Na doir sìon dhomh_1
[
Quinta classificata
al contest «In the world of Vampires»
indetto da Marie Cullen ]
Autore: My Pride
Titolo: Na
doir
sìon dhomh,
mo brèagha aingeal [Non darmi niente,
mio bellissimo angelo]
Fandom: Originali
› Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia: One-shot
Genere: Generale,
Drammatico, Thriller,
Sovrannaturale
Avvertimenti:
Parzialmente
Slash,
Non per stomaci delicati
Rating: Arancione
Nota: Questa storia
è uno spin off di Under
a bloody sky e fa parte
della serie St.
Louis ~ Bloody Nights
DISCLAIMER:
All rights
reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale.
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work
is licensed under a Creative
Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
Non
avrei mai pensato che una mattina simile a tante altre potesse
rivelarsi quella
più pericolosa di tutta la mia vita. E
non
era poco, dato il mestiere che svolgevo.
Da
poliziotto a tempo pieno, mi ero ritrovato catapultato in
un
mondo del tutto
estraneo a quello che ero solito definire mio: il
mondo dei vampiri. Esatto,
vampiri. Mi
considerate pazzo? Allora
ascoltate la mia storia, vedremo chi lo è di più.
Voi che
non mi credete, o io che la racconto.
La
debole
brezza estiva si avvertiva per le strade di St. Louis, dove la
gente passeggiava allegra e immersa nei propri discorsi, bagnata come i
marciapiedi dagli ultimi raggi del sole calante.
Poggiato alla carrozzeria della mia
buick, osservavo quella palla di fuoco con
occhi
svogliati, consumando lento una sigaretta mentre aspettavo il mio
compagno. Era entrato nel Fast Food che si
trovava proprio dietro
l’angolo per
comprare qualcosa da mangiare per la serata che ci si prospettava
dinnanzi. Da più di una settimana,
ormai, l’intero
dipartimento era impegnato con un
caso... stranissimo,
avrei osato aggiungere. Erano misteriosamente
scomparse una ventina di persone, e solo poche di loro avevano fatto
ritorno. La cosa bizzarra, però,
erano stati evidenti segni
d’ematomi su tutto il corpo,
più due piccoli fori poco più grandi
d’una puntura d’insetto alla base del
collo o, di rado, profondi solchi d’un cerchio perfetto. In
giro si vociferava di Creature
del Male, di Figli
delle Tenebre che
solo nei romanzi horror o gotici scritti da qualche autore con una
fantasia un
po’ troppo sfrenata potevano esistere.
E persino al commissariato ci credevano. Dicevano tutti,
soprattutto durante la pausa caffè, che ci
trovavamo a
che fare con dei vampiri. Vampiri! Si era mai
sentita un’idiozia
più grande
di questa? Uomini belli e fatti che credevano ad
una favola per bambini. Naturalmente ero molto
scettico, dato che nulla poteva darmi la
certezza che tali creature vivessero realmente fra noi. Il
caso, quindi, proprio per tale motivo, era stato affidato
specialmente
a me e ad alcuni uomini direttamente per ordine del Capo, che mi aveva
minacciato con il ritiro del distintivo se non avessi accettato.
Come avrei potuto ribattere contro tale schiacciante logica?
Sbuffai, creando un anello di fumo che
si
disperse
nell’aria circostante. Gettata
un’occhiata verso il Fast Food, vidi finalmente quel
bontempone
del mio compare attraversare la strada e dirigersi verso di me, con
così tanti
sacchi di carta contenenti hamburger che avrebbe fatto invidia a
chiunque.
«Ehi,
Roy! Gradirei una mano, se non ti scoccia», mi
chiamò
ironico, rovinandomi del tutto quel momento di
tranquillità con me stesso.
Alzai
gli occhi al cielo,
scostandomi qualche ciocca di capelli biondi dal viso.
Li
avevo sempre portati lunghi, e soprattutto in quel
periodo estivo, in cui il caldo si faceva sentire, ero costretto a
legarli in
un’alta coda che mi arrivava a metà schiena.
Scossi
la testa, spegnendo la sigaretta sulla suola della
scarpa con un sorrisino divertito dipinto sulle labbra. Mi
erano tornate in mente le ramanzine del Capo per quella
mia acconciatura. «Arrivo,
Jack, arrivo», rimbeccai, aggirando il muso
dell’auto
per andare ad aprirgli
la portiera. «Entri pure, signorina, l’accompagno
al
ballo di Gala». Accompagnai
le mie parole nel muovere la mano con fare cadenzato,
rendendo il tono derisorio giusto per prenderlo in giro.
Jack borbottò
qualcosa fra sé e sé, fulminandomi con
un’occhiataccia dei suoi occhi nocciola.
«Divertente
come al solito», replicò nell'entrare,
abbandonando sulle
cosce ogni busta senza fregarsene dell’olio che avrebbe
sicuramente macchiato i
pantaloni dell’uniforme.
Ritornai
al posto di guida sghignazzando, inserendo le
chiavi nel cruscotto. Una
veloce occhiata alla sua aria fintamente indispettita,
mi fece capire che ci stava ridendo anche lui per quella mia comica
stupidità. I
capelli, dal taglio sbarazzino come quelli d’un
adolescente, si muovevano al tiepido venticello che entrava,
conferendogli
un’aria bizzarramente infantile con quel broncio. Non
potei evitare di ridere, guadagnandoci un suo rapido
sguardo.
«Che
ti prende, adesso?» mi domandò sbattendo le
ciglia,
alquanto lunghe per un
uomo. Aveva
sempre avuto il volto dal tratto delicato, per quel
che ricordavo. L’avevo
conosciuto sette anni prima, durante le indagini sul
caso d’uno stupratore. Era
da poco entrato a far parte della mia squadra, e fare i
conti con la sua indole allegra e piena di vita era stato
difficilissimo, al
principio. Ma
lavorando a stretto contatto, e cominciando poi a
frequentarci come amici, eravamo diventati inseparabili, quasi fossimo
sempre
stati compagni di vecchia data.
Liquidai la faccenda agitando una mano,
mettendo in moto la buick che partì dopo un piccolo accesso
di tosse. «Niente,
stavo pensando che è da un po’ che non ti vedo
uscire con la tua
ragazza», buttai lì, giusto per rompere il
silenzio e la solita monotonia. «Dovresti
chiedere al Capo un paio di giorni di ferie pagate. Io lo farei e ci
passerei
una notte di fuoco, con quel gran pezzo di figa che ti
ritrovi». Mora
e occhi azzurri, dai lineamenti orientali. Era
una gioia per gli occhi, quella donna. E
lui sprecava il suo tempo così! Fossi
stato in lui avrei subito... uno
scappellotto mi centrò dietro la testa riuscendo a
diradare le mie fantasie erotiche, e mi lasciai sfuggire un lamento
offeso. «Mi
hai fatto male, idiota!» mi lagnai, e stavolta fu lui ad
agitare una mano.
