PAPER
BOATS
“Treasure
the experience.
Dreams fade away
after you wake up.”
“Abbacchio…”
la voce di Giorno è incerta al telefono. “Si
è appena svegliato.”
Dall’altra
parte un respiro pesante, troppa aria che entra tutta insieme nei
polmoni.
“Non
hai il tono di chi dà delle buone notizie”
Sempre
così acuto.
Giorno
sospira.
“Preferirei
che venissi qui e ne parlassimo insieme.”
“I feel
like I’m always searching for someone, or
something.”
Il rumore
dello spazzolone, lento e monotono, alternato a quello della risacca.
Il colore del
sole che tramontava gentile dietro il castello, tingendo la roccia dei
colori del fuoco.
L’odore
del sale e il delicato profumo del sambuco danzavano insieme,
mescolando gli ultimi sprazzi d’estate con
l’autunno che aveva appena fatto il suo ingresso: ancora
troppo presto perché le prime foglie gialle tingessero
d’oro la fitta vegetazione di Ischia ma il refolo
d’aria che soffiava gentile suggeriva che presto il caldo non
avrebbe più morso la pelle del ragazzo abbronzato che stava
pulendo con gesti metodici e abitudinari la piccola imbarcazione
ormeggiata nella baia.
Bruno si
appoggiò allo spazzolone e alzo gli occhi per godersi i
colori del tramonto: presto la stagione sarebbe finita e anche se
sarebbe stato più difficile guadagnarsi da vivere il mare
sarebbe stato più quieto, senza il chiacchiericcio dei
turisti e le urla dei bambini.
Il giorno
dopo sarebbe stato il suo compleanno, di venerdì, e come
ogni notte si sarebbe svegliato per andare a pesca: avrebbe venduto ai
ristoranti la maggior parte del pesce e avrebbe tenuto il resto per
sé; poi avrebbe fatto fare un giro in barca a qualche
turista finché non fosse arrivata la sera e a quel punto,
beh, avrebbe dovuto fingere una faccia sorpresa quando Trish gli
avrebbe portato la sua torta di compleanno. Aveva trovato in casa la
ricetta di un dolce alla panna e dal momento che la sua fidanzata non
era un asso della cucina aveva subito immaginato che stesse cercando di
fare qualcosa di carino per un’occasione particolare. Era
tenera, e strana al tempo stesso: non aveva molta pazienza e sembrava
impacciata in molte faccende domestiche ma percepiva che il suo amore
per lui fosse forte, nonostante non riuscisse nemmeno a ricordare come
l’avesse conosciuta.
Forse era
questo che l’aveva convinto, nonostante all’inizio
non sentisse particolare trasporto verso quella ragazza che sosteneva
di essere la sua compagna e le aveva raccontato con pazienza tutto
ciò che l’aveva portato a perdere la memoria:
l’aggressione da parte degli spacciatori, il coma, quel
giovane criminale biondo che aveva ammirato il suo coraggio e gli aveva
assicurato che quegli uomini non
avrebbero più potuto nuocere a nessuno.
“Il
mio capo ha apprezzato molto la tua determinazione, Bruno Bucciarati, e
ti ringrazia. Se non fosse per le persone come te, che non voltano le
spalle davanti alle ingiustizie, saremmo tutti perduti.”
E poi erano
tornati a Ischia insieme, lui e Trish.
C’erano
cose che la mente di Bruno non ricordava, ma il suo corpo
sì: le sue mani sapevano benissimo come portare una barca o
sistemare una rete da pesca, anche se all’inizio era stato
piuttosto strano, come se dovesse razionalizzare come si fa a camminare.
Altre invece,
erano totalmente immerse nel buio ed era costretto a fidarsi di
ciò che gli raccontava Trish: non aveva alcuna memoria della
casa in cui vivevano - anche se quel tavolo di pietra lavica con i
limoni o quell’acquarello con il golfo di Positano era
davvero qualcosa che avrebbe potuto scegliere lui - così
come non aveva memoria di come fosse iniziata la loro relazione.
