Grenzen |
Same old limits
“Moblit!”
Il giorno
in cui morirà, impiegherà almeno un paio d’ore prima di capire di essere morto
davvero.
Moblit se
lo dice da sempre.
Qualcosa dentro
di sé lo ha convinto che quando arriverà il suo turno, la morte avrà comunque
il volto di Hange.
Non sa
dire se sereno e sorridente come gli piace credere, oppure cupo e indispettito
per averla abbandonata a sé stessa senza assolvere il suo compito (più una
promessa, in realtà) di ritardare la sua, di dipartita. Davvero, non lo sa.
Ad ogni
modo, la morte avrà il suo volto.
Di questo
ne è sempre più sicuro. Ed è per questo che, in momenti come questi, è sempre così
difficile capirci qualcosa.
“Riesci a
sentirmi?”
Oltre al
suo cipiglio, c’è anche la pioggia che gli batte in viso.
È un
aiutino fin troppo scontato, no?
“Moblit?
Mi senti?”
Vorrebbe
accennare un sì, ma non sa se effettivamente riesce a farlo.
Le mani di
Hange chiudono le sue guance, interrogano la giugulare.
Tradiscono
un fremito che Moblit sa che è lì solo perché è lui; solo perché quella è la
sua pelle.
Si sente
un po’ arrogante.
“Cos’è
successo!?”
La sua
voce si incrina più di quanto si addirebbe ai gradi sulle sue mostrine.
“Era sulla
sponda orientale del lago, caposquadra. Su in collina il sentiero è franato. Il
vice caposquadra Moblit è caduto giù insieme al suo cavallo—”
‘Lago’,
‘frana’, ‘cavallo’, ‘voce di Nifa che declina
sciagure’ – sono tutte tessere di un mosaico che si incastrano
tra loro creando immagini che prima della sua mente, sono i suoi arti a
ricordare.
“Portatelo
al riparo, forza!”
“Signorsì.”
Urla
quando qualcuno che non è Hange gli accosta le braccia al torace.
Lo fa
ancora di più quando quel qualcuno (che non è Hange) va a toccargli invece le gambe.
“Ehi, voi
due! Muovetelo piano!”
“Hange—”
“Dannazione, voi due!”
“Ci
perdoni, caposquadra.”
“Credete
di avere a che fare con una bestia!?”
“Hange,
stai indietro, vieni qui—”
Braccia forti
e grosse lo sollevano dal carro, ed il dolore è lancinante.
È più di
quanto la sua gola riesca a trattenere. Urla ancora.
“Abel! Piano,
ho detto!”
“Hange,
vieni con me.”
“E tu non toccarmi, Erwin! Abel, cazzo!”
La lettiga
non mitiga nulla del terreno roccioso sotto la sua schiena. Moblit ci prova
anche ad aprire gli occhi, ma non ha una grande visuale.
Non
importa quante volte sbatta le ciglia: le gocce di pioggia (e forse
qualcos’altro) che lo bagnano saranno sempre più veloci di quanto ci metta il
suo cervello a vedere qualcosa che non sia il volto allarmato di Hange
gravitare sul suo; il volto allarmato di Hange andare contro tutto e tutti pur
di restare lì, a confermare il dubbio sulla sua sorte.
**
“Moblit?”
Non sa quanto
tempo sia passato.
A
giudicare dai profili traballanti di Abel e Keiji in
quel ritaglio di sfondo che gli è concesso scorgere oltre l’incavo del collo di
Hange, non più di una manciata di minuti.
Il
problema è che non sa dire con certezza neanche cosa sia accaduto, e ha passato
fin troppi pomeriggi a studiare insieme ad Hange per non sapere che non è un
buon segno.
Non ha più
la pioggia scrosciante a battergli il petto, né la voglia irrefrenabile di
urlare come non faceva da anni – il volto di Hange però è sempre lì, e a questo
punto si domanda se davvero non sia la prova che è tutto finito. Se quei dolori
che sente qua e là non siano in realtà parte della scenografia creata
dalla sua mente per non fargli patire troppo il distacco dal suo corpo terreno,
non subito almeno.
