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Mad Tea Party -
ATTO
SECONDO, SCENA SESTA
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Le Perplessità della Rosa dell’Inverno (e i Ventidue Anni del Giglio Bianco)
Ci
godè. Ah, se ci godè.
Poté
dire di averci goduto come un porco. Tutto ciò senza falsi pudori e allarmismi
di sorta.
Ci
godé quando la porta si chiuse, ascoltò con soddisfazione somma e lurida il
movimento regolare di quella grossa e pesante tavola di legno che scorreva
inesorabile su cardini ben oliati. Sul volto un sorriso di trionfo e giubilo
che avrebbe fatto invidia a quello di un generale tornato vittorioso da una
guerra.
Un
solo, sonoro ed invidiabile SBAM!
Il
suo tenero cuore cantò. Di pura gioia, naturalmente.
E
sul suo appartamento calò il silenzio.
Finalmente,
dopo settimane di chiacchiere, di casino e di Takeshi
piantato a casa sua per non dire di solitudine praticamente zero, il silenzio.
Tornò
a godersela e lo fece schifosamente e con particolare zelo.
Ora
per prima cosa si sarebbe messo su una bella tazza di tè nero aromatizzato al cioccolato anche se faceva un caldo talmente bastardo che il
suo primo desiderio in occasioni normali sarebbe stato buttarsi dritto dentro
al frigo e farsi casa lì stile vecchio sarcofago.
Poi
ci avrebbe aggiunto tanto per gradire due o tre bignè alla crema di sua
esclusiva creazione e avrebbe mandato due accidenti alla
linea gustandoseli nella sua ritrovata e mai tanto amata Santa Pace.
Ah,
che bella era la vita…!
Creek.
…creek?
C’era
qualcosa in casa sua che emetteva quel tale curioso rumore da unghia che
raschiava su una lavagna?
Non
gli risultava.
Creek… creek.
Non
stava vedendo nessuno dei suoi amati film dell’orrore.
S’era
forse rotta la tubatura della doccia?
Creek… creek…
creek.
Sì,
era decisamente meglio che s’alzasse e controllasse.
Quando
tuttavia si sollevò in piedi pronto a far cessare con le buone o con le cattive
la fonte del disturbante e sottilmente inquietante rumore, lo sguardo gli cadde
su un paio di borsoni stracolmi poggiati alla bell’e meglio nell’atrio.
Creek, creek,
creek.
Sospirò
e si diresse verso la porta di ingresso con passo debole. Pareva che il
qualcuno che aveva appena sbattuto fuori di casa non avesse intenzione di
arrendersi tanto presto. Eppure non gli risultava di avere abbandonato un
animale…
Il
suono veniva proprio da dietro la porta chiusa.
Afferrò
la maniglia, l’abbassò, tirò.
Si
trovò davanti uno sguardo tanto luccicante di speranza che quasi lo abbacinò. Oh
per gli dèi del cielo! Due occhi nocciola lo implorarono da sotto in su. Come
quelli di un cane che vuole l’osso.
«
Mana! Allora ci hai ripensato! »
Camui stava accucciato davanti alla porta di casa. Camui
gli aveva grattato la porta. Come un
maledetto cane, come un maledettissimo cane che vuole la sua ciotola di cibo
quotidiana e non ce l’ha. E ora lo guardava. Lo guardava.
Lo guardava.
Lui,
semplicemente, ricambiò lo sguardo e non parlò.
Non
parlò ma in compenso sollevò entrambi i borsoni con una facilità che ebbe del
paranormale e glieli tirò dietro badando bene di schiantarglieli dritto in
direzione della testa e pregando che ci si soffocasse.
Gli
andò male, Camui li evitò spostandosi di qualche
passo e senza manco alzarsi.
«
Pessima mira, Mana-chan. »
«
Modera i termini. »
Con
nonchalance chiuse la porta.
«
Manaaa! Ti prego ti prego ti prego fammi entrare! »
Il
rantolante lamentoso guaito che gli giunse fortunatamente ovattato dagli spessi
centimetri di puro legno che li separavano bastò comunque a provocargli un
accenno di mal di testa. Ma no, lui non l’avrebbe fatto entrare, oh no!
Aprì
la porta.
«
Mana ti adoro! »
“Mana
ti adoro” aveva fra le mani un giornale arrotolato. Accuratamente arrotolato.
E
per Gackt fu troppo tardi.
Come
si slanciò in avanti per abbracciarlo sotto l’onda di un subitaneo impeto
affettuoso e letale, così l’inamovibile Mana alzò un singolo braccio, quello
col giornale, col movimento fluido e sinuoso di un cobra sputatore che sferra
il colpo decisivo. E più o meno col medesimo grado di acidità.
«
A cuccia! »
Calò.
Inesorabile e letale come una sferzata di vento dell’artico calò quel pezzo di
carta arrotolato dritto in faccia a Camui, che non
fece in tempo ad emettere gemito.
«
Sono stato fin troppo gentile con te. È ora che inizi a camminare con le tue
gambe, Satoru Okabe, visto
che l’intraprendenza non ti manca. E come ultimo regalo, tieni. »
Gli
porse con garbo il giornale arrotolato, sospettando peraltro vista la sua
faccia che poche altre persone avessero avuto l’ardire di dirgli frasi del
genere in precedenza.
Quella
che gli aveva dato, in effetti, era una simpatica rivistina
piena di annunci di affitti che – sospettava – sarebbe tornata molto utile al
suo vocalist.
«
E mi raccomando, non prendere freddo stanotte. Se ti viene il mal di gola sono
cazzi. »
Sì,
e con ogni probabilità gli sarebbe preso il mal di gola e sarebbe stata solo
colpa sua che l’aveva cacciato fuori di casa, povero cucciolo! Gli venne da
ridere alla sola idea e sospettò che una mezza risata gli fosse pure uscita
solo quando vide Gackt guardarlo con una faccia a
metà tra l’incredulo, l’implorante e l’incazzato nero. Ah be’,
affari suoi.
«
Oh, ma visto il caldo che fa sarà difficile che tu ti
prenda un malanno, vero? »
Glielo
disse con sul volto un sorriso di tenerezza talmente
spudoratamente falso che per un attimo ebbe voglia di farsi schifo da solo.
Solo un attimo, per inciso.
Ciò
detto, si girò chiudendosi la porta alle spalle e ridendo sonoramente,
lasciandosi dietro un ragazzo di ventidue anni dai lunghi capelli castani e
dall’ugola d’oro che probabilmente gli stava tirando dietro qualche
maledizione.
Si
fece il tè, lo zuccherò abbondante come piaceva a lui e si mise i due
pasticcini su un piattino.
Ora
si cominciava a ragionare!
Si
scostò con una mano le lisce chiome nere legate in una coda, che ondeggiarono
mentre si sedeva sul ben noto divano bianco.
Mancava
ancora qualcosa.
S’alzò
di nuovo e s’avvicinò con passo svelto allo stereo che teneva sopra un mobile
dall’altra parte del salotto. Tirò giù un CD dalla cima di una paccata
che stava lì accanto e lo inserì alzando il volume al massimo. Pochi istanti
dopo l’aria di quell’appartamento e probabilmente anche di quelli accanto fu
satura della ben nota e riconoscibile linea di basso di Burn dei The Cure. E lui se la
suonò tutta gozzovigliando al centro della stanza con fra
le braccia un invisibile basso fatto d’aria. Doveva ripassare anche con quello,
sì, doveva.
Se
lo ripeté mentre fingeva di suonare.
«
“ ‘Oh don't talk of love’ the shadows purr, murmuring me away from you…”
»
Ahia,
lo aspettavano i bignè! Non aveva tempo per mettersi a canticchiare come un
dilettante!
Andò
a sedersi per la trecentesima volta e ne assaggiò uno.
Gli
erano usciti bene stavolta, al terzo tentativo. Non dolci da stomacare e la
crema era densa al punto giusto. Bene bene, avrebbe dovuto premiarsi.
"Don't talk of
worlds that never were
The end is all that's
ever true
There's nothing you can ever say
Nothing you can ever do... "
Prese
un sorso di tè, che s’era ormai freddato al punto giusto. Deglutì lentamente.