All’inizio
si era sentito in colpa, sentendo che c’era qualcuno che
portava sulle spalle il peso di una storia che non riusciva
assolutamente a richiamare alla memoria, ma alla fine la presenza di
Trish cominciò a sembrargli naturale e non trovò
nessun motivo per cui non avrebbe dovuto davvero provare dei sentimenti
per una ragazza così premurosa nei suoi confronti, anche se
non sembrava particolarmente portata per la vita spartana che
conducevano.
Trish gli
raccontava che si erano conosciuti in treno… Su un treno per
Firenze. Lui stava andando a trovare sua madre, a Milano, mentre lei
invece era diretta da suo padre a Venezia. Si erano incontrati qualche
mese dopo a Ischia e lei aveva deciso di restare, aprendo un piccolo
negozio con i soldi della sua eredità – suo padre
era un tipo ricco, a quanto diceva, al punto che avrebbe potuto vivere
solo di quello che le aveva lasciato.
Alle volte
sembrava tutto naturale: quella vita così regolare,
semplice, gli apparteneva e Bruno sentiva che non c’era altro
che avrebbe desiderato per sé. Ma altre, quando si svegliava
ancora immerso nel buio, si accorgeva di avere il viso bagnato dalle
lacrime senza sapere perché.
Non era
infelice ma sentiva il vuoto che le memorie perdute avevano lasciato
dentro di sé: aveva la sensazione che nel suo passato ci
fosse qualcosa
che fosse importante ricordare ma che non riuscisse in alcun modo a
richiamare.
E ora che
aveva ricominciato a spazzare, sentiva di nuovo quella sensazione dopo
ormai un anno e mezzo: aveva imparato a conviverci, ma certi odori,
sapori, persino parole alle volte lo scuotevano nel profondo e lo
facevano sentire di nuovo come se gli mancasse la terra sotto i piedi.
Qualcosa…
Mancava qualcosa.
Annusò
l’aria e percepì l’odore forte di una
sigaretta.
Lucky Strike,
pensò, ma non fumava. Perché ne era
così sicuro?
Si
voltò e vide un ragazzo, seduto su una panchina del
lungomare: era lui che stava fumando. Aveva dei capelli…
Biondi, forse? Erano corti, non avrebbe saputo dirlo. Erano molto
chiari e con la luce del tramonto non si distingueva bene il colore.
Era pallido e non sembrava un turista, anzi, dava l’idea di
qualcuno che non si riposava da parecchio. E… Lo stava
guardando?
Di che colore
erano quegli occhi? Ambra o ametista?
Non lo sapeva
ma appena li vide, smise di pulire.
Di
che colore sono i tuoi occhi?
Aveva
già fatto quella domanda, ed era sicuro che qualcuno gli
aveva già risposto.
Ma
quando?
“What
should I do? Would I annoy him? Would it be awkward?
Or
maybe he’d be a bit glad to see me?”
“Pronto?”
la ragazza risponde al telefono, la voce leggera e quasi civettuola.
“Sono
io” una voce maschile, dal tono profondo e secco.
“Perché
mi chiami dal numero di Giorno?” la voce della ragazza
diventa più acuta, si inasprisce.
“Perché
sapevo che così avresti risposto” il tono
dell’uomo si fa sprezzante.
Trish smette
di sfogliare riviste di cucina, in cerca di qualcosa che le sue scarse
abilità da cuoca possano essere in grado di riprodurre.
Tamburella sul tavolo con le dita, in silenzio, in attesa che
dall’altro capo del telefono arrivi una spiegazione per
quella chiamata che viene direttamente dal passato.
“Trish…
Voglio vederlo.” la voce dell’uomo continua a
essere asciutta, senza cenni di esitazione.
“Cosa…
Sei completamente fuori di testa? Per quale motivo vuoi
vederlo?” adesso Trish ha alzato la voce, sicura del fatto
che non ci sia nessuno in casa tranne lei.
“Ho
pensato a tutto. Non mi riconoscerà con i capelli corti, non
mi ha mai visto così” l’uomo continua
imperterrito, senza rispondere alla domanda della ragazza.
“Devi solo dirmi dove posso trovarlo.”