Non troppo
in fretta.
“Ci penso
io a lui, andate.”
“Signorsì.”
“Ne sei
sicura, Hange?”
“Sì. Vai
anche tu, Erwin.”
“Di solito
sono io a dare gli ordini.”
Moblit
apprezza il tentativo del comandante di allentare la smorfia con cui Hange ha
storto il viso, perché anche se si sfalda e ricompone ad ogni colpo che gli
rimbomba nelle tempie, lui comunque la riconosce; sa in che situazioni appare,
e la consapevolezza di essere adesso una di quelle situazioni è più di
quanto possa sopportare. Qualcosa di amaro schiocca nel suo palato.
“Mi
dispiace, sai? Per prima, intendo. Ho esagerato.”
Erwin non
è arrabbiato.
Le fessure
dei suoi occhi sono larghe abbastanza per vedere il comandante stringere
un’ultima volta la mano sulla spalla di Hange, e quella non è la stretta di un
uomo arrabbiato, si racconta.
“Occupati
del tuo vice, adesso. Se hai bisogno, non esitare a chiamare.”
“Signorsì.”
Segue la
sua uscita con lo sguardo; è proprio questa a dirgli di più: gli racconta che è
in una tenda, che il triangolo di luce che si leva dalla falda sollevata al
passaggio di Erwin brucia gli occhi, che sono i fiati di Hange quei suoni che
sente adesso montare ad un ritmo sempre più serrato, sempre più innaturale.
“Sto
bene…” è una risposta codificata nei suoi geni. Di fronte a quei respiri, la
direbbero anche se del suo corpo fossero rimaste solo delle labbra: sarebbero
più che sufficienti.
“C-caposqua-dra—” dice, ingoia un gemito.
“Hange—” si corregge subito, perché Moblit sa cosa sono i limiti, e sa cosa
sono quelle mani nervose che scorrono sul suo petto adesso nudo controllando ad
una ad una le costole come fossero tasti di uno strumento macabro che produce
suoni sconnessi: lamenti e sospiri che non sarebbero poi così male se non si
miscelassero ad altri lamenti ed altri sospiri, e singhiozzi, e fiati anomali
che fanno vibrare quelle dita in un tremito che si fa beffa di ogni grado e di
ogni stelletta, di ogni dettame della scienza che Hange ha domato.
Questo
vuole tornare indietro, indietro ad un tempo perduto. E fa male.
Ingoia
qualsiasi altro dolore il suo corpo possa lamentare, fa veramente male.
“Hange—” è
più facile rintracciare quella mano che adesso si è spostata sulle sue ossa
pelviche, “Hange, st-sto bene—” Lottano un po’, ma poi le dita si calmano,
frenano, si fermano quando le interseca di prepotenza alle sue.
L’altra
mano è dolorante; sanguina, probabilmente – ma lui la solleva lo stesso, perché
il bisogno di andare su quelle nocche è più forte.
“V-va…tutto
bene, davvero…” dice ad occhi chiusi, prendendo un respiro come fosse il primo
dopo tanto tempo. La tiene ancora stretta mentre sussurra qualcosa che i
rintocchi nelle tempie gli camuffano. Qualcosa di dolce, quasi impronunciabile
dalla Hange che conosce. “Dico sul serio.”
Il suo
pollice è scivolato lungo la linea del suo polso, legge.
Circa centosettanta battiti al minuto, in
diminuzione.
Centocinquanta, i suoi capelli arruffati sotto al
mento lo solleticano un po’.
Centotrenta, forse.
Hange
allunga un braccio, le sue dita sfregano adesso la nuca; le lenti degli
occhiali graffiano il suo sterno, sono terribilmente ingombranti. Più di quel
singhiozzo umido che si lascia scappare sul suo petto, lì dove il battito gli
fa perdere il conto del suo.
Nell'attimo
in cui la sente fremere cala un silenzio che sembra inviolabile. Tace, Moblit.
