Da
quando l'aveva perso all'improvviso a quindici anni, Jean aveva
sempre avuto paura di dimenticarlo.
Gli avevano strappato via Marco
dalle mani, brutalmente, e la scoperta del cadavere dell'unica
persona che aveva mai potuto considerare un amico sincero gli aveva
provocato uno shock tale che ancora adesso faticava a realizzare cosa
fosse successo realmente.
A
distanza di anni i dolci e ancora poco maturi tratti dell'amico gli
parevano ormai impercettibili, ma sebbene l'avesse lasciato solo da
troppo tempo, non poteva e non doveva in alcun modo dimenticarlo.
Perciò
ogni notte, ogni singola notte, ovunque stesse e in qualsiasi posto
fosse al momento, si armava di un foglio e di una matita consumata e
sotto la fioca luce di una laterna poggiata accanto a sè sul
tavolo,
la cui candela si spegneva sempre troppo in fretta, disegnava.
Amava
disegnare: ancor di più se il protagonista di questi, ricchi
di
dettagli, era l'amato che il Jean quindicenne non aveva ancora
realizzato di poter amare.
Sebbene provasse qualcosa per Mikasa da
tanto tempo, Marco era stato il primo ragazzo che avesse mai capito
di amare.
E sebbene l'avesse realizzato troppo tardi, quando ormai la
sua calorosa risata e la sua voce dolce erano state dimenticate, non
riusciva a togliersi dalla mente quanto si pentisse di essere stato
così stupido.
La
matita passava lenta sul foglio, cauta e accorta di cogliere ogni
minimo particolare del volto, e talvolta guardava i disegni
precedenti per essere sicuro di non perdere alcun dettaglio.
Prima
passava ai capelli bruni non sempre ordinati, tavolta morbidi e
talvolta ispidi, poi era il turno dei suoi occhi pieni di vita e di
gentilezza, nei quali ci si immergeva ogni volta, ed infine passava
al sorriso genuino che formava delle piccole fossette.
Per ultimo,
punteggiava con la matita il viso a disegnare le sue piccole e sparse
lentiggini.
Sapeva a memoria il punto preciso di ognuna di esse
poichè quando
non riusciva a dormire, durante gli anni di addestramento, Marco lo
invitava a contarle tutte finchè non avrebbe preso
sonno.
Avrebbe
potuto distinguerle anche ad occhi chiusi, persino da bendato.
Quell'innumerevole quantità di lentiggini erano forse i
tratti del
viso che più adorava disegnare e che aveva sempre amato
osservare.
I
disegni, fatti ogni notte da quanto non era più con lui, con
il
tempo avevano formato un plico così alto di fogli che li
aveva
rilegati con particolare cura con un nastro rosso.
Gli
altri compagni lo guardavano sempre un po' storto, poiché
ovunque
andasse se li portava dietro.
E quando la nostalgia lo colpiva in
modo più forte del solito, soleva sciogliere il nastro e
sfogliava
ogni disegno scrutandone i dettagli per cercare di capire quale fosse
perfetto.
Quando aveva finito quel rituale li rimetteva in
ordine dal
primo all'ultimo, guidato dal piccolo segno in matita in alto a
sinistra della data della notte in cui l'aveva disegnato.
Ogni
volta che scrutava il suo volto tramite la carta, il rimorso di non
averlo baciato quando avrebbe potuto farlo lo colpiva dritto al petto
e gli provocava una fitta dolorosa.
Tanto
più quando aveva rinvenuto una sua lettera, dopo la sua
morte, nella
quale il ragazzo aveva confessato di provare dei forti sentimenti nei
suoi confronti.
Ma
a volte si pentiva ancora di più nel sapere che Reiner e
Annie,
coloro che l'avevano brutalmente ucciso, erano stati da lui
perdonati. Sebbene sapesse che non avevano avuto scelta, non riusciva
lo stesso a perdonarli fino in fondo.
A
volte si estraniava dal mondo, faceva delle passeggiate in solitaria
con le orecchie tappate, e ripensava ai momenti che avevano trascorso
insieme per riuscire a calmare il suo respiro.
Perciò
pure quella notte si ritrovò a disegnarlo. Dato che ormai si
ricordava ben poco di lui, si affidava ai ritratti precedenti come
riferimento, poiché ormai la sua mente lo stava lentamente
dimenticando.
“Marco...”
sussurrò il suo nome nel buio, la candela consumata fin
troppo che
non riservava più alcuna luce, e non potè evitare
che alcune
lacrime cadessero proprio sul suo ritratto.