Quell’album ce l’aveva particolarmente a cuore. E come mai? Risposta semplice e
quanto mai ovvia.
Il Corvo era uscito solo da qualche mese, lui ovviamente
era andato a vederlo e s’era tirato dietro tutta la combriccola – tranne Takeshi e la sua schifosa abitudine di chiacchierare invece
di guardare i film ritrovandosi poi a dover chiedere un riassunto che nessuno
era in grado di dargli, perché grazie a
lui del film nessuno ci aveva capito nulla. Era uscito dalla sala con gli
occhi a cuore, e quella sera era stata conseguenza logica ed imperante andare a
procurarsi la colonna sonora, con gli altri che l’avevano seguito perché
lasciarlo da solo quand’era esaltato in quel modo non se ne parlava.
Oh,
c’erano i The Cure, gli Stone Temple Pilots, i Nine Inch Nails e i Pantera tra gli altri. Bastava? A lui
sì. Dei Pantera s’era perfino
regalato Far Beyond
Driven per il compleanno, gentili loro che
avevano fatto uscire l’album giusto pochi giorni prima.
Fra
l’altro, ora che ci pensava, doveva anche leggersi il secondo volumetto de Il Sigillo dell’Ariete Rosso. Non gli
andava di alzarsi ma per amor del sapere lo fece.
Il
reparto manga di casa sua si trovava in corridoio e occupava in totale un paio
di mensole belle lunghe. E – non si vergognava a dirlo – era nutrito da una
folta schiera di shoujo.
Gli piacevano in particolare quelli pubblicati su Hana To Yume e non
disdegnava Betsucomi, ma riviste non ne
comperava fondamentalmente perché preferiva leggersele a scrocco e tenersi i
volumi da collezionare. Facevano bella figura e davano un tocco di colore
contro il bianco del muro.
Tirò
giù il manga che cercava, dalla caratteristica costina bianca in cima e il
resto grigioverde. Storse il naso. Strano, di solito ai manga di Hana To Yume mettevano il blu.
Era
ancora con il naso immerso fra le pagine, sbragato sul divano come solo nei
suoi momenti migliori sapeva fare, e stava per l’appunto producendosi in un
applauso a Merediana, la protagonista che finalmente
aveva trovato il coraggio di liberarsi dalle grinfie del malvagio oltreché bellissimo
dottor Jezebel Disraeli,
quando suonarono alla porta.
Lo
stereo stava mandando i Pantera.
Sulle
prime pensò che forse il cane guaente, ops, Camui Gackt.
Tuttavia,
da sotto le note della cover di The Badge
e sopra – incredibile! – i ruggiti di Phil Anselmo, udì distintamente una
voce chiamarlo.
«
Mana-chan! Apri, sono Közi!
»
Sempre
uno ce n’era, sempre uno!
Quando
aprì la porta aveva la testa china di lato e una smorfia accigliata sulle
labbra sottili.
«
Koji », disse.
Közi, momentaneamente tornato Koji Hagino causa Diavolo Per Capello di Mana – che poveraccio
si voleva solo godere un po’ di solitudine, c’è da dargliene atto – si guardò
attorno inarcando leggermente le sopracciglia.
«
Ti si sente fin dal pianterreno. »
«
Buono a sapersi. »
Közi rise.
«
Ti ho preso nel momento sbagliato? »
«
I miei momenti oggi sarebbero stati tutti sbagliati, per cui uno vale l’altro.
»
Abbassò
comunque la musica e fece segno all’amico di accomodarsi.
«
Ti porto il tè, aspetta un attimo. »
«
No, niente tè grazie! Meglio una bella birra ghiacciata se ce l’hai. »
Naturalmente
ce l’aveva.
Gliela
portò e si sedette accanto a lui, scrutandolo con una certa aria indagatrice. Közi comunque se la prese comoda, scolandosi due lunghe
sorsate di birra prima di parlare.
«
Fa un caldo assurdo oggi, eh? »
«
Viva i condizionatori. »
Algido
come la morte e nessun altro modo per descriverlo.
Koji non si lasciò impressionare.
«
E allora come mai il tuo lo tieni spento? »
«
Fa male alle ossa tenerlo acceso tutto il giorno come fai tu. »
« Ma sentilo il
vecchietto! »
«
Ne riparleremo quando avrai ottant’anni e l’artrite ti avrà piegato come una
fisarmonica. »
«
Ma io ho caldo adesso, mica fra sessant’anni! »
Manabu Satou non era tipo da abboccare a
simili tranelli, per cui continuò a scrutarlo e non rispose. Decise invece di
cominciare a farle lui le domande.
«
Che ci fai qui? »
«
Uh? »
«
Non sei certo venuto a parlare del meteo. E nel caso fosse così, be’ se non te ne sei accorto i ciliegi sono fioriti e
sfioriti da un bel pezzo, ergo fa caldo,
c’è il sole e continuerà a esserci il
sole. »
Közi rise di nuovo e bevve un altro sorso.
«
Ho saputo che hai sfrattato il vocalist. »
Mana
si irrigidì e drizzò ben bene le orecchie. E così il ragazzo era già andato a
lamentarsi e a diffondere malignità sul suo conto eh? Bene, buono a sapersi
anche quello. Se la legò al dito.
«
Dì pure che il vocalist si è sfrattato di suo pugno. »
Non
batté ciglio e guardò l’amico che finiva la birra, poi s’alzò per andare a
buttare la bottiglia vuota. Quando tornò, l’espressione sorniona del biondo
chitarrista che lo osservava non s’era ancora spenta.
«
E allora? Cos’ha combinato? »
Mana
rimase in silenzio.
«
Ha allungato le mani? »
«
Semplicemente ho deciso che era ora che si trovasse casa per affari suoi invece
di stare a rompere a me. »
«
Non lo facevo tanto fesso. »
«
Hai sentito quello che ti ho detto? »
«
Ha allungato le mani ed è per questo che tu l’hai cacciato in fretta e furia.
Giusto? »
Se
Hagino Koji era riuscito a
non sorprendersi fino a quel momento, lo fece certamente in quel medesimo
istante. Osservò il viso di Manabu cambiare
espressione, passare da una sorta di quieta stabilità al principio di una
madornale incazzatura e infine al vuoto. Al più totale, indescrivibile e
inarrivabile vuoto. Lo sguardo che campeggiava nelle iridi nere di Mana
solitamente tanto luminose era quello di uno che a pensare ci sta provando sul
serio ma pensa che ti pensa non arriva a nulla. Era
uno sguardo che fissava l’aria come se quella avesse avuto le risposte che
cercava, e sulle sue labbra campeggiava la medesima smorfia irritata con cui
aveva cacciato Gackt Camui
un paio d’ore prima e aperto la porta a lui poco dopo.
Dopo
minuti e minuti di silenzio, minuti nei quali Közi
aveva curiosato un po’ per tutta la stanza e soprattutto per la collezione di CD e vinili, da quelle labbra uscì infine un
debole biascichio.
«
Mal di testa mal di testa mal di testa mal di testa… »
Sopracciglia
corrugate e sguardo innegabilmente perso.
«
Cioè, tu ieri notte ti sei preso una botta colossale eh? »
Se
possibile quel paio di sopracciglia sottili e curatissime si corrugò ancora di
più.
«
Non mi parlare di botte. Di nessun tipo. »
«
Va bene, come vuoi. Comunque lui non mi ha detto nulla eh. Me ne ha parlato Kami: mi ha telefonato poco fa e stava ridendo fino alle
lacrime come un dannato bastardo. Ora Satoru sta da
lui a quanto pare. »
E
bravo Okabe, l’aveva reso il mostro della band con le
sue scenette lacrimose.
«
Dì a Ukyo di cacciarlo immediatamente se non vuole
essere costretto ad aprire la porta a me nelle
prossime quarantott’ore. »
«
Ho come la sensazione che Kami si sappia difendere
meglio di te, sai? »
Mana
non colse l’ironia.
