As
if it made sense
Stavo aggrappato al palo giallo e sudicio, stipato in uno
spazio troppo stretto per il numero di persone che conteneva, e il mio
corpo
veniva sbalzato da una parte all’altra come gelatina a ogni
brusca frenata
dell’autobus. Allungavo il collo nella speranza di riuscire a
leggere i nomi
delle fermate che, una dopo l’altra, ci lasciavamo alle
spalle – per fortuna la
mia altezza mi permetteva di avere una buona visuale. Non avevo mai
preso
quella linea e non conoscevo quella zona della città, dunque
vivevo nel terrore
di non scendere nel momento giusto.
Mi ero cacciato in una situazione piuttosto assurda
dovevo ammetterlo: non avrei mai immaginato che sarei finito a fare il
baby
sitter, ma ormai la mia vita non aveva più una direzione e
nulla mi sorprendeva
più.
Tutto era cominciato l’estate precedente, quando avevo
fallito i test per recuperare i debiti che mi ero lasciato alla fine
dell’anno:
avevo dovuto ripetere il decimo, l’avevo superato per
miracolo e ora
frequentavo l’undicesimo, ma le cose non erano cominciate col
piede giusto;
nonostante l’anno accademico fosse cominciato solo da un paio
di mesi, avevo
già collezionato una serie di insufficienze che mi avevano
messo da subito in
una situazione complicata.
Non ero motivato, non avevo voglia di studiare e di
frequentare, non avevo più gli stessi compagni di corso e
gli attuali mi
piacevano ancora meno; non avevo voglia di fare alcunché, a
dire il vero, a
parte seguire mia madre nei viaggi in cui accompagnava Jia per le gare.
Mia madre, già, che era disperata e preoccupata per il
mio futuro più di quanto lo fossi io. Qualche settimana
prima, quando ero
rincasato con una nuova F da aggiungere alla mia sconfinata collezione,
si era
prodigata nell’ennesima ramanzina che però
stavolta era stata diversa dal
solito. Non si era limitata a puntualizzare che avevo quasi
diciott’anni e non
avevo nemmeno cominciato a costruire il mio futuro, che dovevo
smetterla di
bighellonare e impegnarmi almeno per prendere il diploma di prima
superiore; mi
aveva sputato in faccia che si era stancata del mio atteggiamento e
che, se non
avessi trovato da solo un modo per fare qualcosa di utile,
l’avrebbe trovato
lei.
Così mi aveva procurato un incarico: a quanto pareva una
sua vecchia amica aveva bisogno di qualcuno che la aiutasse con la
figlia, una
bimba di appena otto anni molto particolare. Non dovevo fare
granché,
semplicemente andare a prendere la piccola Rose a scuola e riportarla
sana e
salva a casa.
Avevo avuto un breve colloquio con la signora Hull e lei
mi aveva spiegato che sua figlia era una bambina fuori dal comune,
probabilmente con un qualche disturbo cognitivo che spesso la teneva
distaccata
dalla realtà e da ciò che la circondava:
bisognava chiamarla per nome almeno
tre volte prima di ottenere la sua attenzione, che spesso andava a
perdersi nel
giro di pochi secondi. Per ovviare il problema era necessario starci
molto
attenti e tenerla sempre per mano per evitare che si infilasse in
qualche guaio,
ma per il resto era una bambina tranquilla.
“Tutto chiaro?” mi aveva chiesto conferma la
signora
Hull.
Nessun problema, avevo pensato, sarà
come avere
a che fare con una piccola me, perennemente con la testa tra le nuvole.
Avevo annuito e accennato un sorriso. “Nessun problema.
Prima di riportarla a casa possiamo andare a prendere il
gelato?”
Non ero certo di aver fatto una figura brillante con la
mia possibile datrice di lavoro, ma lei aveva comunque deciso di darmi
fiducia
e così, dopo essere uscito da lezione, mi stavo dirigendo
verso una scuola
elementare su un pullman pieno come un uovo.
Non potevo certo affermare che la situazione mi
dispiacesse, anzi: mi erano sempre piaciuti i bambini, poteva
addirittura
rivelarsi divertente.
Quando ormai stavo per giungere alla mia fermata, mi
spinsi a fatica tra il mare di gente che mi circondava e raggiunsi
l’uscita del
mezzo. Mi ritrovai, sudato e sfatto, sul marciapiede di un viale
alberato che
cominciava a tingersi delle tipiche tinte autunnali.