Non appena se ne accorse
cercò di asciugare con il gomito la goccia d'acqua caduta,
impaurito
di averlo rovinato, e ciò lo fece singhiozzare ancora
più forte e
rumorosamente.
Doveva fare silenzio però, per quanto
fosse difficile
in quei momenti, per evitare di svegliare qualcuno.
Poteva già
ritenersi fortunato se aveva una stanza tutta per sé, almeno
per
poter disegnare.
Armin
a volte veniva a trovarlo in camera, preoccupato per le poche ore di
sonno che aveva a disposizione, e lo incitava ad andare presto a
dormire.
Ovviamente tutto ciò non succedeva,
almeno fin quando non
fosse stato soddisfatto del suo disegno notturno, e per colpa di
quella sua mania perfezionista ogni volta combinava una grande
quantità di fiammiferi, poiché trovava che la
candela sul tavolo si
spegnesse troppo in fretta.
Più
passavano gli anni, e più il tempo lo distaccava da quei
lontani
ricordi, che a mala pena riusciva a mettere a fuoco.
Solo
una cosa continuava a tormentarlo: i suoi sentimenti.
Sebbene
non ricordasse più molto, ciò che aveva provato
faticava ad
andarsene.
Ma il tormento maggiore era costituito dal rimorso:
rimorso di essere stato uno sciocco, di avere detto troppo o troppo
poco, di non avergli dedicato necessario, ma sopratutto di non aver
reso giustizia a ciò che provava in fondo al cuore.
“Magari
se gli fossi stato più vicino, lui sarebbe ancora qui con
me” si
ritrovava a pensare qualche volta.
Ma
per quanto desiderasse di poter cambiare le cose, i suoi amici lo
riportavano alla realtà.
I primi giorni dopo la sua morte, questo lo
ricordava vividamente, erano stati i peggiori di tutta la sua vita.
L'aveva
disegnato, guardando di continuo il primo ritratto di Marco che gli
aveva fatto una volta mentre stava dormendo, e ripeteva incessante a
Connie e Sasha quando sarebbe tornato indietro.
Rifiutava
con tutto sé stesso l'idea di averlo perso, che non fosse
più
accanto a lui.
Loro
gli dicevano sempre che non poteva tornare, perché dalla
morte non
si ritorna, e lui scuoteva la testa e tra le lacrime affermava che
tutto ciò non era vero, che lui non era veramente
morto.
Come se
fosse stato solo ferito e sarebbe presto uscito dall'infermeria.
Impiegò
almeno due settimane per accettare la sua morte.
Così
aveva iniziato a disegnarlo, ogni notte.
Non importavano le ore di
sonno perse anche se per due giorni di fila non aveva chiuso occhio:
a costo di addormentarsi sul tavolo, lui l'avrebbe fatto sempre.
E
mentre lo ritraeva di volta in volta, la convinzione che un giorno si
sarebbero reincontrati cresceva sempre più.
Per quanto non fosse mai
stato così credente, gli piaceva pensare che le loro anime
si
sarebbero riviste nella morte e poi mescolate; cosicchè
avrebbero
potuto trascorrere l'eternità insieme.
Oh
se la luna potesse parlare!
Essa avrebbe potuto confermare l'amore
che dopo anni Jean ancora provava in cuor suo per l'amico
scomparso.
Poichè essa era sempre stata compagna
del giovane, le notti che i
due trascorrevano insieme per cercare di addormentarsi , e aveva
scrutato da lontano attraverso qualsiasi finestra Jean che disegnava
attento il viso di Marco.
Un
giorno, non sapeva quando o dove per l'esattezza, sapeva con certezza
che loro due si sarebbero reincontrati.
Quel
pensiero non lo abbandonò mai: neppure quando chiuse gli
occhi per
l'ultima volta, rivolti verso la luna, e ne fu felice perché
sapeva
che l'avrebbe finalmente ritrovato dopo anni e anni di separazione.
We'll
meet again
Don't
know when
Don't
know where
But
I know we'll meet again
Some
sunny day
2019,
Germania
“Buongiorno
Jean” la dolce voce di Marco risuonò per tutta la
cucina e
illuminò la stanza ancora avvolta nel buio del mattino
presto.
“Buongiorno
anche a te, Marco” salutò il suo coinquilino,
seduto poco composto
sulla sedia della cucina mentre beveva un caffè doppio
con un goccio di latte.
Egli
accennò un mezzo sorriso tra un sorso e l'altro quando si
sedette
accanto a lui per fare colazione.