«
Quello è una specie di mostro delle arti marziali, combatte come un
professionista. Voleva fare a botte perfino con Yuuji,
figurati. »
«
Con Kamijo? »
Manabu annuì lentamente, senza smettere di guardare fisso e
drammaticamente torvo l’aria che aveva di fronte.
«
Andiamo bene. »
Era
vero. Andavano proprio, magnificamente bene.
Il
caldo lo stava facendo stramazzare. Ma quanto, quanto, quanto era maledettamente calda Tokyo?
Oddio,
Hiroshima era a sud e pure lì non è che si stesse chissà quanto meglio. Però
era umido, talmente umido che come si faceva una doccia e usciva era di nuovo
sudato e se ne doveva fare un’altra. E come se non bastasse ci mancavano i
negozi coi loro cavolo di condizionatori sparati tipo
cella frigorifera, che appena ci entravi ti ibernavi e quando uscivi il
raffreddore era assicurato. Si trattenne dal dire di peggio.
E
quei tre mentecatti che erano i restanti musicisti della band, sì tre perché Camui non contava, che l’avevano sbattuto a fare compere
con quel caldo soffocante e con un sole che minacciava di scioglierlo a ogni
passo e non s’erano manco degnati di accompagnarlo!
La
cavalleria è morta, pensava Mana, è talmente morta che quando qualcuno se ne
ricorderà penserà che c’entrino le cavallette invece delle buone maniere. E le
cavallette domineranno la
Terra.
Inforcò
meglio gli occhialoni da sole sul naso, calandosi il cappello sulla fronte e
procedendo al passo più rapido che le temperature da fornace gli consentivano.
Che
cos’è che l’avevano mandato a comprare poi? Dei fuochi d’artificio.
Sì,
dei fuochi d’artificio di quelli che uno qualsiasi di loro tre scemi avrebbe
potuto comperare in un Combini. Ma
no, avevano dovuto mandarci lui. E per cosa poi?
Perché
era luglio, avevano detto, era estate, e si doveva festeggiare andando a fare
un giro in spiaggia, e che estate era senza fuochi d’artificio? L’estate di un
branco di sfigati.
Come
se a lui fosse davvero importato qualcosa di quella stagione del cavolo. Solo
da piccolo si era divertito a raccogliere gusci di cicala durante il periodo
della muta, ma i suoi buoni rapporti col periodo estivo finivano decisamente
lì.
Faceva
caldo, e lui il caldo non lo sopportava. Già quella sarebbe stata una
motivazione sufficiente. Ma no, non bastava ancora, perché al caldo
s’aggiungeva il fatto che sudava come un bastardo e gli toccava cambiarsi millemila volte al giorno in più di quanto non facesse già
di solito. Infine, se si scottava erano guai perché gli restavano pellicine e
ustioni anche per mesi.
Ergo,
evitare. Evitare come la peste.
Ma
evidentemente era proprio destino che gli andassero tutte storte.
Cercò
di riacquistare una sua dignità comprando senza discutere i fuochi che gli
avevano chiesto, poi decise che non ce la faceva più nemmeno a fare shopping
per cui prese il treno e se ne tornò a casa.
Era
fissato per dopodomani, dunque.
Il
quattro luglio.
Una
volta tornato, accendere il condizionatore fu esattamente la seconda cosa che
fece. La prima era stata accasciarsi sul divano e respirare un po’ d’aria fresca.
Sul
treno ci aveva pensato, comunque, e d’un tratto la questione fuochi d’artificio
non gli pareva più così malsana. Alla fine si sarebbe pure divertito,
sospettava.
Perché,
per quanto strano potesse sembrare a un osservatore esterno, lui era uno che di
suo si divertiva con poco. E una bambinata come i fuochi d’artificio era
esattamente quello che sarebbe bastato ad esaltarlo alla grande. Solo che si
guardava ben bene dall’ammetterlo.
«
Ah… », sospirò « Devo avvisare anche Takeshi e Kamijo. »
Sì,
buonanotte. Avrebbe pensato più in là anche a quello.
E
buonanotte fu davvero, perché qualche minuto dopo stava ronfando come un
angioletto.
«
Etciù! »
Starnutì.
Quella
era la maledizione che gli aveva tirato addosso Camui, ne era sicuro quanto del suo naso che colava.
Non aveva contato gli starnuti, ma era almeno al centesimo di quella serata
decisamente da dimenticare.
E
la mattina dopo avevano anche le prove accidentaccio, e lui sapeva
perfettamente che non era il caso che le saltasse. Però insomma… poteva
immaginare quanto l’avrebbe sfottuto Közi, mentre Yu-ki e Kami se la sarebbero
ridacchiata sotto i baffi. E Gackt… be’ Gackt era meglio non
immaginarselo neppure.
Ci
pensò su con dovizia di energie e per lunghi minuti silenziosi, e dopo almeno
altri dieci starnuti optò per una telefonata al suo caro amico Koji Hagino. Pregando di non
doverlo declassare dopo la conversazione.
Si
sentì rispondere al sesto squillo, perché quello scemo di un chitarrista non
rispondeva mai prima del sesto squillo. In casa sua la musica era anche più a
palla che a casa di Mana, quindi Közi aveva tutti i
motivi per prendersela comoda. Non sentiva niente che andasse al di là del
rimbombo di qualche brano industrial sparato da far tremare i vetri alle
finestre.
«
Pronto? »
Tossicchiò
un poco prima di parlare, come per enfatizzare ciò che stava per dire.
«
Sono Manabu. Domani non vengo alle prove. »
Dall’altro
capo del filo gli giunse un silenzio che fu imbarazzante in modo quasi
vergognoso.
«
Che ti prende? Non è da te saltare le prove. »
Di
nuovo si schiarì un pelo la voce, più per nascondere lo sforzo inumano che gli
costava dire quell’unica parola che per reale necessità.
«
…raffreddore. »
Biascicò
quel termine più rapidamente che poté e pregò che l’amico avesse capito tutto
tranne quello.
Ancora
una volta calò il silenzio, cosa che non gli fece presagire niente di buono.
«
Ahahahahah! »
Közi stava ridendo. E ciò fece capire a Manabu
Satou che quel ragazzo voleva proprio essere
declassato. Doveva tenerci proprio tanto, a giudicare da quanto se la stava
spassando.
«
E poi chi era che doveva arrivare a ottant’anni piegato come una fisarmonica? »
Mana
si rifiutò anche solo di commentare. Semplicemente attese.
Peccato
che lo scroscio d’ilarità di Közi durò parecchio,
perfino più di quanto Mana si sarebbe aspettato. Fortuna volle che il suo self-control per una volta non lo avesse
abbandonato.
«
Hagino, cerca di darti un contegno. »
«
Capisco, capisco. Vuoi essere in forma per dopodomani, vero? »
Anche
qualora fosse stato davvero così, non l’avrebbe mai ammesso neanche sotto la
tortura del solletico.
«
Voglio solo evitare di appestare tutta la band. »
«
Hai comprato quello che ti avevamo chiesto? »
«
Secondo te per quale ragione sono ridotto così? »
«
E che ne so, magari qualcuno ti ha tirato il
malocchio. »
Mana
scosse il capo, tirando su col naso. Quello era fin troppo probabile.
«
Andrò a farmi esorcizzare. »
Közi ridacchiò un’altra volta.
«
Accidenti a te e alla tua mania di chiamare la gente per cognome quando ti
incazzi! »
Chiuse
silenziosamente gli occhi neri.
«
Non sono arrabbiato », mormorò.
«
Però in questo momento ce l’hai a morte con te stesso. »
Sì,
era vero. Perché avrebbe saltato le prove e perché s’era ammalato come il primo
dei cretini. E, in qualche misura, anche per aver cacciato Camui
di casa.
Inutile,
Közi era proprio il suo migliore amico. Lo capiva
meglio di tutti e su questo c’era poco da obiettare. Lo salutò e mise giù la
cornetta, per poi andarsi a sedere sul divano con un sospiro.
Alzò
lo sguardo e guardò torvo il condizionatore.
«
Accidenti a te », sussurrò.
Lo
spense.