«La
prossima volta impari a fare pensieri sulla mia fidanzata»,
mi ammonì, in
tono severo ma divertito, indicandomi con un dito. «E
comunque, dato il casino
in cui ci ritroviamo, dubito che il Grande Capo mi concederà
delle ferie».
Dovetti
convenire con lui, tornando serio. Era
un periodo di merda, quello. Non
c’era tempo per bisbocce o vacanze. «Hai
ragione», dissi, più rivolto a me stesso che a
lui. «Prima
catturiamo questo killer psicopatico, prima potranno stare tutti
più tranquilli
qui a St. Louis».
Nemmeno
il tempo di dirlo, che a distrarci fu il crepitio
della radio. Vidi
Jack sporgersi per afferrarla, rispondendo svelto. «Qui
volante
12», fece tranquillo, quasi
trattenendo uno sbadiglio.
Un
altro crepitio prima della risposta. “Jack,
Roy, sono io”.
Entrambi
inarcammo un sopracciglio, gettandoci una veloce
occhiata prima che tornassi ad occuparmi della strada poco affollata.
«Strano
che chiami direttamente lei, Capo», esordì Jack,
con una nota
d’inconfutabile perplessità.
Ancora
una volta, quella vecchia radio che avevo installato
nella mia Buick per utilizzarla come auto volante crepitò,
quasi facendoci
pensare che fosse completamente andata. Ma
la voce si fece sentire ancora, seppur disturbata. “Non
l’avrei fatto, se non servisse il vostro aiuto”.
«Arrivi
al sodo, Capo».
“Un
ennesimo omicidio. Sulla statale 21, a Main Street”.
Un
altro sguardo che poteva significare tutto intercettò i
miei occhi quando mi voltai. Addio
serata tranquilla relegati nell’ufficio con quegli
hamburger che scorgevo appena. «Va
bene, Capo, ci pensiamo noi». Prima
che potesse aggiungere altro, la chiamata fu
interrotta e, sbuffando sonoramente e con fare afflitto, Jack
riattaccò, gettando
poi le buste con la nostra cena sui sedili dietro. «Che
scopa torta», borbottò, adagiandosi allo schienale
del sediolino. «Adesso
ci toccano quarantacinque minuti verso l’altro capo della
città».
Sbuffai
anch’io, incassando la testa nelle spalle. In
ufficio, almeno, avrei potuto sonnecchiare un po’. Era
da quasi quattro giorni, che non mi facevo una dormita
come si deve. «Purtroppo
dobbiamo. Jackie», feci sarcastico, ingranando la
terza. «Metti sul tettuccio quel catorcio di sirena, almeno
non ci fermeranno
quando comincerò a guidare come un
pazzo».
Scuotendo
la testa, lui eseguì, scavando un po’ sotto al suo
sedile. «Spero
di non diventare anch’io un cadavere a cui fare
l’autopsia», ironizzò a
sua volta, sporgendosi poi oltre il finestrino per posizionare la
sirena una
volta recuperata. «Sappi che il mio spirito ti
perseguiterà per
l’eternità».
«Non
credo a certe cose», esordii tranquillo. E
non l’avessi mai detto.
Dopo
quasi mezz’ora a sfrecciare sulle strade, eravamo
finalmente giunti sul luogo del delitto, dove altri poliziotti, il
medico
legale e persino due paramedici, erano già al lavoro. La
scena che si presentò dinnanzi ai nostri occhi fu
alquanto sconcertante. I
primi morti era distesi a pancia in giù, con i vestiti
strappati e macchiati di sangue in più punti, come se
fossero stati
semplicemente spruzzati da vernice rossa. Gli
arti inferiori e superiori erano piegati ad
un’angolazione impossibile, e ben si riusciva a scorgere
l’osso insanguinato
che fuoriusciva dal gomito del braccio d’un di loro. Ad
una distanza abbastanza considerevole, non era difficile
scorgere i profondi solchi che squarciavano le loro gole imbrattandole
di
vermiglio. L’altro,
invece, era tutt’altro discorso. Non
c’era nulla di strano, se non si teneva conto del presunto
cadavere. Era
un uomo abbastanza giovane, sui ventidue anni o poco
più. La
schiena era poggiata contro il tronco d’un albero dal
quale cadeva densa come miele la linfa, come se fosse stato vittima
anch’egli
d’una colluttazione. I
capelli, d’uno strano colore tendente all’argenteo,
erano
lunghi e quasi ondulati, e gli ricadevano scompostamente sulle spalle e
sul
viso, nascondendogli parzialmente gli occhi.
Mi
avvicinai di più, mostrando il distintivo. Da
quella distanza, ora, sembrava stesse piacevolmente dormendo. Il
colorito della sua pelle però, rendeva
quell’ipotesi
assurda. Era
pallida, quasi d’alabastro, chiara come una falce di
luna. Si
accostò a me uno degli altri poliziotti, esaminando il
collo come ormai erano soliti fare in molti, anche nel dipartimento in
cui
lavoravo.
Scosse
poi la testa, lanciando uno sguardo ai compagni. «Questo
non ha segni», disse, come se fosse la cosa più
naturale del mondo.
Controllai
anch’io. Il
collo era praticamente perfetto, marmoreo. Qualcosa,
però, attirò la mia attenzione. Avvicinai
di più il viso, incredulo. E
un lieve sospiro simile ad un venticello mi avvolse,
diffondendo in me una sgradevole sensazione e anche un pizzico di
paura, tanto
che indietreggiai, sbattendo il sedere sull’erba.
«Respira!»
esclamai incredulo, facendo voltare tutti nella mia direzione prima
che scoppiassero a ridere all’unisono. Persino
Jack.
Un
poliziotto, che
quando mi voltai appena riconobbi come Harry del nostro distretto,
mi si
avvicinò, dandomi una bella pacca sulla spalla.
«Forse
ti converrebbe riposare, ragazzo», mi disse in tono paterno.
«Il medico
ha stabilito l’ora del decesso parecchio tempo fa,
è impossibile che respiri».
«Ma...
sono sicuro che...», provai a biascicare. Mi
voltai in direzione dell’uomo d’argento. Era
immobile come prima. Eppure
c’era qualcosa che stonava, in quella scena. Qualcosa..
sgranai
gli occhi quando me ne accorsi. Le
labbra non era dispiegate in un sorriso prima, o mi stavo
sbagliando? Forse
quella storia mi stava facendo diventare paranoico. Vedevo
cose dove non c’erano. Proprio
io poi, quello che non credeva in dicerie e
leggende. Quando
anche lui si fece abbastanza vicino, Jack mi aiutò ad
alzarmi in piedi, passandomi un braccio dietro la schiena per sostenere
il mio
peso. Gettò
a sua volta uno sguardo al cadavere, scuotendo
incredulo la testa.
«Mai
visto un tipo più strano», disse semplicemente,
rivolto forse a me come a
se stesso. Mi
accompagnò verso la macchina, seguito dalle risatine
degli altri poliziotti, ma
io ero sicuro di ciò che avevo visto. Il
petto si era alzato e si era abbassato per una frazione
di secondo, dando vita a quel sospiro che mi aveva investito come un
vento
gelido. Non
potevo essermelo sognato. Prima
che potessi rendermene conto, però, immerso
com’ero
nei
miei pensieri, mi ritrovai seduto al posto del passeggero, con Jack al
mio
fianco che aveva già inserito la chiave nel cruscotto.
