava a ridere anche lei e ci ritrovavamo dal
divano al pavimento nel giro di mezzo minuto.
A quel punto poi
iniziavamo a parlare. Di tutto - quasi, insomma.
Non ricordo la data
esatta in cui cominciò quella stupida routine, fatto sta che
ora sembra irrimediabilmente interrotta e che lei comunque, per voler
essere precisi, i pomeriggi a casa mia li passa da quando eravamo in
terza superiore.
Credo
dall’ultima volta in cui ho tentato di baciarla - ma la data,
la data proprio non la ricordo.
Ho ben impresse nella
mente, però, le sue mani piazzate sui fianchi ed ho la
certezza che fosse venuta con l’intenzione di rompermi
qualcosa come quattordici Piko in testa. Invece ci eravamo ritrovati
tra un trancio di pizza e un film americano doppiato malissimo - quasi
un tuffo nel passato dei miei tre anni trascorsi negli USA, un
pomeriggio tipo.
La sua prima domanda era
un classico: “Hayama, e le donne?”
Altrettanto il mio
stringermi nelle spalle, il rischiare la morte per soffocamento e
ringhiare “Niente di che.”
Sì, insomma,
non è il genere di argomento di cui mi piaceva parlare con
lei.
Forse dovrei dire che a
me non piace proprio parlare,
sì.
A quella risposta,
comunque, lei sorrideva. Sempre.
Questo pomeriggio, poi,
lei doveva raccontarmi del suo ennesimo uomo.
“Devo dirti
una cosa”
Ho poggiato la pizza, lo
stomaco previdentemente s’era già chiuso.
“Dimmi pure”.
“Io…
sto insieme ad Hachi.”
E lì,
più o meno, sono cominciate le urla, come cominciano ogni
volta in cui scopro che sta con qualcuno.
Io… Io la
voglio vedere felice, lo giuro, ma ha quell’incomprensibile
capacità di andarsi a pescare i più idioti in
circolazione.
Tremo
all’idea di vederla con uno di quelli lì.
Insomma, fa oggettivamente ribrezzo
vederla appiccicata a chissà chi con un bicipite interamente
tatuato grosso quanto la sua circonferenza vita, e dai.
Ma puntualmente,
indovinate un po’? Sana si sceglie uno di quelli.
Dopo circa una
mezz’oretta di insulti, le urla si interrompono sempre. Anche
oggi.
“Accidenti a
te, Akito, che c’è che non va stavolta?”
“Mmh. Niente,
credo.”
Ed ha alzato gli occhi
al cielo come ogni volta - oh, come lo fa lei non lo fa nessuno.
“E allora dov’è questo dannatissimo
problema?”
“Beh, fammici
pensare… Non fa per te, ecco. E’ classificabile
tra i problemi?”
A tale risposta lei,
ogni benedetta volta, alza il suo fondoschiena dal pavimento, afferra
chiavi dell’auto e borsa ed esce da casa mia sbattendo la
porta.
Okay, sbattendo sonoramente la
porta.
…Ed
incazzandosi giusto un po’, tanto per completare
l’opera.
Sì, anche
oggi è successo - sempre la solita storia.
Dice che le demolisco la
felicità, ma non sono d’accordo; dopotutto
è lei
che regolarmente, fermandosi col rosso al semaforo della provinciale -
due minuti e cinquantadue secondi dopo aver lasciato casa mia -
telefona al fidanzato di turno e lo scarica.
Anche Hachi.
Mette su
quell’adorabile broncio che tecnicamente non posso per ovvie
ragioni vedere - ma so per certo che c’è - e per
farglielo passare mi tocca passare la serata sotto casa sua, con
l’indice cucito sul campanello.
“Che
vuoi!” e di domanda ha poco o nulla.
“Dimmi che
cazzo di problema hai stavolta, Sana. Anzi no, dimmelo una volta per
tutte così la finiamo con queste scenate, che siamo tutti e
due adulti e non mi pare edificante, non trovi?”