La
mattina di due giorni dopo aveva due occhiaie color piombo che toccavano terra.
Certo,
s’era trattato di un banale colpo di freddo, sarebbe bastata una giornata di
riposo al caldo – ed era sufficiente spalancare una mezz’ora le finestre per
avere il caldo – e il raffreddore
sarebbe sparito con la velocità con cui era arrivato.
Questo
se Mana fosse stato una persona dalla mente lineare.
Peccato
che Mana non fosse una persona dalla mente lineare. Proprio per niente. Era
anzi una persona di quelle che per certi versi facevano di tutto per
complicarsi l’esistenza con le loro stesse mani, così tanto per vivacizzarsi un
po’ le giornate.
Difatti
Manabu Satou non era andato
alle prove. Non era andato alle prove ma in compenso se ne era uscito di casa
alle cinque del mattino, coperto solo da una maglietta a maniche corte e dai
pantaloni della tuta. S’era guardato attorno con tutto il febbrile distacco di
un’anima che sta per andarsene al fronte e aveva infilato una mascherina bianca
a coprirgli bocca e naso, poi s’era legato per due volte i capelli – la coda
era storta verso destra –, s’era sistemato le scarpe da ginnastica e aveva
goduto del fresco che ancora indugiava nell’aria limpida prima dell’alba.
Era
ancora notte nera, con tanto di stelle a luccicargli in giù dal cielo. Le aveva
guardate ed era stato colto dalla tentazione di salutarle facendo loro un ciao
con la mano.
Aveva
fatto loro ciao con la mano, s’era stiracchiato ed era partito.
Ad
attenderlo il suo solito giro dell’isolato mattutino, sempre di corsa e sempre
quando il resto del mondo ancora dormiva. Il che era una balla, perché qualche
deficiente in giro in realtà lo beccava sempre.
Un
semplice raffreddore non l’avrebbe fermato di certo.
Dopo
aver sistemato quella faccenda, se ne era tornato al suo appartamento e s’era
fatto una doccia. Poi s’era reso conto di avere mal di testa e di stare
rabbrividendo. Il che era sottilmente anomalo e in qualche misura allarmante.
Aveva preso il termometro.
Il
responso era stato presto dato: qualche linea di febbre, ebbene sì.
Dopo
avere inarcato uno splendido sopracciglio che iniziava a necessitare di una
sfoltita, aveva sputato una maledizione diretta a un punto imprecisato della
sua camera da letto. Cielo, stava iniziando a diventare volgare come quei bruti
che aveva per compari.
Comunque,
e questo andava detto, non s’era perso d’animo. C’erano volte
infatti in cui il suo pragmatismo verso le vicissitudini dell’esistenza
raggiungeva i livelli di guardia. Quella era una di queste volte. Senza
lamentarsi oltre aveva preso una garza adesiva fredda, se l’era appiccicata
alla fronte, s’era preparato da mangiare e aveva ingoiato due aspirine per poi
infilarsi nel letto come un bravo bambino.
Tutto
questo senza battere ciglio e mentre fuori faceva già un caldo allucinante.
Proprio
mentre stava per addormentarsi, però, era squillato il telefono. Con previdenza
se l’era portato accanto al letto perché di alzarsi non se ne parlava proprio,
non con la debolezza che si sentiva addosso. Aveva allungato una mano pallida
oltre il bordo del letto e aveva risposto.
Era
sua madre, Ayaka Satou.
Sempre con tempismo perfetto.
«
Ciao Manabu, come stai? »
Male
stava, e aveva avuto la netta sensazione che a sentir quelle parole gli fosse
calata la pressione.
«
Bene, mamma. »
Si
era costretto a dirlo, ma probabilmente le parole gli erano uscite più
strascicate di quanto non avesse voluto.
«
Che ti prende? Hai la voce rauca. »
Aveva
tossicchiato un poco.
«
Raffreddore. »
«
A luglio? »
Sua
madre era parsa sorpresa.
«
Perché, non si può? »
Non
c’era assolutamente bisogno che ci si mettesse anche lei a rammentargli la sua
stupidità.
«
Hai preso qualcosa? Che so, un’aspirina… »
«
Sì. »
Ne
aveva prese due.
«
Mangi regolarmente? »
«
Sì. »
E
poi, in un attimo di risvegliata vanità, aveva aggiunto: «
Cucino meglio di te e lo sai benissimo. »
«
E le cose come vanno? Col gruppo, dico. »
Mana
s’era girato nel letto, mettendosi supino.
«
Abbastanza bene. Ho trovato un nuovo vocalist, tra poco dovremmo ricominciare.
»
«
Ah sì? E che tipo è? »
«
Si chiama Satoru Okabe, è
di Okinawa. »
«
Okinawa? Da così lontano? »
«
Io non venivo certo da vicino. »
Quella
donna non avrebbe mai potuto ribattergli su niente, c’era poco da fare. Del
resto, Mana da qualcuno doveva pure avere preso. Da lei, nella fattispecie.
«
Poi vi farò sapere quando faremo il primo live con la nuova formazione. So bene
che a te e papà non importa nulla della mia musica, ma fatelo sapere alla
sorellina nel caso volesse fare un salto. »
«
E cosa ti fa pensare che la spediremmo fino a Tokyo? »
«
Venire a trovare il fratellone non è una scusa sufficiente? E poi siamo seri, Hinako ha quasi ventun’anni e il
fatto che abbia scelto un’università a Hiroshima non cambia il fatto che ormai
s’è fatta la sua vita come me la sono fatta io. Io alla sua età ero a Osaka a
suonare. »
Tutto
quel parlare gli stava seccando la gola.
«
Sì… suppongo che tu abbia ragione. »
La
voce di sua madre s’era fatta seria, Mana l’aveva notato subito e non aveva
ribattuto oltre.
Era
perfettamente consapevole d’essere stato la pecora nera di famiglia e in larga
parte d’esserlo ancora, e non gradiva che quel suo status gli venisse
rammentato.
«
Be’, dovevi dirmi qualcosa? »
«
Uh? »
«
Perché hai chiamato? »
«
Non posso telefonare per sapere come sta il mio primogenito che non torna mai a
casa? »
Manabu aveva esalato un sospiro, chiudendo gli occhi e passandosi il
dorso della mano sulla garza che aveva appiccicata in fronte.
«
Sì, puoi, puoi. Ora però se non ti dispiace stavo per mettermi a letto. »
«
Riguardati, mi raccomando. »
«
Sì. Ciao, ma’. »
Aveva
buttato giù con uno schianto senza manco controllare di aver riagganciato come
si deve, s’era girato su un fianco dando le spalle al telefono e non aveva
parlato più.
Infine,
dopo un sonno irrequieto durato qualche ora, s’era
svegliato che era pomeriggio e aveva ricordato di avere qualcosa da fare.
Ci
aveva pensato su, guardando il soffitto con gli occhi lucidi per la febbre.
Ci
aveva pensato su e s’era alzato.
Quelle
occhiaie spaventose erano per l’appunto il risultato degli strapazzi del giorno
precedente. Aveva dovuto darci una bella mano di correttore e nonostante tutto ancora si vedevano. Perlomeno, comunque, la febbre era
passata e anche il raffreddore sembrava aver deciso di dargli una tregua. Per
il resto aveva optato solo per un po’ di fondotinta, giusto in modo da
uniformare l’incarnato che altrimenti avrebbe avuto un colorito a metà tra il
cinereo e il giallognolo.
Erano
circa le dieci di una splendida mattinata estiva piena di sole e di belle
speranze quando si presentò nella nuova tana di Gackt
Camui, ossia casa Kamimura,
indossando una T-shirt degli Slayer
sopra un paio di pantaloni neri e piuttosto larghi e corredando il tutto con un
paio di bracciali borchiati e gli immancabili occhiali da sole. Questi ultimi
parevano leggermente fuori posto nel complesso, ma chiedere a Mana di levarseli
con quel sole sarebbe equivalso a chiedere a un asino di volare. I capelli li
aveva raccolti sopra la testa con una grossa pinza, in modo da tenerseli lontano
dal collo. Poco sotto l’informe massa nera delle chiome facevano capolino le
cinghie di un piccolo zainetto, che aveva certamente ritenuto più pratico vista la situazione, e in mano gli spuntava un
cappello alla pescatora del solito splendido colore
nero.