“Ascolta,
Abbacchio, io non so cosa ti è preso ma non… Non
puoi fargli questo. Non sai che reazione potrebbe avere,
potrebbe…” Trish è sempre
più agitata, cammina avanti e indietro in cucina
mordicchiandosi le unghie anche se è un vizio che si era
ripromessa di abbandonare.
“Potrebbe
cosa? Ricordare? Non gli dirò niente, probabilmente non ci
parleremo nemmeno.” la voce di Leone la incalza, deciso a non
cedere, il tono di voce ancora basso.
“Probabilmente?!
Non… Non ho parole. Vuoi presentarti qui per fare cosa,
vedere che cosa succede? Dopo un anno e mezzo?! Non hai pensato a
lui?” la ragazza ormai sta urlando, fuori di sé.
Non sa nemmeno lei perché l’idea la agita
così tanto, o
forse lo sa benissimo e non vuole ammetterlo.
“Io
non faccio altro che pensare a lui, tutto quello che stai vivendo
è perché ho
pensato a lui, ragazzina!” Abbacchio perde il
controllo, e urla anche lui, esasperato. “Ti sto chiedendo le
briciole e non vuoi darmi nemmeno quelle quando stai vivendo questo bel
sogno col tuo principe azzurro grazie
a me!” le parole colpiscono affilate come un
bisturi.
“Io
non devo ringraziarti di niente, tu…” la voce di
Trish si incrina, le lacrime iniziano a scorrere sulle sue guance.
“Lui ha detto che mi ama.” cerca di trattenere il
pianto, sapendo che quelle parole lo feriranno più di
qualsiasi insulto.
Per qualche
istante al telefono si sente solo il respiro pesante di Leone.
“E
allora di che cosa hai paura?”
“I came to
see you.
It wasn’t
easy because you were so far away.”
Il colore
preferito di Leone era sempre stato il nero.
Nero come la
sua divisa, nero come il rossetto che quel giorno aveva evitato di
portare, nero come il vino che preferiva.
Finché
non aveva conosciuto quel punto di blu.
Guardò
in quegli occhi, così familiari eppure sconosciuti, e per un
istante smise di respirare.
Sembrava
felice, ma quella punta di malinconia nello sguardo, quella che
l’aveva fatto innamorare, per un attimo fugace fu di nuovo
davanti a lui.
Lasciò
cadere la cenere dalla sigaretta e distolse lo sguardo.
“Posso
aiutarla?” una voce gentile lo costrinse ad alzare di nuovo
il viso.
Era
lì, fermo sulla barca, e non c’era nessun altro a
cui avrebbe potuto rivolgersi.
Abbacchio si
alzò con fatica, come se dovesse farsi forza: avrebbe voluto
dire qualcosa ma riuscì solo a rispondere con un suono
gutturale, come se avesse ormai perso l’abitudine a parlare.
Si
schiarì la voce, inspirò un’altra
boccata, scosse la testa.
Bucciarati
sorrise gentile e ricominciò a spazzare.
“Our
timelines weren’t in step.
If time can really be
turned back, give me one last chance.”
“…
ora, è ovvio che non posso assicurarti che
funzionerà, ma Moody Blues è l’unico
Stand che…”
“No.”
“…
Perché? Possiamo almeno provare, facendogli rivivere i suoi
ricordi…”
“Non
gli farò… Rivivere… I suoi ricordi,
Giorno.” Leone scandisce bene, soffermandosi sul senso
terribile di quell’affermazione.
Giovanna lo
guarda, affilando lo sguardo, ed infine capisce la logica di quelle
parole.
“…
Dici così perché tu per primo vorresti
dimenticare. Ma senza quei ricordi non saresti arrivato qui, Leone, lo
sai anche tu.”
“No,
Giorno, qui non si tratta di me.” Leone scuote la testa,
mentre le orecchie continuano a fischiargli: il cuore ha accelerato i
battiti e gli rende difficile parlare. “Lui non era destinato
a questa vita. Tutto ciò che ha fatto… Lo ha
fatto per proteggere qualcuno. Si è sporcato le mani per
tutti noi, e adesso… Io glielo devo. Glielo dobbiamo,
Giorno” ogni parola è sempre più
pesante, la voce gli trema ma non piangerà davanti a lui.