Non si
muove neppure. Resta come in attesa che qualcosa esploda.
“N-non
farlo—” Hange si interrompe. Solleva la testa per rimodellare la voce.
Perché è
talmente rotta che non va bene, sa che è così. Solo, si domanda se questo abbia
o no a che fare con la mano che ad un certo punto le ha infilato tra i capelli,
spettinandola ancora.
“Non farlo
mai più, Moblit.” La sua bocca è storta mentre con i polsi porta via un altro
paio di lacrime di quel pianto mutilato.
“Non
piangere,” Stira le parole e gli angoli delle labbra. “Dai, non fare c-così,
Hange.”
Ha battuto
la testa.
Lo sa lui e lo sa Hange meglio di lui.
E
qualunque cosa quella frase possa generare, non la genera.
“E tu non
dormire.” Arriva dopo molto tempo. “Se non vuoi che io pianga, allora vedi di
non dormire.”
Schietta,
armeggia alla sua sinistra con qualcosa. Il miscuglio tra olio combustibile e
disinfettante è disgustoso, gli pizzica un po’ il naso.
Moblit
sorride, sa che dovrebbe restare vigile. Tutto intorno a lui è un continuo
ripeterglielo: Hange, le fitte alle tempie. Hange più delle fitte alle tempie.
Ma è così
stanco, e le mani di Hange ancora tremanti sono così leggere su quell’addome
che palpa con un tocco che vuole essere freddo e clinico, ma di freddo e
clinico non ha proprio niente, le direbbe.
“Ehi—”
Dovrebbe scuoterlo per le spalle, quelle non sono rotte (almeno loro, non
dovrebbero esserlo). E invece porta una mano sulla sua fronte, quasi
dispiaciuta. “Non dormire,” insiste.
“Hai preso
una bella botta in testa,” Ci tiene a ribadirlo. Forse perché vuole comunque
guardare di nuovo quel che l’impatto del suo cranio contro chissà cosa
ha combinato poco sopra l’orecchio.
Gli inclina il collo da un lato; fa male, ma lei fa piano. Ha già passato due,
tre volte le dita su quelle ferite, continua a tornarci.
“Non fa
male—” la aiuta.
Hange
sospira, tampona con una garza che non sapeva neanche avesse tra le dita.
È sicuro che quelle carezze di contorno non siano menzionate in nessun tomo di
medicina.
“Se non
smetterà di sanguinare dovrò liberare questa parte dai capelli e dare qualche
punto.”
Moblit
solleva le spalle con disinteresse, ci ripensa un po’: forse qualcosa di rotto
c’è anche da quelle parti.
“Hang—”
dice, non fa in tempo a finire. Soffia, quasi urla quando le dita di Hange che-più-tanto-gentili-non
sono, si aggregano pericolosamente sulle sue gambe. La destra, o forse la
sinistra. O forse tutte e due.
“Shhh, va tutto bene—”
“Sono rotte,
vero?” prova a sollevare la testa, il collo non è d’accordo.
Il palmo
che gli piazza sul fianco lo convince a dargli retta.
“Shhh—”
“Sono—sono
rotte?” insiste.
“Non mi
sembrano rotte, no. Ma tu stai calmo, lasciami controllare meglio.” risponde,
quasi spasmodica, “Lasciami controllare meglio, Moblit, eh?”
Moblit
esala un sospiro, prova ad inghiottire la nausea.
Quando la
lama di una forbice chirurgica gli libera le ginocchia dalla stoffa bagnata, un
urlo non sarebbe fuori posto, ma si impone di non farlo. Hange gli solleva le
gambe, le piega, le ispeziona meglio sotto la luce di un lume proprio come
aveva chiesto, e lui si irrigidisce. Lui affonda gli incisivi nel labbro
inferiore, si sforza di respirare con lo stomaco: se non sono le sue gambe ad essere
rotte, allora lo saranno altri suoi arti che la concussione non gli permette di
rintracciare.