Era
quello che avrebbe altrimenti definito “abbigliamento informale”.
Sfortuna
volle che ad aprire la porta fosse Satoru Okabe detto Gackt Camui.
Che
lo guardò.
Mana
ricambiò l’occhiata senza abbassare la testa di un solo millimetro.
«
Ciao! » lo salutò Gackt, con
gli occhi un po’ larghi per la sorpresa. Era evidente che non se l’aspettava di
vederlo lì a quell’ora del mattino.
«
…ciao. »
Fortunatamente
in quel momento s’affacciò Kami, che si stava
spazzolando i lunghissimi capelli color mogano.
«
Ciao Mana! Come stai? »
Il
chitarrista si batté le mani sulle cosce, e nel farlo una ciocca di capelli
neri gli cadde sugli occhi. La soffiò via.
«
Ancora in piedi, come vedi. »
«
Sono contento. Devo ammettere che ieri ci hai fatto preoccupare tutti, già è
raro che ti ammali, figurati saltare le prove! »
Mana
inarcò un sopracciglio, poco convinto.
«
Tutti? »
Kami sorrise, in quello strano modo rassicurante che solo a lui
riusciva tanto bene.
«
Sì, anche questo qui! » e diede una pacca sulle spalle
a Gackt, ridendo.
Manabu rimase interdetto. Mai quanto Satoru,
comunque.
«
Mi dispiace », disse comunque guardando altrove.
«
Poco male, l’importante è che tu ti sia ripreso. »
Ukyo lo fece accomodare e gli offerse qualcosa da bere, che Mana
accettò di buon grado mentre si levava gli occhiali.
Gackt intanto stava guardando il chitarrista come se lo
stesse vedendo per la prima volta.
«
Mi spieghi che ci fa lui qui? » chiese a Kami.
«
La mia presenza ti è forse sgradita, Camui? »
Mana
sprigionò quel commento caustico con un sogghigno sul bel volto, osservando di
striscio il vocalist che tentava di legarsi gli ormai lunghi capelli castani
con scarsi risultati.
«
Dai qua. »
Non
seppe bene perché, ma si alzò in piedi e gli prese l’elastico dalle mani.
Indugiò un poco prima di andare a legargli i capelli, e socchiuse le palpebre.
«
Non sei abituato a portarli lunghi, eh? »
Gackt sorrise.
«
Già… »
Mana
chiuse gli occhi.
«
Ecco fatto. »
Gli
sistemò le ciocche e si rimise seduto, senza rivolgergli un solo altro sguardo
e osservando invece il bicchiere ormai vuoto che aveva fra le mani.
Perché
qualsiasi cosa fosse accaduta quella notte, e non era neppure certo che fosse
successo alcunché, probabilmente Mana lo aveva già perdonato.
Sì,
doveva essere davvero così.
«
Mi dite cosa diavolo state organizzando tutti quanti? »
La
voce di Gackt Camui suonò
alle sue orecchie come una specie di rantolo incredulo.
Le
teste di Mana, Kami, Yu-ki
e Közi si girarono a guardarlo.
«
Ah, non te l’avevano detto? »
«
Ma dai, che strano. »
«
Scusaci, mi sa che ce ne siamo dimenticati. »
Mana
si limitò ad ascoltare quei commenti bevendo sorsate del tè ghiacciato che gli
aveva gentilmente dato Kami, a cui tra l’altro era
stato rifilato il compito di preparare i cestini del pranzo visto che Manabu non si sentiva bene. Il chitarrista era quindi
pronto a scommettere che alla fine sarebbero stati costretti a buttarsi sui bento preconfezionati del supermarket.
Ringraziò
il cielo di averci pensato per tempo e di aver preparato al volo qualche onigiri, tanto per stare sicuro che qualcosa da mangiare
l’avrebbero avuto.
«
Oggi andiamo al mare! » stava dicendo Közi « Viste le
belle giornate, ci siamo detti, perché non staccare un po’ e andare a farci un
giro verso Daiba? »
Ah,
la faccia di Camui era tutta un programma. I suoi
livelli di incredulità stavano evidentemente toccando il fondo. Sorrise.
«
Per caso non ti va? »
«
Oh… no, va benissimo figuratevi. Solo che… ecco, non me l’aspettavo. »
«
Be’, suppongo che ogni tanto non sia male prenderci un giorno di vacanza tutti
assieme. »
In
quel momento, tuttavia, un sospetto s’impadronì della mente di Mana. Sospetto
che in breve divenne certezza. E in quel medesimo istante, il campanello suonò.
Fu
come se l’avessero pugnalato, quel suono gli rimbombò nel cervello assieme a un
brivido.
«
Oh, » disse Kami « questo
deve essere Takeshi. »
…per
l’appunto.
La
sua prima tentazione fu di darsela a gambe non appena il batterista s’alzò per
andare ad aprire. Sarebbe stato certo poco coraggioso, ma…
Lo
fece.
Fu
ostentando una nonchalance che non aveva affatto che si mise in piedi, dicendo
che “doveva andare in bagno”. Un paio di secondi più tardi era già svicolato
con l’agilità di un gatto e s’era tolto di torno rapido come il demonio.
Accidenti
a lui! Tra tutto quello che era capitato, s’era dimenticato di chiamare sia Takeshi che Yuuji. Il problema
era che gli altri… gli altri… un momento! Se lui s’era dimenticato di
chiamarlo, che diavolo ci faceva Takeshi lì? Poco ma
sicuro l’avevano avvertito i ragazzi.
Il
che voleva dire che lui era nei guai. Non tanto con Taka, no, con lui se la
sarebbe potuta cavare offrendogli una birra. Era Kamijo
il problema. Kamijo che era un marmocchietto
diciannovenne orgoglioso e vanesio come pochi e col carattere testardo e opportunista
di una primadonna votata agli affari. In parole spicce una vipera. Una vipera
che tollerava affronti e mancanze ancora meno di lui, cosa che aveva sempre
avuto il sommo potere di impensierirlo un poco. Crescendo sarebbe diventato un
gangster o un abilissimo impresario, poteva scommetterci.
In
entrambi i casi, qualcosa di pericoloso.
Ogni
tanto ci scherzavano sopra, dicendo che se si fossero messi in società
avrebbero potuto fondare la più grande impresa criminale del Giappone. Peccato
che se si fossero messi in società, al 90% si sarebbero scannati a vicenda dopo
il primo giorno.
Aprì
la porta del bagno e ci si chiuse dentro a chiave proprio mentre Takeshi entrava. S’appoggiò contro piastrelle di un
delicato color lillà e inspirò forte. In quella stanza c’era un buonissimo
odore di profumo, come del resto un po’ dappertutto a casa di Ukyo Kamimura. Andava matto per i
profumi, quella era una cosa che sapevano tutti.
Mana
si sedette sul bordo della vasca da bagno e attese allungando le orecchie. Poteva
udire il vociare allegro di Takeshi un paio di stanze
più in là, e gli parve che avesse chiesto anche di lui.
Poco
dopo, infatti, la voce penetrante di Yu-ki giunse da
dietro la porta: « Avanti Mana, esci. Takeshi dice che non è arrabbiato e vuole salutarti. »
Poteva
fidarsi? Socchiuse gli occhi neri.
In
quel momento sentì avvicinarsi una seconda persona, che dalla sopraffina risata
inconsulta comprese essere proprio Taka-chan.
«
Avanti, Mana! Fai il bravo! Mi hanno detto che stavi male, voglio vedere come
stai! O sei tanto impresentabile da desiderare sotterrarti dentro un bagno? »
In effetti non avevano poi torto. E soprattutto… lui non era mai
impresentabile. Se si escludevano due occhiaie color piombo che toccavano
terra.
Si
controllò sommariamente allo specchio: il correttore teneva.