Guardai
indietro, dove poco distante c’erano ancora i
movimenti affaccendati degli altri. Riportai
la mia attenzione su di lui, chiedendogli appoggio
con lo sguardo. «Tu
mi credi, vero Jack?» domandai, cercando una
risposta affermativa
nell’occhiata che mi aveva appena rivolto.
Scrollò
le spalle, in un gesto che avrebbe potuto
significare tutto o niente.
«Chissà.
Ma devi convenire che la cosa è strana, detta da
te»,
buttò lì in tono leggero, pronto a mettere in
moto.
Provai
a rispondergli per le rime, ma un urlo improvviso
interruppe sia le mie parole che i suoi movimenti placidi. In
simultanea ci voltammo, quasi sbiancando quando i nostri
occhi si posarono sulla scena che ci mostravano adesso. Non
c’erano più i poliziotti, lì. O,
per essere più precisi, erano quasi tutti riversi in una
pozza di sangue. Il
medico si era salvato da quello scempio improvviso e
cercava di scappare nella nostra direzione urlando parole senza senso,
con gli
occhi dilatati dal terrore. Non
capimmo subito il perché. Fu
solo quando quell’uomo cadde a terra, forse colpito, che
un’altra terrificante immagine fece la sua comparsa sulle
nostre retine.
Quel
ragazzo che avevano dato per morto era in piedi in
tutta la sua spaventosa magnificenza, con i capelli che fluttuavano
leggiadri
intorno a lui, simili a lame d’argento. Una
mano era imbrattata di sangue, e la stava leccando
avido, dito per dito. D’un
tratto, forse sentendosi osservato, si voltò verso di
noi, stirando però le labbra in un sorriso. E
fui più che sicuro che quelle che avessero fatto capolino
fossero zanne. Altre
figure poi, fulminee, raggiunsero la prima, quasi
tutte vestite con un lungo abito bianco e lo stesso sorriso, rivolte
anch’esse
verso di noi. Sgranai
gli occhi, allibito. Non
potevo credere a ciò che vedevo.
Riacquistai
un barlume di lucidità, voltandomi svelto
avanti. «Jack!
A tavoletta!» esclamai quasi con una punta
d’isteria, spingendo io
stesso il piede sull’acceleratore quando riuscii a farmi
spazio. L’auto
sfrecciò immediatamente lasciando basito il mio
compagno, che si affrettò poi a portare le mani sul volante,
ingranando le
marce e sgommando così tanto che temetti ci ribaltassimo, ma
questo non bastò a tenere le distanze. Anzi,
quasi non servì a nulla. Quegli
esseri ci raggiunsero in un lampo, correndo
affiancati alla nostra auto come se fossimo noi, quelli a piedi.
Sembravano
dardi scoccati da un arco. Veloci
e aggraziati, tenevano testa alla mia buick. Uno
di loro voltò il viso verso il finestrino dal lato di
Jack, mostrandomi le zanne acuminate e abbaglianti, sulle quali
svettava, così
come sulle labbra, il colore scarlatto del sangue. Era
una donna di grande bellezza, dai lunghi e fluenti
capelli rossi. E
sarebbe apparsa ancor più splendida, se non avesse avuto
quell’espressione terrificante e la gola che le vibrava per
il basso ringhio
che stava emettendo.
«Spara,
cazzo! Spara!» esclamò Jack senza guardare, con le
mani sul volante.
Non
me lo feci ripetere due volte, prendendo la pistola
anche se con mani insicure. Tremavano,
e per togliere la sicura ci misi un po’ troppo
tempo. Quando
presi la mira, però, la vampira era già sparita,
ricomparsa poco distante con quel solito ghigno sul viso diafano. Ad
un suo cenno, un lampo d’argento serpeggiò
dinnanzi a
noi, e prima ancora che potessimo rendercene conto qualcosa
più duro
dell’acciaio sfondò il parabrezza, costringendo
Jack ad una sterzata e poi ad
una sgommata, che ci catapultò al ciglio della strada,
contro un palo. Entrambi
andammo quasi a sbattere la testa violentemente,
storditi. Voltai
debolmente il viso verso Jack, trovandolo riverso sul
volante, immobile. Sembrava
respirare a mala pena, e aveva gli occhi chiusi.
«Jack!
Jack!» esclamai scuotendolo, ma nel far questo una
fitta acuta mi attraversò il capo, quasi lacerandolo. Mi
portai una mano al viso, dove una lunga scia di sangue
sgorgava da un punto difficile da definire, in quel momento di terrore.
Uno
stridio acuto si levò dalle nostre spalle, facendo
tremare la terra e scuotendomi il corpo in un brivido selvaggio.
Venimmo
accerchiati in un batter d’occhio, i visi immoti di
quelle creature non esprimevano nulla, se non una sconfinata sete di
sangue.
Con
le poche forze che avevo mi chinai verso Jack, facendogli
scudo con il mio corpo. Non
l’avrebbero mai avuto. Non
avrei mai permesso
loro di averlo. Sfoderai
la mia arma, puntandola verso quello più vicino.
«Fate
un solo passo e vi sfondo il cranio!» gridai, cercando di non
dare alla
mia voce nessun tremito di paura, nonostante l’avvertissi fin
dentro alle ossa.
I
vampiri parvero osservarsi fra loro, parlarsi con mute
parole che io non potevo sentire. Gli
occhi d’ognuno di loro erano rubini vacui e
inespressivi. Piano,
quasi con leggiadria e delicatezza, la vampira
scarlatta fece un cenno agli altri, che si allontanarono da lei e
dall’auto. Lei
invece si avvicinò, la lunga veste bianca
s’agitò
appena, creando un suono simile al vento che frusciava lieve fra le
fronde
degli alberi. Mi
regalò un sorriso, mostrandomi appena le candide zanne.
«Non
temere ciò che non comprendi, sciocco umano», si
rivolse a me con voce dolce, quasi ammaliante e sensuale. Una
sua mano si alzò lenta verso di me, come a spronarmi ad
afferrarla. Ma
la mia completa attenzione era concentrata solo su Jack,
il cui respiro diveniva sempre più lieve e irregolare, quasi
silenzioso. La
vampira parve accorgersene, perché mi sorrise
maggiormente. «C’è
solo una cosa che può salvarlo», mi disse, facendo
un
altro passo verso il parabrezza ormai in frantumi. «Donargli
il mio sangue e
renderlo mio schiavo».
Quel
suo tono, semplice e senza giri di parole, mi colpì
come uno schiaffo in pieno viso. L’aveva
detto come fosse una sciocchezza, una cosa normale. Ma
come poteva anche solo pensarlo, quell’abominio?
Con
impeto scossi la testa, incurante del giramento che mi
colse subito dopo. «Non
lo toccherai!» gridai contro di lei, alzando di
più la canna della
pistola. «Non metterai le tue sudice mani su di lui,
affatto!»