“Hayama,
tornatene da dove sei venuto.”
“Fammi capire.
Io sono qui che ti chiedo spiegazioni e tu te ne esci con le frasi ad
effetto da quattordicenne? Ma vedi te la stron-”
“Vaffanculo”
Fin qui puro trantran.
Ma poco fa ho avuto la
meravigliosa idea di dar voce ad un dubbio comprensibile, certo, ma che
per la quiete del vicinato avrei dovuto omettere. Letteralmente, ho
degnato le gentil orecchie presenti - che spero vivamente fossero solo
quelle di Sana - di un impeccabile sfondone. Di quelli micidiali.
“Lui…
stai così per qualcosa che ti ha detto, no?”
modalità detective attivata.
L’assenza di
risposte era un fin troppo ovvio assenso.
“E cosa ti
avrebbe detto, questo genio?”
“Oh, Hayama,
vuoi le parole testuali? “Kurata, lasciatelo dire, sei
proprio una gran troia!” “
Così tutto il
vicinato è stato messo al corrente del fatto che Hachi, il
palestrato e tatuato Hachi, ha accusato Sana di essere di…
facili costumi.
Tecnicamente parlando,
tralasciando psicologie inverse e casini vari, il motivo per simili
scurrilità secondo l’universalmente noto orgoglio
maschile è uno solo:
“Kurata,
dimmi. Tu e lui eravate, come dire… Piuttosto intimi?”
“Che cosa stai
insinuando?”
Se te lo porti a letto
al primo appuntamento e poi lo pianti mini la sua autostima.
“..ed
è normale che risponda così” era molto
meglio che la prima parte restasse solo un pensiero.
Dopotutto, io posso solo
andare per supposizioni. Il sesso è l’argomento
tabù del nostro rapporto.
Non ne abbiamo mai
parlato, ed onestamente tanto meglio così.
Okay, forse ho sempre
nutrito qualche sorta di curiosità sulla sua prima volta,
circa qualche aneddoto stupido solo per ridere mentre chiudevamo la
custodia del dvd di turno a casa mia. E anche di leggerle negli occhi
qualche reazione ad un mio ipotetico racconto, e passare le ore a
ridere e prendere in giro i vecchi ex come si fa sempre, come si fa tra
amici.
Forse è
quello, il problema. Lo è sempre stato.
Nessuno dei due ha mai
amato particolarmente omologare ed etichettare i rapporti, certo; ma
tra noi non c’è quel… Quel…
Quel qualcosa in grado di farmi dire che ciò che mi lega a
Sana è una profonda amicizia.
E’ un disegno
appena abbozzato, il nostro. Non c’è la
definizione, ci sono il tabù del discorso
“sesso” e la gelosia attanagliante che mi ha sempre
stretto nella sensazione che non fossimo amici. Che non lo
saremo mai.
E poi dai, io sono il
tipo dai filmini mentali. Non mi si può buttare addosso la
descrizione della mia
piccola, fragile Sana tra le braccia di un altro - non che tra le mie,
di braccia, ci sia stata, ma comunque lei è mia.
E’ sempre
stata mia in un modo indefinito come siamo indefiniti noi, ma lo
è.
Ed anche io sono suo in ugual misura
- fidatevi, i suoi abbracci, quando siamo soli o tra la gente, sono
tanto stretti da riuscire ad urlarlo con voce propria, quasi,
quell’aggettivo possessivo.
Mio.
“Normale? Tu
la definiresti normale?!
In quale.. Prima che quegli otto milioni di Kami che ci sono
là sopra scendano uno per uno giusto per prenderti a
ceffoni, Hayama, dimmi in
quale universo dovrebbe essere una reazione
normale.”
A parte che non
è particolarmente divertente parlare con un citofono
urlante, mi sono sentito costretto a trasformare in parole la prima
parte di quel
pensiero, non con poco imbarazzo.
“Ecco.