Quel
fattore aveva fondamentale importanza e poteva garantirgli un discreto
controllo di sé nel caso la situazione gli fosse sfuggita di mano. E non se lo
augurava.
Sospirò
e girò la chiave, lentamente.
Poi
abbassò la maniglia e aprì.
«
Buongiorno, honey.
»
Arretrò.
Arretrò
alla massima velocità di reazione che la sorpresa e le sue gambe gli
consentirono.
Avrebbe
dovuto saperlo! Avrebbe dovuto immaginarlo, percepirlo,
qualsiasi cosa dannazione!
Invece
aveva aperto la porta e se l’era trovato di fronte come l’ultimo dei fessi.
Un
ragazzo alto esattamente quanto lui, non un centimetro di più né uno in meno,
con un ghigno sardonico e mortifero stampato in una faccia la cui espressione
preludeva la dannazione dei sette inferni. Un ragazzo dalla cui testa pendeva
una chioma fatta di lunghi, biondi, abbacinanti boccoli perfettamente rifiniti
e portati sciolti lungo tutta la schiena. Un ragazzo che lo fissava con occhi
scuri che dicevano “te la faccio pagare”.
«
…c-ciao Yuuji… »
Il
sorriso di Kamijo, se possibile, s’ampliò.
«
Honey, sei
stato cattivo. Vi riunite tutti assieme per una gita al mare e non dite nulla
al vostro roadie? »
Mana
sospirò, infine decise che era ora di reagire. Si drizzò meglio sulla schiena e
sogghignò guardandolo con una certa nota di divertito allarme negli occhi
d’onice. Nonostante tutto, il giorno in cui avrebbe perso contro Yuuji Kamijo era ancora ben
lontano e probabilmente non sarebbe manco mai arrivato.
«
Perdonami, mi è passato di mente. »
Il
che era la pura verità, tra le altre cose. Kamijo
inarcò un sopracciglio, senza perdere un briciolo di quel sorrisetto un pelo
strafottente che tanto gli si addiceva.
«
Be’ per fortuna nei Malice Mizer
c’è gente con una memoria più buona della tua, caro il mio Manabu.
»
«
Suonatelo tu l’Impromptu di Reinhold
a memoria, e poi dimmi se la mia non è buona. »
«
La tua è buona solo per quanto riguarda le sette note e le loro combinazioni. »
«
Sempre meglio della tua che funziona solo se si tratta di contare il denaro. »
Inaspettatamente,
Kamijo scoppiò a ridere.
«
Hai ragione, lo ammetto. Ma comunque non mi pare il caso di stare qui a
discutere, sbaglio o abbiamo qualcosa da festeggiare? »
Stavolta
era lui ad avere ragione, decisamente. Ed era già abbastanza tardi, se
perdevano ancora tempo non avrebbero festeggiato proprio un bel nulla.
«
Camui! »
Ruggì
quel nome con l’intenzione di impartirgli un ordine ben preciso.
«
S-sì? »
Poteva
scorgere la sagoma di Gackt che s’era affacciato
solerte dall’altra stanza probabilmente per non perdersi un minuto della scena
che stava rapidamente prendendo corpo. Si mise a braccia conserte e gli latrò
un altro ordine. Tanto per ribadire una volta di più che con lui non si
discuteva e che non accettava responsi negativi.
«
Prendiamo la tua macchina e ce ne andiamo tutti a Daiba.
Ovviamente guidi tu. »
«
Cosa? Ma non ci stiamo tutti e sette su una Ferrari! »
«
Caso volle che Taka abbia la macchina, giusto Taka? »
Takeshi annuì.
«
Perfetto, quindi Yuuji e Közi
salgono con lui, mentre io Kami e Yu-ki
saliamo con Gackt. »
Poi
guardò i due amici, accorgendosi che lo stavano osservando un
pelino perplessi.
«
Qualche problema? »
Scossero
entrambi la testa in sincro e a Mana quasi scappò da
ridere.
«
Se non vi fidate porgete le vostre rimostranze al guidatore. »
Detto
ciò inforcò gli occhiali e li abbandonò a loro stessi.
Avrebbe
avuto tempo più tardi per sentirli lamentarsi.
Partirono
che erano le undici passate e Mana si ritrovò silenziosamente a pregare che non
ci fosse troppa gente in circolazione. Speranza vana, probabilmente. S’era
seduto con garbo sul retro lasciando senza protestare a Kami
il posto accanto a Satoru, perché se c’era una cosa
che aveva imparato da che lo conosceva, Gackt aveva
l’abitudine di guidare come un pazzo. E lui a stare davanti ancora non si
fidava, ma proprio per nulla. Ukyo invece pareva
divertito e continuava a ridacchiare, chiedendo a quell’invasato di un vocalist
ragguagli su questo o quel comando della Ferrari.
E
c’era qualcos’altro che non gli quadrava. Si guardò attorno.
C’era troppo sole sulla sua
testa.
Porc…! Camui aveva avuto la geniale idea di
togliere la capotte!
Si
voltò ad osservare Yu-ki seduto al suo fianco, con
solo una gocciolina di agitato sudore freddo a scendergli lungo una tempia. O
era per il caldo? Sembrava tranquillo.
Sembravano
tutti tranquilli.
E
Gackt partì, sgommando come un idiota.
Esattamente
come Manabu aveva temuto.
Si
appoggiò al sedile e chiuse gli occhi e ricominciò a pregare perché non ci
fossero troppe curve, altrimenti sarebbe finito schiantato addosso a Yu-ki un metro di strada sì e l’altro pure con o senza
cintura di sicurezza.
Ringraziò
il cielo d’essersela messa, o sarebbe già volato fuori dall’auto da un bel
pezzo ritrovandosi con le chiappe sull’asfalto.
D’improvviso
udì una specie di click, e la massa
corvina dei suoi capelli che inevitabilmente si scioglieva e gli ricascava
contro le spalle. L’istinto gli disse di alzare una mano per tentare di
afferrare la pinza sfuggita, ma quando alzò gli occhi la sentì sganciarsi del tutto
e precipitare con orrore sulla strada sottostante.
Si
girò, afferrandosi con le mani allo schienale del sedile e frustando
clamorosamente Yu-ki con un paio di lunghe ciocche
nere mosse alla velocità della luce.
«
No! »
Ukyo si voltò, leggermente preoccupato, proprio mentre la pinza andava
a sgretolarsi sotto le ruote del camion che passava dietro di loro.
«
Che succede? »
Mana
stava fissando il camion come fosse stato un assassino, e al tempo stesso si
sentiva lui stesso un assassino. Sì, verso quel cretino di un guidatore dai
lunghi capelli castani che girava per la città come se stesse andando su un
ottovolante prendendo le curve a duecento all’ora.
«
La mia pinza! »
Quello
che gli uscì dalle sottili labbra rosee fu tuttavia un sussurro talmente flebile
e lamentoso che gli altri non poterono non scoppiare a ridere.
«
Kami, tu non hai un elastico a portata di mano vero?
»
«
Nulla, mi dispiace. Ma comprerai una pinza nuova appena arriviamo. »
Diede
un’indicazione a Gackt e svoltarono a destra.
Stavolta
Manabu s’aggrappò allo sportello.
«
Ma non puoi guidare con un po’ più di delicatezza? »
Gackt gli rispose con un ghignetto divertito
che lo mandò letteralmente in bestia.
«
Spiacente. »
Poi
raggiunsero un rettilineo, e accelerò di nuovo.
I
capelli di Mana presero il volo, andando a fare da coda ai sedili posteriori e
muovendosi come a ondate contro l’azzurro del cielo. Per fortuna stava andando
tanto forte, almeno non si sentiva il caldo. Non si sentiva il caldo ma c’era
la luce, e fu quella che lo costrinse a chiudere definitivamente gli occhi
scuri e ad appoggiarsi meglio sul sedile.
Stava
bene, incredibile a dirsi.
Così
bene che finì a ridere assieme agli altri, assieme a Kami,
assieme a Yu-ki e assieme a quell’idiota di un Camui.
Che
naturalmente non perse tempo e ne propose una delle sue.