Le
provocai una sonora risata, a quelle mie parole. Una
risata cristallina, che serpeggiò fra le strade dove il
flebile venticello estivo faceva vibrare piano l’aria intorno
a noi, ora carica
d’elettricità statica. Mosse
qualche altro passo, poggiando con maestria un piede
scalzo sula carrozzeria anteriore della mia auto, senza abbandonare
quel suo
dolce, quanto falso, sorriso. «Per
quanti secoli possano passare, voi umani non cambierete
mai», mormorò con voce suadente, avanzando
delicata, senza il minimo rumore. «Ma
non preoccuparti, mio piccolo e patetico uomo, tu e il tuo amico avrete
un
destino diverso da quello di quei poliziotti di cui ci siamo
cibati». Pronunciò
tali frasi con una tale e glaciale calma, che mi
sentii rabbrividire anche io.
Provai
a scuotere ancora Jack, mentre lei continuava ad
avanzare. Si
chinò dinnanzi al vetro rotto, scansando alcuni frammenti
prima di allungare il viso verso di me. Con
una forza sovraumana mi afferrò il mento, costringendomi
a guardarla. Il
suo sguardo, contrariamente a quanto mi aspettassi, non
mi incantò, ma bastò a raggelarmi ancor
più di quanto non avessero fatto le mie
parole.
«E’
uno spreco ammazzarvi», sussurrò ancora,
mielosa. «Siete
entrambi dotati di grande bellezza... e io colleziono le cose belle,
non le
distruggo». Avvicinò
maggiormente il viso, sfiorandomi poi il collo con
le sue candide zanne. Serrai
gli occhi con il terrore che mi mordesse, ma non
successe nulla di tutto ciò, anzi. Le
sue labbra accarezzarono la mia pelle per una frazione di
secondo, prima che si allontanasse e alzasse entrambe le braccia al
cielo ormai
scuro, puntando gli occhi all’astro notturno che irradiava il
paesaggio. «Il
momento è arrivato, figli miei», disse ancora,
pacata. «Da questa notte,
il rito comincia».
Non
capii le sue parole, ma con la coda dell’occhio vidi
quelli che ormai capii essere suoi seguaci muoversi, per avvicinarsi a
loro
volta all’auto. Sgranai
gli occhi, allibito, contraendo il viso in una
smorfia. Continuai
a proteggere Jack, che non aveva ancora schiuso le
palpebre. Il
ragazzo dai capelli d’argento era in testa al gruppo, e
continuava a sorridermi. Passi
sicuri, passi ammalianti e rapidi. Nemmeno
riuscii a rendermene pienamente conto, ma si erano
avvicinati tutti abbastanza da poterli squadrare bene negli occhi. E
prima che potessi anche solo pensare di premere il
grilletto dell’arma che ancora stringevo, qualcosa di duro
come il ferro mi
colpì il capo. Poi,
ci fu solo un enorme vuoto.
Riaprii
gli occhi solo parecchio tempo dopo. Avevo
la vista sfocata, e in quella semioscurità in cui mi
trovavo, scorgevo troppo poco per rendermi pienamente conto di dove mi
trovassi.
Provai
a muovermi, ma non ci riuscii. Qualcosa
sembrava bloccare il mio intero corpo. Spaventato
mi guardai intorno, non vedendo nulla oltre il
mio naso. Un
braccio però andò a sbattere contro una parete,
probabilmente di legno dato il rumore che aveva provocato
nell’impatto.E
agitando ancora un po’ le braccia e le gambe, incontrando
la morbida consistenza del velluto, capii il luogo in cui ero stato
chiuso. Ero
in una bara, porca puttana!
Cominciai
ad urlare a pieni polmoni come un ossesso,
tempestando il coperchio in probabile legno d’ebano con
entrambi i pugni,
strepitando e scalciando. Sapevo
che era una cosa stupida, quella che stavo facendo. Avrei
solo consumato ossigeno. Ma
ciò che non sopportavo, era trovarmi in un luogo stretto
e buio. Non
soffrivo di claustrofobia, ma era più forte di me.
«C’è
qualcuno?! Fatemi uscire!» presi a gridare, ormai in
preda all’isteria. Non
ricevetti, com’era prevedibile, nessuna risposta. E
la paura cominciò ad impossessarsi pienamente di me.
Continuai
ad urlare e ad urlare per chissà quanto tempo,
incurante della gola che ormai mi bruciava e chiedeva solo riposo.
Andai
avanti per quelle che, per me, valsero ore. Finché,
finalmente, un debole spiraglio di luce non trafisse
le tenebre in cui mi trovavo. Mi
schermai gli occhi semi accecato, cercando nel frattempo
di focalizzare la figura che mi si parava dinnanzi e che mi stava
offrendo una
mano. La
presi senza nemmeno pensarci, riconoscendo in quel nuovo
arrivato il mio salvatore.
E
l’avrei anche ringraziato, se non avessi finalmente messo
a fuoco la sua figura. La
prima cosa che notai, furono i suoi lunghi capelli
d’argento. Poi
il suo sorriso. Lo
stesso che gli avevo visto dipinto in volto accanto
all’albero.
«Ci
hai messo un po’ per riprenderti»,
esordì con voce
pacata quella creatura, rendendo il tono quasi gorgogliante e
ammorbidendo il
suono delle vocali. Forse
era straniero.
Gli
lasciai immediatamente la mano provvedendo da solo ad
uscire da quel feretro, allontanandomi il più possibile da
lui mentre cercavo
nel frattempo di non inciampare. Mi
sentivo le gambe deboli, forse a causa della posizione
che avevo dovuto sopportare fin’ora. Il
suo sguardo, d’uno strano colore che tendeva fra
l’ambra
e il rubino, mi seguì per tutto quel mio breve percorso,
mentre le labbra,
carnose e piene nonostante il velo livido, non abbandonavano il sorriso
che mi
aveva rivolto.
«Devo
supporre che tu abbia paura di me»,
constatò
con velato divertimento, rimettendo il coperchio al cataletto in modo
da
potersi sedere sopra, a gambe accavallate. Indossava
adesso un abito di foggia antica, come quelli che
si usava portare solo nel sedicesimo o diciassettesimo secolo. Un
morbido solino gli cingeva con delicata maestria il
collo, mentre calzoni di un bel velluto nero, forse seta, gli
fasciavano con
perfezione le gambe lunghe e forti, dai polpacci ben definiti. Stivali
di cuoio calzati ai piedi per completare il tutto,
con un piccolo tacco.
Respirai
a fatica, osservando la sua immagine. Era
di una bellezza incomparabile. Nonostante
fosse un uomo, aveva in sé una nota fanciullesca
che sminuiva tale immagine, rendendolo femmineo e aggraziato come non
mai. Deglutii
di riflesso quando ancora una volta mi rivolse un
sorriso. Sembrava
pacatamente divertito.
«Puoi
tranquillamente accomodarti», esordì con cortesia.