Armato di Maps, camminai per un centinaio di metri fino a
ritrovarmi davanti al cancello multicolore di un grazioso istituto
elementare;
diversi genitori, nonni e baby sitter si trovavano già nei
pressi dell’uscita,
in attesa dell’arrivo dei loro bambini. Mi appostai accanto
alla grande
cancellata, infilai gli auricolari per ascoltare un po’ di
musica e controllai
l’orario – mancava circa un quarto d’ora
al termine delle lezioni.
La signora Hull aveva avvisato le maestre che quel giorno
un certo Randy Baker sarebbe andato a prendere la sua figliola
all’uscita. Mi
rimbombavano ancora in testa le parole che mia madre mi aveva ripetuto
allo
sfinimento la sera prima: non combinare fesserie,
è una grande
responsabilità, non distrarti, devi essere attento e
concentrato al cento
percento. Dal canto mio però mi sentivo
tranquillo, non sentivo addosso
tutta questa pressione: erano anni che mi spostavo da solo per la
città e
almeno da quel punto di vista sapevo badare a me stesso, che differenza
avrebbe
fatto se con me ci fosse stata anche una bambina di otto anni?
Sentii il trillo della campanella in lontananza e
dall’edificio dalle pareti giallo canarino si levarono
centinaia di voci
infantili allegre e strepitanti.
Attesi che i bambini del primo anno sciamassero via verso
i loro genitori, poi quelli del secondo anno e infine mi accostai. Una
maestra
stava ferma accanto al cancello per assicurarsi che ogni studente se ne
andasse
accompagnato dal proprio adulto di riferimento.
“Tu sei Randy Baker?” mi si rivolse lei,
cogliendomi alla
sprovvista.
“Sì… come fa a sapere il mio
nome?”
“La signora Hull ci ha comunicato che saresti venuto a
prendere Rose, ci ha mandato una tua foto affinché ti
riconoscessimo.”
Sorrisi. “Ah, ecco, perfetto!”
La maestra si voltò verso destra e intercettò una
bambina
che attendeva lì accanto. “Rose?”
Lei, che nel frattempo si stava fissando le punte delle
scarpe, non accennò a muoversi e non sollevò il
capo.
“Rose, tesoro…” ritentò la
donna, con lo stesso identico
risultato.
Aggrottai le sopracciglia confuso, poi mi ricordai di
quello che mi era stato detto qualche giorno prima: per ottenere
l’attenzione
della bimba bisognava chiamarla per nome almeno tre volte.
“Non importa.” Accennai qualche passo in avanti,
raggiunsi Rose e mi rannicchiai davanti a lei in modo da essere al suo
stesso
livello e poterla guardare negli occhi.
“Rose” la chiamai, prendendole la mano nel
tentativo di
riscuoterla.
Lei finalmente sollevò lo sguardo e lo puntò
dritto nel
mio.
Era una bambina di una bellezza incredibile: aveva dei
capelli castani ramati – quasi la stessa tonalità
dei miei, solo più scuri –
raccolti in una coda di cavallo, i lineamenti delicati su una
carnagione
diafana che la facevano somigliare a una principessina della nevi e due
enormi
occhi azzurri che sembravano non guardarti mai davvero.
Le sorrisi. “Ehi, io sono Randy. Oggi la tua mamma
è
molto impegnata, quindi ti riporto a casa.”
Lei sbatté le palpebre ma non rispose.
“Ma prima andiamo a prendere un bel gelato. Che ne
pensi?”
Lei piegò il capo di lato.
“Ti piace il gelato?” tentai allora, sperando di
suscitare in lei qualche reazione.
Rose rimase per qualche istante in silenzio, poi affermò:
“Sì, mi piace anche quello della recita”.
Mi venne da ridere, ma mi trattenni e, prendendola per
mano, mi diressi fuori dai cancelli della scuola: ormai tutti i bambini
del
terzo anno si erano allontanati, là eravamo solo
d’intralcio.
Rose si lasciò guidare senza opporre resistenza,
guardandosi attorno con curiosità come se vedesse quella via
per la prima
volta.
Io però, per niente turbato dalla bizzarra risposta che
mi aveva dato, ero curioso di sapere cosa c’entrassero il
gelato e una recita:
avevo finalmente trovato un argomento di conversazione che forse poteva
coinvolgerla e per me era importante, volevo parlare con lei e
conoscerla
meglio.