Qualcosa del tipo.. Hey. Se te li scopi e poi li lasci mandi in
depressione la considerazione che hanno di sé”
Certo, certo,
quell’ hey
è stato di cattivo gusto e me lo sarei anche potuto
risparmiare, come avrei anche potuto usare un lessico più
appropriato e dolce e, a questo punto, avrei anche potuto correre da
‘sto Hachi e sputargli in un occhio e-non-solo per
aver osato
ferirla così - orgoglio maschile o no.
Ecco, l’ultimo
punto, ad esempio, è tuttora allettante.
Comunque, il sonoro clack mi ha
avvisato che aveva appena appeso. Pure.
Ed eccomi qui, ancora
ingraffettato al campanello di casa sua da bravo ragazzo che cerca di
salvare il salvabile e di farsi perdonare per tutto il resto.
Perché se
Sana Kurata ha appeso e non mi ha mandato a fanculo
c’è da preoccuparsi.
E presumo -
sì, ne ho la stracciata certezza matematica, e la cosa non
aiuta - anche che si sia incazzata a bestia.
Ottimo.
Smetto di far pressione
sul pulsante solo quando mi vibra la tasca della giacca, e sono confuso.
A parte Sana nessuno mi
chiama mai; per quanto possa definirsi strana di certo non ce la vedo a
telefonarmi proprio quando sono sotto casa sua.
Degno il display di
mezza occhiata solo per accorgermi che si tratta di Fuka - e che cosa
vuole alle undici di sera, di grazia, la signorina Fuka?
“Matsui”
rispondo pigiando il verde.
“Akito, sei
proprio un coglione.” mi saluta. Che ragazza gentile.
“Fuka,
femminile come al solito” la rimbecco, è
divertente prenderla in giro quasi quanto lo è con Sana.
Solo che le facce di
Kurata danno più soddisfazione.
“Lascia il
sarcasmo a casa e raggiungimi al parco, che, tanto per essere delicati,
sei nella merda fino al collo.”
Sorrido. Se fosse un
uomo credo che quella ragazza potrebbe seriamente essere
dotata di palle quadre. “Grazie per il linguaggio
sofisticato, ma ho da fare al momento” e ovviamente non
voglio altri casini.
“Cinque
minuti” avvisa “Ho parlato con Kurata”.
E con questa ha
l’assoluta certezza che non le darò buca.
Se non altro il casino
resta sempre e solo quello, vediamola così - e tralasciamo
il fatto che, invece, se è già arrivata al punto
di telefonare a Fuka probabilmente dovrò accamparmi sotto
casa sua per settimane prima che si degni di ascoltarmi.
Fuka è
l’amica dei discorsi importanti, delle arrabbiature folli. E
sì, anche dei discorsi da donne.
Inizio a correre ed il
tragitto mi sembra infinito.
C’è
da dire che quando supero le inferriate mi sembra quasi il classico
appuntamento di due amanti, e coincidenza vuole che con Fuka io ci
fossi anche stato fidanzato, alle medie, quel gran bordello che
ha preceduto la malattia di Sana e la mia partenza. E tutto il resto.
Sì, ma
realtà vuole che l’appuntamento non abbia niente
di sentimentale. Fuka si sposa a maggio. Con il tizio di sempre, quello
che le piaceva prim’ancora di trasferirsi qui - nemmeno
ricordo bene il nome.
E fondamentalmente
eccola lì, la differenza, chiara ai miei occhi come a quelli
di tutti: Sana e Fuka sono probabilmente le due ragazze a cui sono
più legato; ma della prima mi interesso, della
seconda mi interesso fino
ad un certo punto.
Della seconda dimentico
il numero di cellulare, una volta è successo anche che
scordassi la data del compleanno - se non fosse stato per Kurata e quel
suo “quanto scemo puoi essere? La Vigilia, Hayama, la
Vigilia” - non conosco il numero di scarpe né
tantomeno la taglia dei pantaloni.
Non so il suo cibo
preferito e nemmeno il colore, a ben pensarci.