È
vivo ma lo ha perso e ora può solo allungare la mano e
provare a tirarlo di nuovo in quel buio che gli tormentava
l’anima, fargli rivivere quei sensi di colpa che Bruno aveva
sempre portato sulle spalle con dignità. Al mondo nessuno ha
la possibilità di tornare due volte allo stesso bivio ma se
c’è qualcuno che lo merita, quello è
lui.
“Dovrò
dirlo agli altri” realizza Giorno, cupo in viso
“Vuoi… Vuoi dirgli…?” si
incammina verso la stanza, tirando appena la maniglia.
Leone si
allontana.
Adesso
è solo un ricordo.
E lascia
andare la presa.
“There’s
no way we could meet. but one thing is certain.
If we see each other,
we’ll know.
That you were the one
who was inside me.
That I was the one
who was inside you.”
Bruno fece
fatica ad addormentarsi quella notte: sentì Trish venire a
letto e dargli un bacio, sussurrandogli “Buon
compleanno” ma finse di essere assopito.
Il sonno
infine arrivò improvviso e portò con
sé una visione confusa: una baia, che non riconobbe, e fiori
gialli che crescevano fra i suoi piedi. Era steso, immerso in quei
petali, ma sentiva uno strano dolore al petto. Alzò una mano
e si accorse che la sentiva umida e calda: pensò fosse acqua
ma gocce di sangue caddero su un completo bianco che non ricordava di
aver mai posseduto.
Non era
più in mezzo ai fiori gialli.
Era dentro a
una chiesa e sentì dei passi silenziosi avvicinarsi a lui
dal buio del colonnato.
Ogni volta
che si voltava, convinto che sarebbe stato aggredito, i passi
continuavano a cambiare direzione ed il petto gli doleva ancora di
più. Le gocce di sangue colavano dal suo polso, macchiando
il bianco della giacca ed il marmo chiaro dei pavimenti.
Indietreggiò
sui gomiti, a fatica, portandosi verso le scale, ma alzando il viso
verso l’alto trovò il cielo e la pioggia, fitta,
cominciò a bagnargli il volto, a inzuppargli i capelli.
Sotto di lui,
terra bagnata, mista a roccia.
Il dolore al
petto era insopportabile: appoggiò la testa al suolo,
esanime, sconfitto.
Sarebbe
morto, non poteva sopravvivere, lo sapeva fin dall’inizio.
Chiuse gli
occhi, arreso: l’acqua lo avrebbe portato via.
Poi
sentì una voce.
Aprì
appena gli occhi e scorse un riflesso argenteo ma sentiva le palpebre
pesanti.
Si
sforzò a mettere a fuoco l’immagine e
trovò due occhi in cerca dei suoi.
Era
pioggia o erano… Lacrime?
Qualcuno gli
stava stringendo la mano, e gli diceva di non abbandonarlo.
Io
lo so… Di che colore sono… I tuoi
occhi…
Bruno si
svegliò di soprassalto, scosso dalla nausea: corse in bagno
e si appoggiò al lavandino, respirando a fatica. Pensava che
avrebbe vomitato dal male che sentiva ma pian piano che riprendeva
conoscenza il dolore al petto era diminuito fino a sparire del tutto.
Si alzò la maglietta spaventato, come in cerca di qualcosa,
ma non trovò niente se non la cicatrice che aveva sempre
avuto.
Sempre?
Cos’è sempre?
“Bruno?”
Trish stava bussando alla porta del bagno: aveva fatto rumore.
“Stai bene?”
“Sì”
rispose lui senza nemmeno riflettere, sapendo che la bugia era ovvia.
“Sì, tranquilla… Solo un brutto
sogno”
La ragazza
non rispose ma rimase dietro la porta.
“Posso
entrare?” chiese timidamente.
“No”
rispose lui, brusco. “No, davvero… Non
c’è bisogno” ingentilì la
voce. “Arrivo subito.”
Quando
sentì i passi di Trish allontanarsi, si guardò
allo specchio e si accorse che stava piangendo.
“So
we don’t forget when we wake up.
Let’s
write our names on each other.”
Quando
Abbacchio tornò a casa era ormai notte.