“Rose?”
Lei non rispose. Certo, come da copione.
“Rose? Ehi, Rose!”
Strinse leggermente più forte la mia mano, forse a
volermi comunicare che avevo la sua attenzione.
“Che cos’è il gelato della
recita?”
“Abbiamo fatto una recita quando è finita la
scuola”
ribatté lei in tono pacato. Attesi che continuasse il
racconto, ma lei ripiombò
nel silenzio.
Supposi che per trattenerla in quella conversazione
l’unica soluzione fosse continuare a coinvolgerla,
così le chiesi: “E dopo la
recita avete mangiato il gelato?”
Lei scosse il capo. “Era in mezzo alla recita.”
“L’avete mangiato?”
“Ci abbiamo cantato dentro.”
Allora compresi: sicuramente Rose faceva riferimenti ai
microfoni che avevano utilizzato per lo spettacolo, che ricordavano la
forma di
un cono gelato.
Sorrisi soddisfatto. “Oh, capisco. E che canzoni avete
cantato?”
Ma Rose ormai non mi ascoltava più, troppo presa a
osservare le foglie gialle e arancioni che si erano depositate sul
marciapiede
e che scrocchiavano sotto i nostri passi.
Nel giro di un paio di minuti arrivammo alla fermata e, mentre
attendevamo il nostro autobus, pregai che non fosse affollato come
quello che
mi aveva portato fin lì. Non volevo che la mia nuova piccola
amica venisse
schiacciata in mezzo a quella bolgia, senza contare che era mio dovere
tenerla
d’occhio costantemente.
Mentre frugavo nella mia mente in cerca di qualche spunto
di conversazione, Rose mi sorprese: “Queste sono le foglie
degli Egizi”.
Seguii il suo sguardo e constatai che era ancora intenta
a osservare la distesa giallastra ai nostri piedi.
Ecco l’ennesima frase che non ero in grado di decifrare.
“Conosci gli Egizi?” mi sorpresi. Con molta
probabilità,
a dispetto dei nostri dieci anni di differenza, ne sapeva
più lei di me.
Rose non rispose.
“Rose?”
Calciò un paio di foglie con la scarpetta bianca.
“Rose, conosci gli Egizi?”
Le schiacciò, ascoltando il suono secco che emettevano
quando finivano sotto il suo peso.
“Rose…”
“Gli Egizi li abbiamo studiati a scuola”
ribatté. Dopo il
terzo richiamo, come al solito.
“E anche loro avevano le foglie che cadevano dagli
alberi?”
Lei era sul punto di distrarsi nuovamente, attirata da
qualche movimento dall’altra parte della strada, ma io le
strattonai
leggermente la mano; ero troppo curioso di capire. “Io non li
ho mai studiati,
me li spieghi?”
Non che fosse una bugia: tutto ciò che avevo appreso per
i test scolastici l’avevo dimenticato il giorno dopo del
compito.
Rose allora puntò gli occhi su di me e accennò un
sorriso
– il primo che mi rivolgeva. “Io ti posso insegnare
tutto perché li ho studiati
e sono andata anche al museo. Gli Egizi avevano le foglie secche
dell’autunno,
però un po’ più grandi, e ci scrivevano
sopra.”
“Ah, le pergamene!” esclamai, capendo finalmente il
suo
ragionamento.
Stavo per porle una nuova domanda, quando vidi il nostro
autobus in avvicinamento. “Linea 44. È la nostra!
Pronta a salire?”
Lei ovviamente non mi rispose, ma quando il mezzo accostò
al ciglio della strada mi seguì dentro con naturalezza, come
se avesse
assimilato quella procedura e sapesse esattamente cosa fare.
Eppure la signora Hull mi aveva avvisato che Rose aveva
preso i mezzi pubblici solo qualche volta e che in genere era lei ad
accompagnarla ovunque in auto.
Questo mi diede da riflettere: evidentemente Rose non era
fuori dal mondo come tutti dicevano, si rendeva conto di ciò
che le capitava
attorno e imparava.
Avere a che fare con lei si stava rivelando davvero
affascinante e divertente.
Occupammo gli ultimi posti a sedere miracolosamente
liberi e divisi la mia attenzione tra Rose e il tragitto che stavamo
percorrendo: così come per l’andata, dovevo stare
attento a prenotare la giusta
fermata.