Della prima, invece,
ricordo con estrema chiarezza ogni
minimo dettaglio: le sfaccettature degli occhi color
cioccolato quando si sveglia, l’angolo della bocca che si
solleva anche quando cerca con tutte le forze di non ridere,
addirittura il profumo tra le fibre delle magliette.
Noto i capelli scuri di
Masui e la trovo seduta su di una panchina.
“Da uno a
dieci mi odia undici, giusto?” e salto a piè pari
i convenevoli, avvicinandomi.
“Sbagliato.
Centoventicinque?” risponde a mo’ di domanda, quasi
chiedesse conferma a chissà chi.
Andiamo veramente bene.
Sospiro.
“Dimmi che devo fare con lei.”
Si morde il labbro
inferiore, alla ricerca delle parole adatte.
“Più
che altro” inizia “Sana non capisce
perché le fai troncare ogni relazione che riesce a
costruirsi dopo nemmeno ventiquattro ore.”
“Ma io non
faccio proprio nulla. Siamo chiari, io le dico la mia opinione,
è lei che poi decide di lasciarli tutti.”
“Hayama”
tradotto credo significhi sei-un-deficiente,
almeno dal tono in cui lo dice “Lo sai che ti ascolterebbe
anche se le consigliassi di buttarsi da un dirupo”
“Te lo
concedo”. Sana lo farebbe davvero.
“Quindi?”
incalza.
“Quindi
è solo che si sceglie gli uomini sbagliati.”
“Ma tu non ne
conoscevi nessuno. Li scarti a prescindere, ammettilo”
Alzo le mani e scuoto
energicamente la testa. “No, no no. E’ che sono
così… Così…”
Fuka mi guarda senza
capire.
“…Diversi
da lei, credo.” concludo senza troppa sicurezza.
“Credi?”
Annuisco.
“Vediamo un
po’. Sono diversi. Bene, io ne ho sottomano uno con cui
condivide parecchi interessi: se un giorno lei scegliesse
Kamura?” mi provoca.
Boccheggio, cercando di
non darle la soddisfazione di vedermi completamente spiazzato.
“Non è…”
Mi guarda, quel
sorrisino malato stampato in viso.
“Hayama, ti va
di fare un quiz?” se ne esce dal nulla.
A volte, lo ammetto, mi
capita di pensare che non sia completamente equilibrata. Che le
manchi qualche rotella, circa - questa
è una delle occasioni.
“Perché
dovrei fare un quiz?”
“Sta’
zitto e rispondimi.” mi intima, non badando al fatto che la
sua affermazione è un puro controsenso. Ma evito di
dirglielo, o mi pianterebbe una pantomima infinita.
Inspira.
“Secondo me ci sono cinque tipi di uomini”
“Mastui, non
voglio sorbirmi le tue supposizioni sull’universo maschile,
non credo regger-”
“Stai zitto,
ti ho detto.”
Alzo le mani in segno di
resa.
“Cinque tipi.
Primo: lo stronzo altolocato. Se Sana si innamorasse di uno spocchioso
figlio di papà, approveresti?”
Dato che non ho scelta,
mi impegno nel trovare la risposta.
Visualizzo Sana, il
sorriso disteso e un abito leggero che le lascia scoperte le ginocchia;
accanto a lei un tipo abbastanza alto, non troppo muscoloso. Una
camicia sbottonata per tre quarti, degli occhiali da sole firmati ed i
capelli fissati all’indietro col gel. E provo
l’irrefrenabile impulso - col pensiero - di fargli del male.
“No”
ribatto secco.
Fuka non si scompone.
“Numero due: l’intellettuale.”
Ripeto il siparietto.
Stavolta Sana ha i capelli raccolti in una treccia laterale ed indossa
un completo tendente all’elegante. Ha anche gli occhi un
po’ truccati, stringe tra le mani una borsetta. Ho come
l’impressione che si trovi in una galleria d’arte.
Un uomo accanto a lei la accompagna verso il dipinto successivo -
è un tipo abbastanza smilzo, non troppo alto. Ha degli
occhiali rettangolari bordati d’arancio e gesticola
parecchio. E’ estremamente fastidioso.