Aveva
iniziato a bere appena era tornato a Napoli ma questo non gli
impedì di aprirsi una bottiglia senza nemmeno prendersi il
disturbo di sporcare un bicchiere: tanto l’avrebbe finita.
Si
passò una mano fra i capelli di nuovo così corti,
l’ennesimo ricordo spiacevole.
C’era
così poco che valesse la pena ricordare.
Si
avviò a passi malfermi verso la camera da letto, buttando
giù un altro sorso, e si appoggiò al muro mentre
osservava il riflesso violaceo di Moody Blues che faceva scorrere il
timer sulla sua fronte ad un momento preciso: ormai non aveva nemmeno
più bisogno di cercare.
Era
tutto quello che gli era rimasto.
Le curve
dolci e morbide di Moody Blues divennero scure e si appoggiarono sul
materasso di Leone, gli occhi azzurri semi-chiusi facevano capolino
attraverso ciocche corvine che cadevano disordinate davanti al viso
appoggiato sul cuscino.
Play.
“Leone…”
non importa quante volte la sentisse, quella voce che chiamava il suo
nome continuava ad attorcigliargli le viscere. “Mi sono
sempre chiesto di che colore fossero i tuoi occhi…”
La mano di
Bruno accarezzò i contorni del ricordo di Leone, invisibile,
assente.
Abbacchio
rispose sottovoce, portando avanti quella recita, ancora appoggiato al
muro.
“Avvicinati
e dimmelo tu”
La risata di
Bruno portò la luce nella stanza, ora come allora, quegli
occhi azzurri rimasero a guardare un uomo che non c’era: la
bocca si piegò in un sorriso e il naso si tirò
all’insù in cerca di un bacio che era svanito
molto tempo fa.
Basta
così.
L’immagine
di Bruno rimase ferma, con gli occhi socchiusi, eternamente sospesa in
un gesto d’amore che al tempo stesso era già
passato ed eternamente presente.
Leone si
trascinò fino al letto, le labbra attaccata al collo della
bottiglia e si sedette accanto a tutto ciò che rimaneva
dell’uomo che aveva amato ma non lo sfiorò
nemmeno: quella pelle non aveva il suo profumo e i capelli non
odoravano di frutta.
Avrei
dovuto dirti che ti amavo.
Per quello
era andato a Ischia quel giorno, ossessionato da quello che Moody Blues
non poteva dargli per quanto le sue riproduzioni fossero perfette.
Per sentire
quel profumo portato dal vento, per appena una manciata di secondi.
Quanti giorni
lo avrebbe fatto vivere quel ricordo?
Non lo sapeva.
Guardò
con uno strano desiderio le medicine che prendeva per dormire ma alla
fine ne ingoiò solo una, con un altro abbondante sorso di
vino.
Il
solito vigliacco.
Si stese
accanto al ricordo di Bruno, guardando quell’azzurro perfetto
ma senz’anima.
Avrei
dovuto dirtelo.
Tanto
ora non lo sapresti più.
***
Inizio queste note d'autore che saranno particolarmente
lunghe con delle scuse,
per aver scritto una cosa così crudele. Eppure ero partita
con le migliori delle intenzioni finché la mia mente non si
è detta "E se..." ed eccomi qui a piangere lacrime di
sangue. Devo ancora capire perché devo far soffrire in
questo modo disumano la mia OTP. Sigh.
Ho bisogno di dare un gran numero di reference: anzitutto, tutte le
citazioni in corsivo sono tratte dal bellissimo lungometraggio animato
"Your Name" di Makoto Shinkai, di cui consiglio caldamente la visione a
tutti ma solo se siete armati di un gran numero di fazzoletti. Mi
è stato di grande ispirazione nel seguire il tema del
ricordo e della mancanza, così come del famoso filo rosso
del destino che lega le persone al dilà di tutto. Il titolo
della fic è meno ovvia: avevo pensato di intitolarla per
l'appunto Your Name ma la scelta di Paper Boats è dovuta
all'omonima canzone composta per il videogioco "Transistor", un'altra
opera strappalacrime che parla di ricordi, di amanti perduti e di
destino.
Grazie per essere arrivati fino a qui!
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