I
due giovani studiavano all'università di Berlino e
condividevano un
modesto appartamento lontano dal centro, in una zona piuttosto
tranquilla e perciò anche meno costosa.
Si
erano conosciuti al liceo, erano stati compagni di banco per molto
tempo, e ora erano ancora lì insieme.
L'idea di condividere un
appartamento era stata di Marco, perché non si poteva
permettere di
spendere troppo, e Jean si era offerto di divere le spese su
tutto.
In realtà il secondo motivo per cui Marco aveva suggerito
quell'idea, cosa di cui l'amico era all'oscuro, era per poterlo avere
vicino.
Fatta
la colazione tra sguardi sospesi ed ermetici sorrisi, si diressero
insieme all'università e trascorsero tutta la mattinata a
seguire le
lezioni. Consumato un pranzo veloce in un bar, i due si separarono.
Jean
andò a fare la spesa e Marco, che aveva un esame importante
in
vista, si rifiugiò nella grande biblioteca della
città per
studiare.
Rimase
lì nel suo tranquillo angolo di paradiso finché
non si fece buio,
abbastanza tardi poiché era scattata da poco l'ora legale, e
tornò
finalmente a casa dove trovò l'amico ad aspettarlo.
Marco
era troppo stanco per cucinare la cena, dato che aveva studiato tutto
il pomeriggio senza mai fare una pausa, e perciò Jean si
offrì di
farlo lui.
In
realtà quel giorno non era il suo turno -si erano divisi i
compiti
in modo rigoroso- ma lo fece per amore dell'amico.
Sebbene
faticassero ad ammetterlo, sia a sé stessi che all'altro,
erano
innamorati l'uno dell'altro.
Ma Marco era ancora troppo timido per
dichiararsi, cosa strana perché di solito lui non era timido
per
niente, e Jean era il solito idiota che non aveva ancora capito
nulla.
Se
qualcuno da fuori li avesse osservati bene, anche solo per cinque
miseri minuti, si sarebbe accorto di tutto: gli sguardi che si
lanciavano, la reciproca accortezza, i gesti premurosi e le carezze
timide che qualche volta si scambiavano, erano più
esplicative di
quanto non fossero le loro parole in proposito.
I
loro sentimenti erano palesi.
In
realtà, aveva notato, da tempo Jean si comportava in modo
insolito.
Era più silenzioso, tendeva a perdersi
nei propri pensieri più
spesso, qualche volta balbettava e i suoi dialoghi con il coinquilino
si limitavano a cose sull'università o sulle faccende
domestiche.
Per quanto fosse strano, aveva pensato che fosse
dovuto a uno strano
periodo che stava vivendo in quel momento e non ci aveva dato troppo
peso.
Ma
quella sera tutto cambiò.
Marco
si sedette a tavola sorpreso, era quasi impossibile non notare con
quanto sforzo fosse stata apperecchiata.
Non era da Jean impegnarsi in
questo genere di cose, di solito si limitava solo a mettere lo
stretto indispensabile per mangiare.
“E'
un giorno speciale per caso?” chiese Marco, un pochino
entusiasta
all'idea di cosa quel gesto volesse dire.
L'argenteria nuova, i
bicchieri da vino, il centro tavola e sopratutto la candela accesa
lasciavano intendere ben altre cose.
Lui
rise leggermente, parlando con malizia: “Se ti piace
pensarlo, te
lo lascio credere”.
Aveva
persino spento le luci grandi del soggiorno e fatto partire il
vecchio giradischi in modo tale da creare un'atmosfera intima e
personale solo per loro due.
Da
esso risuonava una lieve melodia, era una di quelle canzoni degli
anni cinquanta che a Marco piaceva tanto.
“Davvero,
è tutto così curato nei minimi dettagli che mi
spaventi un po'. Di
sicuro vorrai dirmi qualcosa” affermò.
“Probabile”
rispose ancora enigmatico Jean, con la testa dentro al forno: stava
tirando fuori il pollo arrosto che aveva cucinato.
Sviò
la conversazione per tutto il tempo, distrendo Marco con chiacchiere
sull'università, e solo quando entrambi ebbero finito fece
per
parlare.
“In
effetti c'è qualcosa che vorrei dirti, per questo stasera ti
ho
trattato come un principe”.
“Beh
se lo facessi tutti i giorni non mi dispiacerebbe affatto”.
Lo
invitò a continuare, ma in quel momento Jean fu preso alla
sprovvista da un balbettio inaspettato.
Non riusciva proprio a
formulare una frase di senso compiuto, forse la paura di un rifiuto
l'aveva intimidito.