“Nemmeno”
commento asciutto.
“Numero tre:
il bravo ragazzo”
La scena cambia. Sana si
stringe nel suo maglioncino color panna, i capelli raccolti alla
bell’e meglio le solleticano il collo. E’ struccata
e solare, e passeggia mano nella mano con un ragazzo piuttosto anonimo.
Decisamente
anonimo.
“Troppo
poco..” non mi lascia nemmeno il tempo di finire.
“Quattro: il
teppista”
Kurata sta fumando una
sigaretta, e straordinariamente non si sta soffocando. Sembra piuttosto
sicura di sé, nascosta com’è dal suo
ombretto viola. Con la mano con cui non regge la sigaretta tamburella
sul bordo di una panchina, le unghie laccate dello stesso folle colore.
Un tale la raggiunge: getta per una bomboletta di colore senza il
minimo ritegno. E’ magro e porta i capelli cortissimi. Ha gli
occhi accesi da uno sguardo che mi fa ribollire il sangue.
“Troppo
mmh.” non sono convincente.
“Cinque: dati
i suoi precedenti trascorsi sentimentali…
L’alternativo convinto.”
Ed è in quel
preciso istante che io ho una visione di Hachi. Capelli castani troppo
lunghi, fisico massiccio e occhialini neri. Un braccio bardato di
tatuaggi e troppi anelli alle dita che stringono
l’acceleratore di una possente moto. Pantaloni in pelle - e
Sana, Sana che sorridente corre verso l’uomo e verso la moto
pronta a salire e godersi il viaggio.
Tremo, e la
reazione sembra bastare a Fuka più di qualsiasi altra
risposta verbale.
Cerco di ricompormi.
“Beh, siamo a cinque. Se non ti dispiace avrei da fare, devo
sistemare un po’ di cose - avevo l’impressione che
mi volessi aiutare ma a quanto pare sei solo in vena di
interviste”.
Faccio per alzarmi, ma
mi blocca un braccio.
Poi mi punta gli occhi
addosso.
“Ascoltami
bene. Immagina Sana, un divano, un televisore illuminato dalle scene di
un film. Un pomeriggio qualunque, un ragazzo biondo che le porta un
trancio di pizza. E lei che ride”
Non riesco ad evitare di
rivedere me
nel ragazzo biondo ed i nostri
pomeriggi nella descrizione fornita da Fuka.
“Adesso
immagina Sana che si alza dal divano, aiuta il ragazzo a sistemare la
pizza sul tavolino facendo un po’ di spazio tra le custodie
dei dvd, poi si alza sulle punte dei piedi e lo bacia.”
…E le labbra
morbide e i lembi di pelle calda sui fianchi da afferrare e i riflessi
rossicci dei suoi capelli lunghi e poi un morso al labbro inferiore e
un “Scusa, Hayama, avevo fame”.
Cerco di deglutire - e
con quel gesto tanto casuale il mondo sembra fermarsi per un secondo,
sotto lo sguardo furbo di Fuka.
Per un attimo le linee
che il rapporto che ho con Sana non riesce a tracciare - quasi fossero
dei confini, questo
sì, questo no - si delineano da sole verso
qualcosa che non avevo mai considerato a fondo.
E mi ritrovo con la
bocca leggermente aperta - devo sembrare proprio un demente, se Matsui
oserà rivangare questa scena in futuro se ne
pentirà amaramente.
Per lo spazio di un
battito le gelosie, i tabù e i suoi sorrisi circa la mia
situazione sentimentale assumono un senso pieno.
E potrebbe esserci, quel
noi, e mi
accorgo che sarebbe bello da morire.
Che l’ho
voluto da sempre, quel noi,
da sempre davvero.
“Oh”
è tutto quello che so dire.
“Akito?”
mi sventola davanti al viso la mano destra, preoccupata.
“S-sì?