“Randy?” mi richiamò Rose dopo qualche
minuto.
Rimasi piuttosto sorpreso da due fatti: si ricordava il
mio nome – pensavo che non mi avesse nemmeno ascoltato quando
mi ero presentato
– e mi aveva rivolto direttamente la parola.
“Dimmi.”
“Perché gli autobus hanno le linee e non i
punti?”
Scoppiai a ridere, cercando di contenermi senza successo.
L’avevo conosciuta una decina di minuti prima e
già la adoravo.
“Mi scusi, ci vuole un po’ di pazienza con lei.
Intanto
per me può preparare un cono con due palline, caramello e
pistacchio” mi
rivolsi al gelataio, per poi tornare a guardare in basso, dove Rose si
era
accovacciata per osservare con fare critico una piccola crepa sul
pavimento.
“Rose, potresti metterti in piedi, per favore?” la
richiamai
per la seconda volta.
Niente.
“Rose!”
“Da lì escono i vulcani!”
Scossi il capo e sorrisi sotto i baffi. “No, da lì
non
possono uscire i vulcani, perché quelli sono caldi e qui
invece c’è il gelato
che li sfredda subito e non li fa esplodere. Adesso ti metti in
piedi?”
La cosa pazzesca era che, nonostante i suoi atteggiamenti
bizzarri, non riuscivo proprio a perdere la pazienza. Era come se io e
Rose
avessimo cominciato a parlare lo stesso linguaggio.
Lei mi diede ascolto e si raddrizzò, apparentemente
rassicurata dalle mie parole.
“Dobbiamo ordinare il gelato. Tu vuoi un cono o una
coppetta?”
“Quello della recita.”
“Okay. E quali gusti vuoi?”
“Vaniglia.”
“E basta?”
“No.” Detto ciò, tornò ad
accovacciarsi a terra e
osservare la crepa da cui, nella sua immaginazione, presto avrebbero
iniziato a
sgorgare lava rovente e lapilli.
Sospirai. D’accordo, la situazione stava cominciando a
complicarsi.
Afferrai il cono che il gelataio mi stava porgendo, gli
rivolsi un’occhiata di scuse e tornai a concentrarmi su Rose.
“Rose Hull. Rose?
Rose!” ripetei tre volte.
Mi pareva di star evocando Bloody Mary.
Lei mi guardò dal basso e sbatté le ciglia.
“Quale gusto vuoi insieme alla vaniglia?”
“Banana.”
“Oh, ce l’abbiamo fatta!” Tornai a
guardare il gelataio.
“Un cono a due gusti: vaniglia e banana.”
Lui annuì e mi rivolse un’occhiata divertita.
“Dura la
vita del fratello maggiore, eh?”
Ridacchiai. “Sono il suo baby sitter.”
“Davvero? Vi somigliate!”
“Abbiamo solo un colore di capelli simile”
commentai.
Figuriamoci: non ero mai stato carino come Rose nemmeno
quando avevo la sua età.
Dopo aver recuperato anche il suo cono, richiamai Rose e
le ficcai in mano la sua merenda, poi la condussi fino a una panchina
in cui
potevamo accomodarci.
Venire al parco era stata un’ottima idea: non solo i
gelati del piccolo chiosco erano tra i più buoni che
conoscessi, ma il clima
mite di metà ottobre permetteva di stare all’aria
aperta senza congelare né
morire di caldo.
Prendemmo a mangiare i nostri gelati, lottando contro il
tempo affinché non si sciogliessero inesorabilmente tra le
nostre mani: notai
che Rose era incredibilmente abile nel leccare via ogni singola goccia
di crema
che rischiava di piovere giù dal cono. La invidiavo, io in
quasi diciotto anni
di vita non avevo mai imparato e puntualmente mi impiastricciavo come
se avessi
ancora cinque anni.
Chiamai la bambina per tre volte e poi, quando fui sicuro
di avere la sua attenzione, le chiesi: “Come fai a non
sporcarti col gelato?”
“Lo mangio” ribatté lei in tono ovvio.
Ecco, dovevo ammettere che me l’ero cercata.
“C’è una stella nel cielo!”
esclamò lei a un certo punto.