«Non
ti mangio mica».
Quell’ultima
frase la fece risuonare con sarcasmo, o almeno
quella fu l’impressione che ebbi quando la
pronunciò. Aveva
anche senso dell’umorismo, il vampiro. Davvero
perfetto.
Indietreggiai
maggiormente quando lui si mosse un po’ sul
feretro, accostandomi al muro come se potesse in qualche modo
proteggermi dalla
creatura che mi squadrava o da possibili attacchi alle spalle.
Mi
era stato insegnato di tenere sempre gli occhi aperti, in
polizia. Qualsiasi
situazione si fosse presentata.
«Dov’è
il mio compagno», feci invece senza dar peso alle sue
parole, cercando di rendere la mia domanda un’affermazione
imperativa che
esigeva risposta.
Il
vampiro d’argento incurvò maggiormente le labbra
in un
sorriso cortese, e facendo un semplice gesto con la mano destra mi
indicò un
punto della stanza, dove una porta in legno d’ebano, che
sulle prime non avevo
notato, era appena socchiusa. «In
buona compagnia», rispose semplicemente, omettendo altri
dettagli, ma
essere a conoscenza di quello non mi bastava né mi
tranquillizzava. Sapere
che Jack era nelle mani di quei mostri succhia sangue,
e che per giunta era ferito, non faceva altro che farmi piombare un
peso nel
cuore.
Sentii
d’improvviso la gola secca, deglutendo ancora più
che
potei.
«Cosa
volete da noi?» chiesi ancora come un ordine, vedendo
quella giovane creatura accigliarsi, forse per il tono che avevo usato.
Freddo
e distante, lo stesso tono che ero solito utilizzare
quando mi trovavo ad interrogare un presunto sospettato.
Mi squadrò a lungo con quei suoi occhi attenti, senza dire
una parola. Sembrava
voler scrutare nella mia anima con quello sguardo
imperturbabile. E
più cercavo di distogliere il mio, più mi
incatenava non
permettendomelo. La
testa poco a poco mi sembrò più leggera,
così come il mio
intero corpo. Avevo
quasi la sensazione che stessi fluttuando nell’aria,
come una nuvola che veniva lentamente trasportata via dagli zefiri.
Caddi
a terra in ginocchio, credo, o almeno mi sembrò di
farlo, poiché vidi il vampiro chinarsi verso di me per
alzarmi il mento. Aveva
abbandonato la sua postazione in modo d’avvicinarsi. Il
suo tocco era ancor più di ghiaccio, e mi ritrassi
d’istinto
quando fui sicuro d’aver riacquistato il controllo, seppur
parziale, dei miei arti. Strinsi
gli occhi per non guardare nuovamente i suoi,
sentendo fluttuare nell’aria intorno a me l’ombra
leggera d’una risata.
«Son
tante le nostre intenzioni, sciocco umano», mi rispose
infine, ad una
spanna dal mio viso, con voce soave e sottile sussurrata appena al mio orecchio.
«Ma presumo tu
convenga con me che se te ne parlassi dovrei ucciderti,
nevvero?» Ad
ogni sua parola sentivo il cuore battere all’impazzata
contro le pareti del mio petto, come mai era successo in tutta la mia
vita. Nemmeno
due anni prima, durante una sparatoria, avevo avuto
così paura di morire. Me
l’ero fortunatamente cavata con una profonda ferita al
fianco - la cicatrice era ben in vista nel
suo pallore e nella sua ruvida superficie - e
con un colpo di
striscio al
braccio destro. Quella
volta credetti d’aver vissuto il peggior momento
della mia vita. Ritrovandomi
però dinnanzi a quella creatura, dovetti
ricredermi. Io,
Roy Evander, avrei finito lì i miei giorni.
Fui alzato bruscamente da terra e richiamato alla realtà,
scorgendo attraverso le palpebre semi-abbassate il volto pallido e
perfetto del
vampiro che mi squadrava, quasi con rinnovata curiosità.
Forse
avrei potuto fare qualcosa, fuggire. Avevo
ancora la fondina ascellare, in fondo, la sentivo. Ma
non ero sicuro che anche la mia 9mm fosse lì riposta. Provai
ad adocchiarla appena chinando lo sguardo, ma prima
che potessi riuscirci venni maggiormente issato per il colletto, con
una sola mano,
dalla sua forza sovraumana. Sembrava
che stesse tranquillamente alzando una piuma, dato
il suo volto ancora perfetto dove non si vedevano i segni di un qualche
sforzo
fisico.
«Hai
ben sentito la mia Nobile Madre,
però», riprese lui, con quella mielosa cadenza.
«Lei non distrugge le cose
belle... or dunque, come posso disubbidirle senza cader vittima della
sua
collera?» Lo
disse come se stesse cercando un qualunque aiuto da parte
mia. Aiuto
che non gli avrei assolutamente dato, visto che era la
mia vita quella in gioco. In
quel momento, mi diede quasi la stupida impressione del
gatto che giocava con il topo. Lo
stancava bloccandogli di continuo la coda prima di
finirlo una volta per tutte. Forse
stava facendo proprio quello con me, quel vampiro. Si
stava prendendo gioco di me prima di chiudere lì la
partita, anche a costo di andare contro il volere di quella maestosa
vampira
che sembrava aver con lui stretti legami di parentela.
Un
nuovo e radioso sorriso incurvò quelle labbra sottili,
che giusto qualche attimo dopo si avvicinarono pericolosamente al mio
viso. Potei
sentire il suo fiato sul collo, il lieve spostamento
d’aria che creò fu abbastanza potente dal farmi
correre un ennesimo brivido
lungo la schiena. Odorava
insolitamente di fiori selvatici - Iris, forse -
quasi un leggero profumo di
brughiera che qui a St. Louis era impossibile da percepire.
Era
scandalosamente quanto pericolosamente eccitante,
quell’odore. Quasi
mi vergognai dei miei stessi pensieri quando sentii il
vampiro ridere piano, con garbo. Un
suono proveniente proprio dal fondo della sua gola, come
il basso latrato d’un cane. Anche
quello parve uno scampanellio, un assonanza di colori
e forme. Incredibile
a dirsi, certo. Ma
fu quello che provai nel sentirlo.
«Perché
non farti restare in vita,
invero?» continuò la
creatura, carezzandomi con distratta dolcezza una guancia e il collo.
«Potrebbe
essere divertente... ne convieni?»
Provai
a muovere le labbra per replicare, ma da esse non
uscì alcun suono anche quando lo feci. Stordito
come se fossi stato colpito violentemente alla
bocca dello stomaco sgranai gli occhi, tentando più e
più volte d’emettere
anche una sola parola. Fu
inutile, poiché sentii appena un flebile lamento.
Ero
stato io? Mi
terrorizzai, divincolandomi in fretta per scansarmi da
lui e cercare di farmi il più lontano possibile da quei suoi
poteri
sovrannaturali. Ancora
una volta mi guardò e sorrise, decidendo però di
non
seguirmi, stavolta. Forse
aveva giocato abbastanza.