«
Al mio tre tutti su con le braccia! Uno! Due! Tre! »
E
i tre scemi gli ubbidirono, ridendo fino alle lacrime e lasciando le braccia a
ciondolare nel vento assieme all’aria.
E
la macchina slittò allegramente per il rettilineo perché i tre scemi in realtà
erano quattro e Camui se ne stava a ridere come uno
stupido assieme a loro e a tutto pensando tranne che a guidare, con le mani in
alto come se avessero dovuto sparargli.
E
rideva, rideva. Ridevano tutti e la macchina sbandava.
«
Gackt tu no! »
La
raddrizzò Kami, dando una bottarella al volante.
«
Camui, tieni quelle mani sul volante! »
Mana
chiuse gli occhi di nuovo e ancora rise, fino a che non si trovò con le
mascelle doloranti e le lacrime sotto le ciglia.
Allora
sospirò e li aprì e quando alzò finalmente lo sguardo al cielo lo vide azzurro
e terso.
E
ci si perse.
Scese
dalla macchina che gli pareva di essere reduce da otto ore di montagne russe,
ma s’era divertito. Il tragitto per fortuna non era stato particolarmente
lungo. La spiaggia artificiale di Daiba, infatti, si
trovava esattamente sulla baia di Tokyo.
Takeshi e gli altri li raggiunsero pochi minuti dopo e appena scesi
dall’auto li guardarono come fossero stati degli alieni.
«
Ho idea che vi siate divertiti lungo il viaggio o sbaglio? »
Erano
stati Kamijo e il suo sorrisetto sardonico a
salutarli in quel modo, con un improbabile scintillio di chiome bionde.
«
Satoru lasciati dire che guidi come un teppista. »
Questo
era stato Takeshi, che tuttavia sghignazzava
esattamente come Közi.
«
Tuttavia anche noi ci siamo divertiti parecchio, vero Közi caro? »
Kamijo s’avvicinò al chitarrista e gli scoccò un’ostentata carezzina su una guancia, lanciando al contempo
un’occhiatina a Manabu.
Che
tuttavia aveva ben altro a cui pensare che non i flirt estivi dei suoi migliori
amici.
Puntò
dritto per la via dei centri commerciali, si infilò nel primo che trovò e
quando ne uscì aveva fra le mani non una ma tre pinze per capelli nuove di
zecca.
«
Erano in offerta », si giustificò.
Come
se ne avesse avuto bisogno.
«
Oh che bello, dammene una! »
Non
fece in tempo a captare la frase che Yuuji Kamijo gli strappò una pinza dalle mani con la rapidità di
un fulmine e la usò per sistemarsi parte dei boccoli color dell’oro.
Mana
lo guardò.
Lo
guardò torvo.
Non
fu necessario aggiungere altro, perché Kamijo captò
immediatamente il messaggio.
«
Ops, dimenticavo. »
Con
passo svelto e un sorriso s’avvicinò a Mana, e con la stessa letale prontezza
di sempre gli stampò un bacino sulla guancia.
«
Grazie. »
A
Mana non fu mai chiaro dove trovò quella volta l’autocontrollo per non
afferrargli il collo e tirarglielo per fargli fare la fine del gallinaccio
giallo canarino di cui aveva evidentemente il cervello.
Probabilmente
riuscì a resistere soltanto perché Kami lo dirottò in
tempo dai suoi propositi di guerra prendendolo a braccetto e indirizzandolo
verso un altro centro commerciale.
Il
pomeriggio lo trascorsero naturalmente a fare shopping, in particolare
razziando una ben fornita profumeria e un negozio di dischi.
«
C’è lo Zepp Tokyo qui a Daiba,
vero? » chiese Gackt.
«
Già », rispose Közi.
«
E un giorno noi ci suoneremo », si sentì in dovere di precisare Mana.
«
Ammazza quanto siete limitati. Io punto al Nippon Budokan. »
Si
voltarono tutti.
Verso
Kamijo, che li osservava con fare distratto mentre
succhiava un ghiacciolo al limone.
«
Tu stai zitto, bimbetto. »
«
Dì la verità, Manabu honey, tu hai paura che
diventiamo rivali perché sai che sono più bravo di te. »
«
Ma sentitelo, ‘sto marmocchietto:
non ha ancora imparato a parlare e già sproloquia! »
Intanto
si stava facendo finalmente sera e una lieve brezza s’era alzata rendendo meno
soffocante il caldo umido. Solo allora, quando il sole finalmente era calato
dietro l’orizzonte, si decisero ad andare verso la spiaggia.
Che
naturalmente era piena di gente.
Per
fortuna di Mana e del suo sistema nervoso che odiava le folle, trovarono un
angolo abbastanza appartato e si piazzarono lì con teli e stereo portatile.
«
Certo che il mare di notte è una meraviglia! » disse Yu-ki.
Annuirono
tutti, respirandone l’odore salmastro e guardando quell’orizzonte di onde nere
senza riuscire quasi a distinguerlo da un cielo altrettanto scuro.
Tirarono
fuori gli stuzzichini che non avevano ancora mangiato, fra cui gli onigiri di Mana. Il quale li divise con solerte efficienza
e lasciò il più piccolo a Kamijo.
Fatto
ciò si sedette, inforcò gli occhiali da sole e guardò un orizzonte nero che più
nero non si poteva.
Come
riuscisse a vederci qualcosa era un autentico mistero.
Anche
gli onigiri gli erano venuti buoni, pensò mentre ne
masticava uno.
«
Mana-chan! »
Non
si voltò sentendo la voce querula di Takeshi che lo
chiamava, ma continuò a masticare il suo onigiri
mettendoci più metodo del necessario.
«
Te li sei ricordati i fuochi d’artificio? »
Annuì
lentamente, poi cacciò indietro una mano e frugò nel suo zainetto estraendone
una bustina di plastica bianca che passò a Koji.
Poco
dopo avevano tutti in mano un paio di stelline dal lungo manico coperto di
polvere pirica che scintillavano d’oro e di rosso e di verde man mano che
venivano accesi.
«
Che estate è senza fuochi d’artificio? » chiese Kami sorridendo.
L’estate
di un branco di sfigati, gli rispose Mana col
pensiero.
Alzò
al cielo i suoi, uno d’oro e uno verde. Non si vedevano stelle quella sera,
tanto valeva che ce ne aggiungesse un paio lui.
Guardò
le scintille, ipnotizzato.
Fino
a che non ebbero bruciato tutta la polvere e non si spensero, lasciando solo
cenere.
Allora
si intristì un poco, e prima che fosse troppo tardi guardò Yuuji
e gli fece un cenno col capo. Quello gli strizzò l’occhio e si alzò, poi andò a
mettersi di fronte a Gackt. Stava in piedi davanti a
quel mare nero, dandogli le spalle e coi boccoli dorati che luccicavano un po’
alla luce lontana dei lampioni.
«
Bene. Visto che sono l’unico qui degno di essere il protagonista, ho deciso di
chiedere la parte per me. »
Fece
un inchino solenne.
Quando
cominciò, lo seguirono in coro.
« Happy Birthday to you, happy birthday to you, happy
birthday dear Gackt, happy birthday to you! »
Tutti
tranne Gackt ovviamente, che era rimasto basito a
guardarli e stava con gli occhi larghi e una mano ferma a mezz’aria come se
fosse stato bloccato nel mezzo di una frase.
«
Buon ventiduesimo compleanno Gackt! »
«
Auguri! »
Satoru non accennava a voler proferire parola, ma
Mana lo vide passarsi una mano sugli occhi.
«
Sacchan? » lo stava chiamando Takeshi « Tutto a posto? »
Gli
diede un paio di pacche sulle spalle e Gackt annuì.
Tuttavia
anche da dietro gli occhiali da sole Mana riuscì a vedere benissimo che Satoru Okabe stava piangendo per
la gioia. Sorrise di rimando.
«
Uhm, Sacchan? »
Takeshi non sembrava disposto a mollare l’osso tanto presto. S’era seduto
accovacciato di fronte a Camui e lo stava ad
osservare con gli occhi curiosi di un cane fedele.
Satoru a sua volta lo guardò.