Istintivamente sollevai lo sguardo, ma sopra la mia testa
svettava solo la distesa azzurra del cielo macchiata soltanto da alcune
nuvolette
bianche, non trovai nulla di sospetto. “Dove?”
Ma quando mi voltai verso Rose, mi accorsi che stava
guardando in basso, precisamente in direzione dei miei pantaloni.
Allora mi accorsi che una piccola goccia di gelato si era
depositata sul tessuto blu notte.
Trattenni un’imprecazione: era ovvio che sarebbe
successo. E ovviamente io non avevo dei fazzoletti appresso.
“Come possiamo fare per mandare via questa stella dal
cielo?” chiesi tra me e me. Non sapevo nemmeno
perché stessi parlando nel
linguaggio di Rose.
“Aspettiamo che faccia giorno, così se ne
andrà” rispose
la bambina. Del resto per lei quel discorso aveva senso.
Cosa potevo fare se non cogliere la palla al balzo?
“Oppure possiamo aspettare che vada via come le stelle
cadenti di San Lorenzo.
Le conosci?”
Le si illuminarono gli occhi. “Quelle che si
muovono!”
“Esatto!” Mi guardai attorno e individuai un
dispenser di
tovaglioli posizionato su un tavolo a pochi metri da noi. “E
sai cos’altro?
Magari se copriamo il cielo per un po’ e non lo guardiamo, la
stella prende
coraggio e va via. Lì ci sono delle coperte per il cielo, le
vedi?”
Rose seguì il mio sguardo e annuì.
“Dobbiamo prenderne una.”
Senza aspettare oltre, Rose saltò giù dalla
panchina e
corse a recuperare un tovagliolo. Per un attimo mi prese il panico: non
potevo
lasciarla andare in giro da sola, poteva tranquillamente distrarsi in
qualsiasi
momento e fuggire chissà dove; se la signora Hull avesse
assistito a quella
scena, mi avrebbe addirittura potuto denunciare per abbandono
di minore!
Ma Rose fu di ritorno in pochi secondi, mi porse il
fazzoletto e continuò a mangiare il suo gelato. Come avrebbe
fatto qualsiasi
altro bambino.
Okay, forse Rose era un po’ particolare, ma
l’impressione
che avevo era che tutti tendevano a sottovalutarla un po’
troppo. Certo, non
sempre era semplice entrare nei meccanismi della sua mente, ma una
volta
scoperta la chiave era più facile coinvolgerla.
Forse, una volta ottenuta la sua completa concentrazione,
poteva perfino essere affidabile.
Dopo la merenda decisi che era giunto il momento di
rincasare: si stava facendo tardi e, nonostante avessi avvisato la
signora Hull
che stava andando tutto bene e ci eravamo fermati al parco per prendere
un
gelato, non volevo pensasse che le avessi rapito la figlia.
Giungemmo alla fermata – stavolta in una zona che
conoscevo meglio – e salimmo sull’83, affollato
come al solito. Riuscii a ritagliare
uno spazietto a sedere per Rose, mentre io mi rassegnai a viaggiare in
piedi
accanto a lei.
“Randy!” sussurrò lei a un certo punto,
il tono concitato
di chi ha appena scoperto qualcosa di strepitoso.
“Dimmi.”
“Il quarantaquattro è più lungo
dell’ottantatré.”
Stavolta non mi lasciai spiazzare dalla sua bizzarra
affermazione: riconobbi i numeri dei due autobus che avevamo preso quel
giorno,
dovevo solo scoprire quale fosse il meccanismo che la portava a fare
una tale
affermazione.
“Il pullman intendi?”
“No, il numero.”
“E perché?”
Rose non rispose e tornò a guardare fuori dal finestrino,
di nuovo persa nel suo mondo e nei suoi ragionamenti.
Decisi di non indagare oltre e di lasciare un alone di
mistero attorno all’ennesima bizzarria di quella bimba
così affascinante.
Forse, ragionandoci su e conoscendola meglio, sarei riuscito
addirittura a
cogliere da solo il senso di quella frase.
In cuor mio speravo di rivederla, pregavo che quella
giornata di prova si trasformasse in un incarico più serio:
Rose mi aveva
stregato, mi aveva messo alla prova e mi aveva fatto entrare nel suo
mondo, che
era tutto al contrario rispetto a quello convenzionale.
Non sapevo esattamente come definire la sensazione che
avevo addosso, ma ogni volta che posavo gli occhi su quella
principessina delle
nevi mi sentivo come se la mia vita avesse trovato un senso.