Non
ci pensai dunque due volte e portai una mano alla fondina,
pronto più che mai ad estrarre la pistola se era ancora
lì riposta. Dovetti
però ricredermi quando sentii un altro fruscio e un
veloce movimento al mio fianco, come se una lama di vento mi fosse
passata
accanto nella sua invisibilità.
«Volevi
usufruire di questa?» mi sentii chiedere, e quando finalmente
riportai
l’attenzione dei miei occhi su quel volto snello e scialbo
potei notare cosa
reggeva in una mano. Porca
puttana, anche la 9mm era fottuta! Barcollando
mi alzai in piedi più che potei, anche se mi
tenni un po’ curvo. Non
volevo altre sorprese, se potevo evitare almeno quelle.
Il
vampiro non smise di sorridere un attimo, maneggiando ben
presto la pistola come se non fosse la prima volta che la impugnava. Tolse
la sicura e caricò un colpo, puntandolo con mia
sorpresa contro il palmo della mano libera.
I
suoi strani occhi mi guardarono, anch’essi
ammiccanti. «Averla
o meno non ti sarebbe servito a nulla», parve quasi
volermi informare, con tono di chi sta tenendo una lunga lezione di
filosofia. «Avresti
ottenuto solo quest’effetto».
Non
ebbi nemmeno il tempo di capire bene la situazione.
Con
un movimento fluido e felino trasferì un dito sul
grilletto, sistemando l’angolazione della canna in modo che
prendesse di mira
proprio il centro del suo palmo. Poi
un suono cupo e sordo riempì la stanza in cui ci
trovavamo, facendomi dolere le orecchie. Immediati
susseguirono altri dodici colpi finché non si
sentì solo un click e poi un altro click, simbolo che la mia
Browning era
scarica o si era inceppata prima della munizione extra. Rimasi
scioccato però quando vidi il vampiro sorridere
soddisfatto. Non
osservava me, bensì la sua mano aperta e fumante.
Accorgendosi
del mio sguardo sconvolto, si girò nella mia
direzione, lasciando cadere la pistola ormai inutilizzabile sul
pavimento prima
di mostrarmi la mano sulla quale si era sparato.
Seppur
lo stessi vedendo con i miei occhi, non riuscivo a
crederci. I
bossoli delle pallottole erano esplosi e schiacciati, come
se avessero colpito qualcosa d’estremamente duro. Un
muro di mattoni o di cemento. L’unico
segno ben visibile era il tracciato nero della
polvere da sparo che spiccava sinistramente contro il colorito pallido
della
pelle di quella creatura. Quei
colpi non gli avevano fatto nulla. Non
avevano nemmeno scalfito una mano, come avrebbero potuto
trapassargli il petto? Semplice:
non ci sarebbero mai riusciti anche se la pistola
fosse stata in mano mia.
«Come
puoi vedere non siete attrezzati per affrontarci», mi
prese in giro lui, rendendo il tono mieloso denso come non mai.
«E io non sono
poi così anziano, come vampiro».
Mi
ritrovai ancora una volta a deglutire, nonostante non
avessi voluto darglielo a vedere. Mai
mostrarsi intimidito di fronte al malvivente che ti
trovavi ad affrontare. Lui,
però, non rientrava in quella categoria. E
aveva maledettamente ragione. Per
i vampiri nessuno di noi era attrezzato, giù al
dipartimento. I
capoccioni non l’avevano mai ritenuto necessario.
O,
almeno, non fino a quel momento.
Sotto
il mio sguardo, lasciò cadere a terra i bossoli che
risuonarono con un tintinnio metallico contro il pavimento di marmo. Boccheggiai,
addossandomi al muro più che potei. Quel
sorriso che dardeggiava sempre più su quelle labbra
così sottili mi faceva sentire a disagio. Sentivo
brividi scorrermi lungo la schiena, simili a piccoli
tremiti che scuotevano il mio corpo.
Una
sua mano mi sfiorò parzialmente il viso quando si
avvicinò abbastanza, e quasi d’istinto strinsi gli
occhi per costringermi a non
vedere quelle candide zanne che avevano appena fatto capolino dalla sua
bocca. Il
suo respiro freddo mi sfiorò il collo, il suo profumo mi
invase le narici. Stavo
cominciando a prepararmi al peggio quando s’udì
appena
il lieve cigolio d’una porta, poi la presenza di qualcun
altro aleggiare per la
stanza.
La creatura allontanò
il viso dal mio e, attraverso le
palpebre
semi dischiuse, potei notare che la sua attenzione si era concentrata
sulla
soglia della camera.
Lì,
immobile e con la schiena ben dritta, si trovava un
altro vampiro che osservava entrambi con blanda curiosità e
distacco.
Appuntò
appena la curiosità dei suoi occhi color smeraldo
sul mio viso prima che lo vedessi distogliere lo sguardo, come se per
lui la
mia presenza non lo sfiorasse neppure. E
se dovevo essere sincero, a me andava bene così. Meglio
essere preso di mira da un solo succhia sangue che da
due.
«Nobile
Dante, la vostra Somma Madre attende voi e il
sacrificio», avvertì quel nuovo arrivato
richiamando la mia attenzione e quella
del vampiro d’argento. «Si è raccomanda
che non la facciate attendere oltre per
l’iniziazione». Fece
un piccolo inchino, come a volersi prostrare ai suoi
piedi.
Vidi
il vampiro chiamato Dante agitare distratto una mano,
forse per indicare che la questione per lui era di ben poca importanza.
«Vai
pure, Sebastian», quasi sembrò accordare in tono
saccente. «Comunicale che raggiungeremo lei e il Consiglio a
breve».
«Come
desidera, signorino», fece in risposta, ancora con il capo
chinato.
In
silenzio come era arrivato se ne andò, lasciandoci
nuovamente soli. Lo
sguardo del vampiro si concentrò solo e unicamente su di
me, riaccendendo la fiamma di paura che si era insinuata nel mio animo
quando i
miei occhi incontrarono i suoi. Erano
inespressivi, certo. Ma
nelle loro profondità sembravano imperversare lacrime e
tormenti. Ancora
una volta quelle labbra si incurvarono in un perfetto
sorriso, prima che il vampiro mi facesse cenno di seguirlo con un
semplice
movimento del capo. Non
mi alzai e non gli diedi a vedere che avevo capito del tutto, o quasi, le sue intenzioni,
limitandomi a restare rannicchiato in quell’angolo come una
bestia in gabbia. Gli
provocai però una sonora risata, vedendolo scuotere il
capo. Quasi
sembrava che la situazione lo divertisse.
«Non
sarò costretto a farti del male se decidi di seguirmi di tua
volontà», mi
disse infine in tono canzonatorio, sebbene sembrasse volermi spronare
a credergli
«Ma se così non fosse non mi costa nulla portarti
dalla mia Nobile Madre di
peso».
Ancora
una volta deglutii, poggiando le mani contro il muro
come per sostenermi in qualche modo. Sentivo
le gambe terribilmente malferme. Quasi
temetti che non mi sostenessero ma, per mia fortuna,
non fu così. Sarebbe
stato solo un ostacolo in più se non fossi riuscito
a muovermi come si deve.