«
Sì? »
«
Abbiamo anche il dolce. »
Tornarono
a casa che era notte tarda.
Gackt, vai a capire per che accidenti di motivo, aveva accompagnato lui
per ultimo e s’erano fermati a parlare sotto il palazzo, davanti quel portone
che tante volte li aveva visti uscire la mattina presto per andare a fare
jogging sotto la luna.
Manabu non gli stava dicendo granché a dire il vero, e in linea di
massima evitava il suo sguardo. D’improvviso pareva che gli scottasse.
«
Ti sei divertito oggi? »
Sentì
quella domanda come se venisse da mille miglia lontano.
«
Sì », rispose.
Gackt Camui stava sorridendo.
«
Io non so davvero come ringraziarvi, ragazzi. Davvero,
mi… è stata una delle feste di compleanno più belle ed
inaspettate della mia vita. »
«
Che esagerato. »
«
Ma è la verità! »
Di
nuovo il sorriso di Gackt, come provò ad alzare gli
occhi. Fortuna che non s’era tolto gli occhiali da sole.
«
Puoi… tornare a stare da me se ti va. »
Come
previsto, chiedergli scusa era al di là delle sue forze.
«
Naa, non fa niente. Da domani comincerò a cercare
casa per conto mio. Era anche ora, no? Non ti preoccupare Mana. »
Oh,
ma lui non si preoccupava, non si preoccupava affatto. Quello che Satoru Okabe combinava era affare
suo soltanto finché poteva nuocere ai Malice Mizer. Per il resto, lui era libero come l’aria.
Eccolo
quel sorriso disarmante, di nuovo.
Poi
Gackt gli si avvicinò.
Lentamente
gli pose una mano attorno alle spalle e se lo attirò contro.
Mana
trattenne il fiato. Aveva pensato di salutarlo e scappare in casa, sì, l’aveva
pensato. Ma di nuovo sorprendentemente non mosse un muscolo e anzi respirò il
profumo che aveva Gackt forse per la prima volta. Era
di Dior, sicuramente.
Quella
certezza tanto bizzarra gli donò un’inaspettata sicurezza, quel tanto che
bastava da fare un passo indietro e scostarsi il vocalist di dosso.
«
Ora è meglio che vada », mormorò.
Gackt annuì e lo salutò con un cenno della mano.
Sorrideva
ancora, lievemente. Che avesse preso il vizio da Yuuji?
L’idea gli fece paura.
Poi
ricordò una cosa all’improvviso. Accidenti, di nuovo gli era passato del tutto
di mente!
«
Camui! »
Satoru s’era già incamminato verso la macchina, ma sentendosi chiamare si
fermò e lo guardò. C’era un’ombra di apprensione nei suoi occhi nocciola, che
si dissipò mentre lo osservava frugare dentro lo zaino con tutta la furia data
dall’impazienza.
Manabu non alzò lo sguardo, nemmeno per sogno.
Alla
fine trovò quello che cercava: un sacchettino di carta, che lanciò a Gackt con la sua solita ineguagliabile precisione. Lui
l’afferrò al volo senza problemi. Ottimi riflessi.
Conteneva
una croce, un pendente che aveva le forme d’una semplice ma bella croce
d’argento, levigata ed elegante quanto bastava ma anche brillante come la lama
di un coltello.
«
Il mio regalo per il tuo compleanno. »
Già.
Stava male ed era uscito soltanto per comperarglielo, non avrebbe mai capito in
che moto di follia improvvisa e suicida.
Gackt aveva sgranato gli occhi, incredulo.
«
Grazie! »
Fece
per avvicinarsi, ma Mana lo bloccò in tempo alzando entrambe le mani.
«
Alt alt alt! Non farti contagiare da quel malefico
scriteriato di Kamijo! »
Satoru gli concesse un ultimo, splendido sorriso.
«
Allora farò così. »
Si
portò due dita alle labbra e gli lanciò un bacio.
«
Grazie. »
Poi
s’allontanò, e Mana gliene fu enormemente grato.
Almeno
non avrebbe potuto vedere quant’era arrossito.
S’avviò
verso l’ingresso mantenendo un’andatura normale e attese di udire il rombo ben
noto della Ferrari che partiva.
Infine
aprì il portone, se lo serrò alle spalle e lentamente ci si appoggiò contro.
Quindi
chiuse gli occhi e si portò due dita alle labbra.
«
Ma di nulla. »
- continua -
N.d.A. Se dovessi iniziare a
scusarmi per il ritardo non la finirei più, per cui stavolta non mi scuso.
Ringrazio tutti i commentatori per le recensioni, è anche grazie a voi se
questa storia continua ancora oggi dopo ben due anni! Come potete vedere
comunque la storia procede, Gackt è cotto a puntino e
Mana piano piano sta iniziando a subire gli effetti
di quello che pare diventerà un corteggiamento serrato. E in più c’è lo spettro
di quella notte in albergo a gravare sullo spirito del povero chitarrista, pur
se probabilmente la verità resterà sepolta per sempre sotto l’oblio dell’alcol.
Infine, ho due o tre cose da
puntualizzare circa questo capitolo.
Primo: come avrete notato ho
cambiato il nome di Közi con quello che si ritiene
sia il suo nome reale. Inoltre, di Hiroki ne arriverà
un altro in futuro quindi meglio non avere doppioni!
Secondo: puntualizzazione circa
le riviste che nomina Mana nel capitolo, perché per chi è fuori dall’ambito
manga potrebbero non essere riferimenti immediati. Hana
to Yume e Betsucomi sono due riviste di shoujo
manga pubblicate dalle case editrici Hakusensha e Shogakukan. Hana to Yume è famosa per i suoi manga
di stampo romantico/dark/gotico, è difatti quella che pubblica Kaori Yuki (di cui tra l’altro è
il manga che legge Mana in questo capitolo, uscito proprio nel 1994). L’altra
invece ha ospitato autrici come Chie Shinohara ed è tra l’altro la rivista di “Banana Fish”, lo splendido manga di Akimi
Yoshida che è il preferito di Gackt.
Comunque, di norma queste riviste escono a cadenza settimanale, bimensile o
mensile e sono usa e getta. Ossia le compri, le leggi
e le butti. I manga in volumetto escono solitamente a cadenza trimestrale,
semestrale e via dicendo, e sono quelli che vengono tenuti da collezionare.
Terzo: i “combini” di cui parla
Mana, alias Convenience Store,
sono una catena di supermercati a basso costo aperti 24 ore su 24.
Quarto: le date. Sto facendo un
casino colossale. Per ricapitolare, la storia parte a fine 1993, con Mana che
quindi ha 23 anni e non 24 come ho detto io – ma correggerò non temete. Ora
siamo invece a luglio del 1994, quindi Gackt e Mana
hanno rispettivamente 22 e 24 anni. Nonostante un po’ di bordello e svariate
cose da correggere nei capitoli scorsi, riuscirò a riprendere le fila con le
date facendo partire le attività “serie” dei Malice Mizer nel 1995. Perdonatemi per queste sviste!
Quinto ed ultimo punto: la croce
che Mana regala a Gackt. L’ho fatta apparire troppo
presto a dire il vero, perché Gackt comincerà a
portarla solo in epoca “Merveilles”. Tuttavia mi ci
stava, quindi mi sono concessa una licenza. Di questa croce (che potete vedere
al collo di Gackt in vari photoset
di Illuminati ad esempio) si sa poco. Si sa soltanto che gliela regalò un
membro dei Malice Mizer e
che continuò a portarla per un anno dopo la separazione. Basta e avanza.
A questo punto, inoltre, avrei un
favore da chiedere a voi lettori. Avrei bisogno che mi scriviate delle domande
che volete rivolgere ai personaggi. Come fossero attori di un film o di uno
spettacolo, persone reali insomma. Domande di qualsiasi genere, da quelle
stupide a quelle serie e dirette a qualsiasi personaggio. Mi serviranno
comunque molto in là con la fanfic, quindi avete
tutto il tempo per pensarle! Vi ringrazio per la collaborazione, e spero che
questo capitolo vi piacerà!
Vitani