Quella sera non avevo sonno nonostante la pesante
giornata: i pensieri mi tenevano sveglio, così nemmeno
provai a mettermi a
letto.
Feci un po’ di zapping in tv, ma nulla attirava davvero
la mia attenzione. Pensavo a Rose e alle imbarazzanti parole che sua
madre
aveva pronunciato quando l’avevo riportata a casa.
“Si è comportata bene,” le avevo
assicurato, “abbiamo
parlato un sacco e siamo andati subito d’accordo.”
Lei aveva sbattuto le ciglia, incredula. “Rose non parla
mai, e quando lo fa è per dire cose
sconclusionate.”
“C’è un senso in tutto ciò
che dice” avevo obiettato
educatamente con un sorriso, poi avevo aggiunto: “Non vorrei
sembrare
indiscreto, ma mi tolga una curiosità: Rose è
seguita per questo suo problema?
Ha un educatore, qualcuno che la aiuti?”
Lei aveva scrollato le spalle con fare rassegnato, come a
voler dire: è un caso perso, niente e nessuno
può aiutarla.
Quel suo atteggiamento mi aveva innervosito come poche
altre volte mi era capitato. Quella bambina aveva un sacco di
potenziale e
pareva che io fossi l’unico a essermene accorto.
Pensavo a lei e a tutti i bambini nelle sue condizioni.
Rose non era stupida, aveva solo bisogno di essere
seguita in una maniera diversa, più specifica. Io avevo
notato tanti piccoli
pregi in lei, tanti piccoli segnali che dovevano pur significare
qualcosa.
Verso le dieci e mezza di sera spensi la tv, salutai mia
madre che ancora armeggiava col cellulare – probabilmente
stava organizzando i
turni dei suoi allievi al palaghiaccio – e mi diressi in
camera mia. accesi il
computer, aprii Google e mi immersi in alcune ricerche che non mi sarei
mai
sognato di fare prima di quel giorno.
Esistevano tante forme di disturbi cognitivi, di cui
avevo sempre sentito parlare ma che non avevo mai approfondito.
Autismo,
ritardo cognitivo, disturbo dell’attenzione,
iperattività, disturbi
dell’apprendimento… ognuno con i suoi sintomi e le
sue possibilità di
intervento.
Appresi che esistevano tante figure professionali che si
occupavano di questi problemi, prima fra tutte l’educatore.
Mi piacevano un sacco le implicazioni di quel mestiere,
si avvicinava un sacco a quello che nella mia testa mi sarebbe piaciuto
fare
con Rose. Certo, io non avevo alcuna qualifica, ma era come se quel
pomeriggio
avessi adottato con lei una mentalità da
educatore… e non ne ero nemmeno stato
consapevole.
Ecco, appunto, la qualifica.
C’era da studiare se si voleva intraprendere quella
strada.
Innanzitutto c’era da prendere il diploma di scuola
superiore.
Lanciai un’occhiata alla pila dei miei libri che giaceva
sulla scrivania e venni colto da un senso di smarrimento.
Questa volta non era come le altre, non era come quando
ero bambino e sognavo di fare l’astronauta, il pattinatore
professionista, il
marinaio. Stavolta si trattava di un obiettivo più
raggiungibile e quindi tremendamente
spaventoso.
Spensi il computer, afferrai il cellulare che avevo
lasciato in un angolo da quando ero rincasato e, con mia sorpresa,
trovai un
messaggio vocale dalla signora Hull.
Lo misi in play e mi accostai il telefono all’orecchio.
“Ciao Randy, scusa per l’ora ma preferisco farti
questa
domanda con più preavviso possibile, in modo che tu possa
avere il tempo di
decidere. A quanto pare sei piaciuto tantissimo a Rose: da quando
è tornata a
casa non fa che nominarti e parlare di te, qualcosa che non era mai
successo
prima… visto che hai fatto un ottimo lavoro con lei e visto
che prossimamente
sarò ancora oberata di lavoro, mi chiedevo se ti andasse di
lavorare per me e
prenderti cura di Rose quando io non posso. Ovviamente non ti chiedo
nulla di troppo
complicato, semplicemente di andare a prenderla a scuola come
è successo oggi,
e il tutto compatibilmente con i tuoi impegni scolastici. Non devi
darmi una
risposta immediata, ti lascio un po’ di tempo per pensare e
se ti va di
discuterne meglio ci possiamo incontrare prossimamente. Okay?