A
passi cadenzati, il vampiro s’avvicinò a me,
afferrandomi
il mento come a volermi costringere a guardarlo ben in viso.
Strinsi
immediatamente gli occhi per evitare di incontrare i
suoi, non volendo ripetere lo stesso errore in cui ero incappato poco
prima. Parve
ancor più divertito dal mio modo di fare, perché
rise
nuovamente. «Vedo
che impari in fretta, poliziotto», mi derise ancora,
carezzandomi lascivo
una guancia. «Ma questo non basterà a farti
restare vivo, se non collabori».
«Ho
affrontato situazioni ben peggiori», mi azzardai a ribattere
immediatamente, sebbene io stesso sapessi di mentire in modo fin troppo
palese. Nessuna
delle situazioni in cui mi ero trovato, difatti, era
lontanamente paragonabile a quella che stavo in quel momento vivendo.
Dovevo
trovare il modo per restare vivo e scappare, portando
con me Jack una volta trovato. Mi
rifiutavo di credere che per lui non ci fossero più
speranze.
Rise
ancora, circondandomi il polso con una
delle sue mani senza che potessi fare qualcosa per impedirglielo. «Dubito
che questa sia una di quelle solite routine che voi
poliziotti di St. Louis siete soliti affrontare, mo
gòrach bàn», mi
sussurrò all’orecchio, utilizzando nuovamente
quella voce densa e mielosa seguita da quel lieve accento straniero.
Non
riuscii a capire la lingua che usò ma, ancor prima che
provassi anche solo a formulare un pensiero mi strattonò
malamente portandomi
verso la porta con una forza sovraumana. Sembrava
che fossi un bambino tirato via dal chiosco di
caramelle dal genitore.
«Lasciami
andare, figlio di puttana!» provai a divincolarmi
inutilmente,
sempre
tenendo gli occhi chiusi nonostante sapessi che quella non sarebbe
stata la
mossa migliore. Ma
meglio inciampare in qualcosa che cader vittima del suo
sguardo incantatore. Aveva
solo le palpebre semi aperte, giusto per tener
d’occhio i suoi movimenti lenti e calcolati.
Lo
vidi, attraverso il pizzo nero delle mie ciglia, voltarsi
appena verso di me per afferrarmi per le spalle, mollandomi
così il polso. Non
appena fui libero tentati di colpirlo allo stomaco, ma
lui fu più veloce di me scomparendo come un’ombra
per riapparire alle mie
spalle. Stavolta
sgranai gli occhi voltandomi velocemente verso di
lui, riuscendo appena a scorgere il lampo delle sue perle prima che
venissi
inesorabilmente issato di peso. Continuai
a divincolarmi e a biascicargli insulti che
rimbombarono nel grande corridoio pieno di quadri, non ottenendo
null’altro che
qualche risatina soffocata. Non
riuscivo a credere a ciò che stava accadendo. Non
poteva assolutamente essere vero.
Per
tutto il tragitto non provai a fare altro che tentare di
scappare dalla sua presa, sentendomi sempre più come un topo
in trappola che
tentava di sfuggire al gatto in qualche modo.
Ci
ritrovammo ben presto in una vasta sala illuminata dalle
candele e dalle fiaccole accese. In
un quasi immenso spazio bianco erano disposti a cerchio
una miriade di vampiri, e tutti osservavano in alto, dove una cupola in
vetro
dava la perfetta visione del cielo notturno. La
luna e le stelle brillavano in quella volta celeste,
riversando la loro morbida luce argentea in quella sala in cui ci
trovavamo e
rendendo spettrale la pelle candida di quelle creature.
Concentrato
com’ero ad osservare quella terrificante quanto
splendida scena, mi accorsi solo in un secondo momento della presenza
di
qualcuno a me familiare accanto ad uno di loro.
Al
fianco della vampira dai capelli di fuoco, composto e
vestito con un abito nero che gli fasciava perfettamente il corpo, si trovava nella
sua fierezza
Jack. Il
mio Jack.
Sentii
il mio viso tramutarsi in una maschera di sofferenza,
quando vidi la sua espressione vuota.
«Jack!»
esclamai, richiamando su di me l’attenzione di tutte
le creature lì presenti. La
mia bocca venne tappata dalla fredda mano del vampiro di
nome Dante, che mi spinse poi più innanzi chinando a
malapena il capo in
direzione di quella calca senza badare minimamente a me che cercavo di
liberarmi in qualche modo. Guardavo
ancora Jack, senza riuscire a capacitarmi di quello
che era successo. Non
parlava, non muoveva un dito nonostante stesse
assistendo alla scena. Sembrava
solo una marionetta nelle mani di quella vampira.
«Perdoni
la sua irruenza, Nobile Madre»,
esordì la creatura che mi teneva stretto a sé.
«Lo terrò d’occhio io, cominci
pure la cerimonia senza preoccuparsi».
Provai
a gettare uno sguardo al suo volto, trovandolo
distante e senza alcuna sfumatura. Se
avevano in mente qualcosa, ancora non riuscivo a capirlo. Cos’era
questa cerimonia
di cui parlavano? Vidi
con la coda dell’occhio la vampira dai capelli di
fiamme sorridere al suo indirizzo con vaga indulgenza, come una
premurosa madre
che accontentava in un qualche capriccio il figlio.
E
fui quasi spaventato dallo sguardo che lei mi rivolse in
seguito. Avvolse
le braccia intorno alla vita di Jack con il fare di
un’amante comprensiva, ottenendo da lui appena una veloce e
vacua occhiata,
come se non gliene importasse. Poggiò
il mento sulla sua spalla sfiorandogli il collo con
le labbra piene, passandogli la punta della lingua sulla pelle in un
gesto
ricco d’erotismo. Mi
costrinsi a distogliere lo sguardo quando vidi le sue
zanne affondare nella sua vena, non potendo urlare nulla a causa della
mano che
ancora mi copriva la bocca.
Dentro
di me gridavo senza tregua. Volevo
che ci lasciassero liberi, o che lasciassero andare
almeno Jack. Sentii
un suo gemito doloroso e il risucchio continuo della
vampira, dovendo poi trattenere un conato di vomito a quel suono.
Fui
costretto ad assistere al resto dall’altra mano di
Dante, che mi afferrò il mento per voltarmi la testa verso
il mio amico e sua madre. Lo
vedevo accasciato fra le sue braccia, con un’espressione
così appagata dipinta in volto che sarebbe stata
riconducibile al sesso. Ma
il sangue che colava inesorabilmente dal suo collo non
dava quest’impressione. Non
si oppose né cercò di respingerla, lasciandosi
solo
andare maggiormente contro di lei, quasi affondando nel suo prosperoso
seno.
Sgranai
gli occhi, sempre più allibito. Non
poteva essere l’uomo che con cui lavoravo, quello. Non
poteva essere il caro amico che avevo conosciuto. Lui
non avrebbe mai permesso che gli facessero ciò a cui
stavo con così tanto orrore, ne ero sicuro.