Ci sono.” più
o meno, s’intende.
“Tu ci avevi
mai pensato a questa possibilità?”
“Teoricamente
no”
“E
praticamente?”
Mi gratto nervosamente
la testa. “Nemmeno”.
Arrivati a questo punto,
credo di essere da Guinnes - lasciare
Fuka senza parole non è cosa da poco.
Sbatte le palpebre un
paio di volte tentando di ritrovare l’uso della voce.
“N-Non
è possibile.” spalanca quindi gli occhi
“non ci credo.”
Sollevo leggermente un
sopracciglio e Fuka pianta lo sguardo nel mio.
“Siete due
perfetti idioti.” biascica.
E poi, incredibilmente,
scoppia in una risata senza controllo.
Intendiamoci, io non ci
sono rimasto male, ci sono rimasto anche peggio.
Io ho appena dato un nome a quel noi e
Fuka… Ride.
“E’
che” si asciuga col polsino destro del maglione le lacrime
scaturite dal troppo divertimento “mi sembra di essere
tornata alle medie. Quando non capivate i vostri sentimenti, ed eravate
gli unici perché erano così
palesi!”
Mi massaggio le tempie,
c’è qualcosa che non sono riuscito a cogliere.
“Fuka…
Stavamo parlando di me.”
“No”
scuote la testa “ di entrambi. Lo conosci quel detto - Kami,
me lo devo ricordare per forza. Qualcosa come “Dio li fa e
poi li accoppia”? ed eccoli qui, i miei due amici imbecilli,
l’uno perfetto per l’altra.”
“Ma Sana
non-”
“Sei ancora
qui? Muovi il culo e fila a riprendertela, prima che si butti tra le
braccia di un altro idiota, svagata
com’è!” incrocia le braccia al petto e
so che è finita.
Quel gesto è
universalmente irreversibile: determina la fine.
Prima che riesca a comporre
anche solo il minimo pensiero, mi lancia addosso una chiave.
“Tieni.
Purtroppo ho solo quella del cancello, mi spiace non poter essere
più d’aiuto.”
La osservo, stretta in
mano. Alzo lo sguardo.
“Fuka…
Lo faccio davvero?”
Se mi butta in un
suicidio giuro che la pesto di botte - oddio no, però un
pensierino ce lo farei.
“Sei ancora
qui? Muoviti!” incalza. E ride.
Non so quanto tempo
passo lì seduto con la mia migliore espressione da beota
stampata in faccia, ma senza accorgermene inizio a correre - lontano da
un’amica piena di buoni consigli e che ha sempre visto
più lontano di quanto siamo mai stati in grado io e Kurata.
Un giorno, mi
riprometto, la ringrazierò per bene.
Corro, e realizzo che
non so assolutamente come dire quello che sto per dire. E probabilmente
non sto nemmeno cosa sto per dire.
In fondo nemmeno
m’importa, sono ben cosciente che una dichiarazione di
qualsiasi tipo è assolutamente fuori dalla mia portata - e
lo sa anche Sana.
Svoltato quel maledetto
angolo, noto le luci di casa Kurata ancora tutte accese; il cuore
sembra scivolarmi in gola e rallento.
Un paio di passi e sono
al cancello. Le mani mi tremano terribilmente mentre giro la chiave ed
apro.
Espiro.
Ritrovandomi
lì, davanti al legno scuro della porta d’ingresso,
ho come la sensazione che non ce la farò mai. Se solo avessi
anche la più pallida idea di come iniziare.
Oh, be’.
Bussando, magari.
Riempio i polmoni, cerco
di convincermi con qualche frase ad effetto e due sonori colpi mi
avvisano che il corpo ha deciso prima del cervello - di bene in meglio,
no?
Sento chiaramente dei
passi avvicinarsi ovattati dall’interno della casa,
deglutisco.
Kurata apre la porta,
spalanca gli occhi ed ho un solo secondo per notare quanto sia bella
anche in pigiama, con le punte dei capelli ancora gocciolanti.