Buonanotte e
grazie ancora per la disponibilità.”
Lasciai ricadere il cellulare sul materasso, basito e
incredulo. Ci avevo sperato, ma non ci avevo creduto per davvero.
Potevo ufficialmente essere il baby sitter di Rose.
Il mio sguardo andò a cercare
nell’oscurità la pila di
libri ammassata sulla scrivania, che mi dava sempre un senso di
smarrimento ma
meno accentuato di qualche minuto prima.
Perché dentro di me si stava facendo strada una
sensazione sconosciuta, come se per la prima volta la mia vita avesse
un senso.
Il giorno dopo avrei risposto alla signora Hull e
accettato il lavoro, a qualsiasi condizione.
Il giorno dopo, forse, avrei anche preso in mano quei
libri dopo mesi e mi sarei messo a studiare.
♥
♥ ♥
AUGURI RANDYYYYYYYYYYY, BIMBO MIOOOOOOOO
*_______________*
Ragazzi, ma quanto mi era mancato scrivere di questo
pandorino???
Ebbene… lo scorso anno ho scritto una storia in cui ho
voluto evidenziare la sua totale indecisione verso il suo futuro,
mentre qui ho
voluto dargli almeno una piccola speranza, un minimo di direzione. Non
sappiamo
ancora cosa Randy diventerà, se seguirà davvero
questo nuovo sogno di fare
l’educatore e se sarà abbastanza tenace da
combattere la sua pigrizia nei confronti
dello studio, ma una cosa è certa: non è un
ragazzo superficiale e vuoto, non è
vero che non ha sogni e obiettivi nella vita, non è vero che
nulla lo interessa
e lo coinvolge veramente.
Insomma, si è capito che sono dalla sua parte e lo
difenderò finché vivrò? XD
MA DEL RESTO COME SI FA A NON VOLERGLI BENE??????
*_____________________*
Sono davvero curiosa di sapere cosa ne pensate del suo
atteggiamento nei confronti di Rose!
E a proposito di lei… chi l’ha riconosciuta??? Eh
sì, si
tratta proprio della piccola Rose protagonista della mia shot Al
sole
piace mangiare lo zucchero filato, in cui presento
la sua
primissima caratterizzazione e spiego dall’interno i
meccanismi dei suoi ragionamenti
fuori dal comune. In realtà questo personaggio non
è mio: la prima storia in
cui compare partecipa al contest “Un anno
all’inferno” indetto da Artnifa; era
stata proprio la giudice a lasciare a noi partecipanti una lista di
personaggi
strambi, era nostro compito sceglierne uno e svilupparlo. Questa
è la traccia
su cui mi ero basata:
Rose: ha 7 anni e vive nel suo mondo, tanto che
bisogna chiamarla almeno tre volte prima che si giri. Ma non
illudetevi, non
riuscirà ad ascoltare un intero discorso senza distrarsi.
Dopo la partecipazione avevo chiesto alla giudice se
potessi far comparire Rose in qualche storia futura (perché
avevo già in mente
questo crossover) e lei mi aveva dato il via libera per farne
ciò che volevo ^^
non la ringrazierò mai abbastanza per avermi
“regalato” questo stupendo
personaggio che ha cambiato la vita al mio Randy *-*
Lascio solo una piccola noticina per quanto riguarda il
ragionamento irrisolto: Rose afferma che il quarantaquattro
è più lungo
dell’ottantatré perché, scritto in
lettere, il primo è formato da quindici
lettere mentre il secondo da dieci ^^
Beh… mi sono divertita tantissimo a scrivere questa
storia, è stata una corsa contro il tempo ma ne è
valsa la pena *-* e spero
che, al di là della sua assurdità, si sia colta
l’importanza che questo
episodio rappresenta nella vita del protagonista! :3
Grazie a chiunque sia giunto fin qui e ANCORA TANTISSIMI
AUGURI a Randy, il mio piccolo sole e l’altra metà
del mio cervello ♥
P.s: il compleanno di Randy è il 4, stavo anche per riuscire
a pubblicare in tempo ma OVVIAMENTE internet ha deciso di crashare nel
momento sbagliato e la storia è stata uploadata alle 00:00
-.-"
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