Ma
quella sensuale quanto mortale danza continuò ancora e
ancora, finché non vidi infine le guance di Jack tingersi
del pallido colore
della morte. Solo
a quel punto la vampira smise di bere il suo sangue,
prendendolo fra le braccia ed avanzando al centro di quella calca, dove
la luce
della luna illuminava maggiormente il pavimento immacolato.
Cercai
di gridare ancora qualcosa, sentendo quella mano dura
come l’acciaio tapparmi completamente la bocca, quasi
soffocandomi. Vidi
la vampira adagiare con cautela il corpo di Jack al
centro di quel cerchio, carezzandogli lievemente il viso e il collo
macchiato
di sangue. Il
suo petto si alzava e si abbassava piano, con lentezza e
irregolarità, quasi senza scandire realmente il ritmo del
suo respiro. Ancora
una volta provai a divincolarmi, vedendo quei vampiri
avvicinarsi ancor di più al corpo del mio amico disteso in
terra.
Sempre
più vicini, quasi ad una spanna da lui. Gli
occhi mi si riempirono inesorabilmente di lacrime, quando
fui conscio che non avrei potuto far nulla per impedir loro di fargli
ciò che
volevano. Gridai
contro il palmo di quella mano parole biascicate e
senza significato alcuno, tentando in qualche modo di distrarli e
portare su di
me la loro attenzione. Ma
fu tutto vano. Uno
di loro gli prese il polso mordendoglielo senza ritegno,
un altro s’avventò vorace sul suo collo dove i
fori provocati dalle zanne
dell’anziana vampira ancora sanguinavano. Più
di uno si concentrò nell’incavo del suo gomito e
all’interno delle sue cosce, vicino ai genitali. E
tutto questo stava accadendo sotto il mio sguardo. Ero
miseramente inutile mentre li osservavo dissanguarlo,
mentre sentivo le sue urla adesso che sembrava aver ripreso il
controllo della
sua mente. Lo
vidi lottare, tentare di allontanarli. Ma
erano in troppi.
Le
lacrime mi offuscarono l’orlo delle ciglia quando vidi un
ultimo fremito scuotere il suo corpo prima che braccia e gambe si
abbandonassero al suolo, immobili. Una
mano di ghiaccio m’accarezzò il viso come a
volermi dare
conforto mentre vedevo il sangue di Jack sul pavimento, sulle labbra di
quei
vampiri che si voltavano verso di me per rivolgermi un sorriso e un
lampeggiar
di zanne. Il
tocco leggero continuò, sfiorandomi anche il petto. «Non
piangerlo mo
chridhe, la sua vita è appena
cominciata», quel sussurro fu lieve e
accorato, denso e dolce al tempo stesso. «Nulla è
stato lasciato al caso, lui
vivrà». Come
si poteva considerare vita, quell’Inferno in cui
sembravano esser caduti tutti loro? Non
volevo quel destino per Jack. E
nemmeno per me. Avrei
preferito morire.
Quella
mano m’accarezzò con ancor più lentezza
mentre vedevo
uno dei vampiri issar da terra il corpo ormai martoriato di Jack, la
cui testa
ciondolava appena dalle sue braccia. Gli
occhi erano chiusi, come se stesse dormendo. Chinò
appena il capo verso l’antica vampira la creatura che
reggeva Jack, come a volerle prestare omaggio, prima di dirigersi a
passo
cadenzato verso di noi. Non
ebbi il tempo di divincolarmi dalla presa e allungare
verso di lui una mano che fu subito portato via, sparendo dalla porta
da cui
noi eravamo entrati. Ancora
una lieve carezza, delle labbra che mi sfioravano il
collo.
«Il
rito è cominciato», un ennesimo mormorio
suadente. «Quegli
stolti umani comprenderanno ben presto cosa significhi soffrire... il
cielo si
tingerà di sangue e solo voi, che portate i nostri marchi,
vi salverete da
quell’Inferno».
Non
compresi ciò che volesse intendere finché non fu
lui
stesso a mostrarmelo. Sentii
due punte aguzze affondare nella mia carne, e sgranai
gli occhi atterrito. Tremai,
tentando di liberarmi in qualche modo. Ma
ogni mio tentativo fu completamente vano. Il
risucchio cominciò, facendomi girare la testa, i battiti
del mio cuore aumentarono d’intensità.
Quel
che era accaduto a Jack stava inesorabilmente accadendo
anche a me. E
benché io avessi continuato a dire che era stato tutto un
errore, che non avrei mai dovuto trovarmi lì, quel giorno,
nulla fu più bello e
doloroso di quel nostro drammatico inizio.
_Note
conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
che vi presento oggi, dopo il ritorno dalle vacanze, è la
prima storia Originale che posto, scritta per il contest indetto da
MarieCullen “In the world
of vampires”, dove si è
classificata quinta.
Ammetto
di essere un po' delusa, non tanto per la posizione, ma per il fatto
che la storia non abbia riscontrato i gusti della giudice
perché
troppo violenta. Non per dire, ma in una storia di vampiri che cosa ci
si potrebbe aspettare se non un po' di sangue e violenza? Il genere
alla Twilight non mi piace per niente, quelli son vampiri paciocconi
che non dovrebbero nemmeno avere questo nome - Dracula sentitamente
ringrazia e getta in aria secoli e secoli di vita passata a nascondersi
fra le ombre a nutrirsi di sangue -, quindi non comprendo lo
storcimento di naso per l'essermi attenuta al tema che avrebbe dovuto
fare da perno del contest stesso.
Non mi dilungo troppo, mi son già espressa con la giudice
stessa. Qui di seguito il suo commento, spero che almeno a voi sia
piaciuta. Alla prossima.
Quinto
Posto: Na doir sìon dhomh, mo
brèagha
aingeal [Non darmi niente, mio bellissimo angelo]
Autore: My
Pride
- Correttezza
grammaticale e sintattica, ortografia:
8/10
- Stile, forma e lettura
scorrevole: 8.5/10
- Originalità:
9/10
- Attinenza al tema e
ai parametri posti: 7.8/10
- Sviluppo della trama
e caratterizzazione dei personaggi: 8/10
- Giudizio personale:
7/10
Commento personale:
Storia molto carina,
probabilmente una di quelle che mi sono piaciute di più.
Nonostante non sia esattamente il mio genere - un po’ troppa
violenza in effetti e un linguaggio alquanto colorito - l’ho
trovata molto originale e ben scritta. I personaggi sono molto ben
curati e la grammatica e quasi del tutto
eccellente.
Purtroppo non ho potuto aumentare il punteggio del giudizio personale
poiché, come spiegato prima, non rientra in ciò
che mi appassiona. Non mi dilungo, rischio di diventare noiosa.
Concludo dicendo che nel complesso è una storia che merita
di essere letta.
Punteggio
totale: 48.3/60
punti.
Messaggio
No Profit
Dona
l'8% del tuo tempo alla
causa pro-recensioni.
Farai
felici milioni di
scrittori.
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