Sospirò
affranto, per quanto succedesse di rado odiava ogni volta che
accadeva, e l'amico lo rassicurò subito.
“Non
fa niente, puoi sempre dirmelo un'altra volta”.
Poi
si alzò da tavola e gli porse la propria mano.
“Balliamo?” chiese
con un sorriso.
“Ma
questa canzone è triste” obbiettò il
biondo.
“Ma
è la mia preferita. Per favore” fece uno sguardo
supplichevole e
Jean non potè non afferare la mano, convinto dalle sue
parole, e
venne condotto al centro del salotto.
I
loro corpi erano stretti, le mani congiunte, i piedi si muovevano in
modo automatico a ritmo di musica e la testa di Marco si era
appoggiata sulla spalla di Jean.
A
Marco piaceva da matti ballare, ma ancora di più se poteva
farlo con
il suo migliore amico che da tempo serbava un posto speciale nel suo
cuore. Sussurrava le parole della canzone imparata ormai a memoria,
che giunsero all'oreccio dell'amato e gli provocarono un inaspettato
brivido lungo tutta la schiena.
We'll
meet again
Don't
know when
Don't
know where
But
I know we'll meet again
Some
sunny day
Jean
sentiva nel profondo qualcosa di familiare.
Ascoltandola più
attentamente si era accorto di quanto quelle parole gli fossero
simili, come se in qualche modo si rispecchiasse nel testo della
canzone: ma nonostante gli enormi sforzi che impiegò, non
riuscì a
capire il perchè.
La
sua mente vagò confusa, cercando invano di capire cosa c'era
alla
base di quella sensazione strana.
“Jean...
perché stai piangendo?” la dolce voce di Marco lo
ridestò da quei
pensieri e si accorse che delle lacrime stavano scivolando copiose
lungo le proprie guance.
Non rispose, poiché nemmeno lui sapeva
cosa
rispondere, e quindi appoggiò a sua volta il viso
nell'incavo del
collo dell'amico.
Il gesto fu così inaspettato per Marco che
arrossì
con vigore in volto e sorrise beato.
“Cosa
volevi dirmi di così tanto importante prima?”
domandò poi, ma per
la seconda volta a Jean non uscì niente dalla bocca.
“Allora
prova a farmelo capire a gesti” propose.
Era
un'ottima e una pessima idea al tempo stesso, ma tanto prima o poi
l'avrebbe saputo.
Per quanto avesse paura, la canzone gli diede la
spinta necessaria per compiere quell'insano gesto.
Sentiva che, se
anche quella volta non avesse fatto nulla, l'avrebbe perso di nuovo.
Di
nuovo...
Alzò
il viso, le lacrime segnavano ancora il suo volto, e lo
guardò
dritto negli occhi: lo baciò.
Gli prese il volto tra le mani in un
modo quasi disperato e smise di pensare a come avrebbe reagito.
Dopo
qualche secondo si allontanò, rosso in viso, e in un certo
senso
pentito di averlo fatto.
Marco
era evidentmente sorpreso, lo tradiva il suo respiro, ma gli sorrise
subito dopo aver realizzato cosa fosse successo.
Contrariamente alle
aspettative – del tutto infondate- dell'amico, non si era
tirato
indietro. Pensava che il suo cuore avrebbe potuto esplodere da un
momento all'altro.
“Ti
ho sempre amato” sussurrò Jean, così
piano che per poco non fu
udito.
“E mi dispiace se ti ho fatto aspettare
così a lungo, sono
stato uno sciocco ad accorgermene solo quando pensavo di averti perso
per sempre”.
“Non
hai nulla di cui scusarti” si affrettò a dire
Marco, cercando di
dargli conforto.
“Ti
amo da così tanto tempo che stavo quasi per accantonare i
sentimenti
che provo per te dal liceo”.
A
quel punto le parole non servirono più, poiché
sarebbero state solo
inutili.
Jean
lo baciò di nuovo, ancora e ancora, finché non
espresse tutto ciò
che non riusciva a dire.
La
pallida e fioca luce della luna filtrava dalla finestra e raggiungeva
il
salotto buio, dove i due amanti continuarono a ballare ancora per
molto fino a che la canzone non terminò.
Se
mai fossero stati separati dal destino, questo era ciò che
Jean
pensava, prima o poi si sarebbero reincontrati.
Ma in quell'universo
non aveva nulla di cui preoccuparsi: il destino era stato benevolo
nei loro confronti e aveva stabilito che non li avrebbe separati
un'altra volta.
We'll
meet again
Don't
know when
Don't
know where
But
I know we'll meet again
Some
sunny day
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