“Vattene!”
e chiude.
Ce l’ha sempre
avuto quel dannato vizio di prendermi a porte in faccia, e ormai dubito
che lo perderà mai.
“Sana.
Apri” mormoro esasperato - tanto lo so, lo so che
è lì nascosta ad ascoltarmi.
Incredibilmente mi
dà retta. Apre la porta e mi guarda in cagnesco.
“Agli ordini,
Hayama. Adesso che ho aperto, è nelle mie intenzioni
mandarti a quel paese”
Richiude.
Alzo gli occhi al cielo.
“Kurata… E’ la seconda volta che mi ci
mandi in un giorno solo.”
Vengo improvvisamente
investito da un fascio di luce - e per quanto per un istante abbia
considerato l’arrivo degli Ufo, è solo Sana che ha
aperto di nuovo quella dannata porta, onorandomi della
sua presenza.
Le illumina il viso lo
stesso sorrisetto malato di Fuka; ora sì che capisco davvero
perché sono tanto amiche. E so anche cosa sta per dire.
“
‘Fanculo” e mi sbatte la porta in faccia di nuovo,
lasciandomi oltretutto al buio.
“Terza
volta, te lo concedo” mi correggo.
Duecento respiri dopo -
decisamente troppo lunghi, ma Sana è troppo testarda ed
è il motivo per cui le romperei la testa mille volte e poi
per duemila la bacerei - mi convinco che aspettare non serve a nulla.
“Kurata.
Sì, insomma, sono qui per scusarmi. Ma non solo”
altra boccata d’aria “E’ che ci ho
pensato, e…” abbasso il tono il più
possibile, rendendo la fine della frase un sussurro incomprensibile.
Il nuovo fascio di luce
mi avvisa che Sana deve aver riaperto.
Scontrandomi con gli
occhi cioccolato, capisco che non è altro che confusa.
“Che hai
detto?” cerca di mantenere il timbro arrabbiato, ma la
curiosità è tangibile, per mia fortuna.
Corrugo la fronte.
“N-niente”
Perché non ce
la farò mai, non sono nato per parlare e non conosco nemmeno
l’abc dei discorsi importanti.
La mia indecisione,
però, non giova alla causa: Sana riduce gli occhi a due
fessure e, per improbabile che credessi, s’incazza ancor di
più.
Di nuovo la porta in
faccia - forse è destino.
Stringo i pugni, mi
vorticano in testa le parole di Fuka.
E mi ritrovo a parlare
con il legno verniciato di un portoncino, lì a dividermi da
lei come per tutta la vita qualcosa ci ha diviso - la maggior parte
delle volte la nostra stupidità.
“Be’,
sai che non me la cavo bene a parole. E’ che mi sono sempre
chiesto cosa fossimo - insomma, non ho mai pensato che fossimo amici.
Vediamo le cose come stanno: ci conosciamo da una vita intera e
l’amicizia non ha mai fatto per noi. La
complicità, la reciprocità…
C’era tutto, ma non quel voler la felicità
dell’altro con qualcun
altro. Ecco, quello a me è sempre
mancato.”
La porta continua a
restare chiusa, ed io chiudo anche gli occhi.
“P-Probabilmente
non è il caso di sparare un ti amo
perché oggettivamente sei una zuccona e sei permalosa,
logorroica e sbadata, ed anche perché non so bene dove
potrebbero condurre quelle due paroline. Ma in fondo credo di non aver
fatto altro per tutta la vita, sin da quando eravamo
bambini… Amarti,
intendo.” e le ultime due parole mi pesano come macigni.
Riapro gli occhi e lei
è già lì di fronte a me, la porta
aperta che manco l’avevo sentita.
Mi osserva in cagnesco -
ancora - mordendosi un labbro.
“Io invece credo” la
vedo cercare per terra le parole che non ha “...Credo che tu sia
proprio un cretino” miele e cioccolato, per una volta divisi
da nulla.
Tira la mia maglietta
verso di sé e poi mi bacia.
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