Se non
sono le sue gambe, è comunque fortunato.
Hange
tocca ferite che non sapeva di avere, anche lì si impone di non emettere alcun
fiato.
“Posso
sorvolare sulle ferite della gamba sinistra. Con un po’ di attenzione
guariranno da sole. Ma quelle della destra sono profonde, Moblit. Devo
richiuderle. Non ho scelta.” annuncia, il tono sconfitto e incomprensibilmente colpevole.
“Non
voglio essere anestetizzato…”
“Perché?”
Si è
sempre detto che il dolore è qualcosa che deve imparare ad accettare.
Più
permetterà ad Hange di nasconderlo per lui, più si troverà impreparato quando
arriverà un dolore per il quale non esiste anestesia.
Hange
attende che il suo silenzio si tramuti in qualcos’altro, poi rinuncia.
Scuote la
testa, torna a rimestare in luoghi sbiaditi che la circondano.
“Io non
suturo nessuno senza anestesia, lo sai.”
Bugiarda.
I soldati
a cui ha riposizionato a mani nude l’intero apparato digerente tra il fango dei
campi di battaglia potrebbero certamente testimoniare a suo favore.
“Non
quando le condizioni me lo permettono, almeno.” aggiusta il tiro, come avesse intercettato
il suo pensiero. Moblit sorride, anche se quell'ago che lo punge da sorridere
gli dà poco.
“Coraggio,
ne hai sopportate di peggiori in passato,” dice lei sullo spegnersi del suo
grugnito, prima di pungerlo ancora, con gli occhi, poi di nuovo con la sua
siringa, e sì – i quindici giorni di antinfettivo direttamente a casa del
dottor Zoë sono stati ben peggiori, concorda.
Le altre
due iniezioni tutt’intorno non le percepisce, né sente ciò che Hange combina
dopo al suo polpaccio, e forse non è più neanche tanto importante.
“Senti
niente?”
“Cosa
dovrei sentire?”
Il
crepitio della forbice chirurgica che viene abbandonata sul carrello è segno
che la sua domanda di ritorno è stata più che sufficiente.
È pratica
e veloce, finisce in meno tempo di quanto la sua mente riesca a tenere traccia.
“Non
dormire, ehi—”
Se non
fosse per questa frase, scoccata di tanto in tanto a metà tra una preghiera e
un rimprovero, sembrerebbe quasi come se Hange fosse andata via. E Moblit è
sorpreso di esserne sorpreso: quando sutura, Hange non parla, o per lo meno,
non chiacchiera come al suo solito. La sua presenza si fa discreta, il suo
respiro si fa leggero, quasi temesse di spezzare la sacralità del momento in
cui riavvicinando lembi di carne, sugellare su un corpo nuovi contorni. A
volte, nuovi confini.
Neanche
lui emette fiato. Lascia che il suo udito acuito dal mal di testa insegua il limpido
sibilo del filo che si libra nell’aria come il respiro di una nuova creatura.
**
“Moblit!”
Non sa
quanto tempo sia passato. Neanche questa volta.
Non si è
neanche reso conto di essersi addormentato, ma in verità, l’angoscia di averlo
fatto non ha su di lui lo stesso ascendente di prima. Ora come ora, la priorità
è riuscire a non soffocare nel magro contenuto che il suo stomaco gli riporta
in gola sotto forma di conati così, per dispetto. Come se all’improvviso anche
lui volesse la sua fetta di attenzioni.
‘Adesso
bevi questo, coraggio—’
Il ricordo
arriva alla mente tracciato da una delle sue matite: sente le mani di Hange
(sono le sue: quelle dita lunghe e ossute possono essere solo le sue)
toccarlo dove la sua pelle non ha ancora perso il calore lasciato da prima.
Non potrà
mai saperlo con certezza (l’unica cosa certa, è che quella botta alla testa è
riuscita ove tutti i boccali di birra di certe notti balorde hanno fallito) ma
è abbastanza sicuro che se potesse controllare un lembo della sua guancia
sotto uno di quei microscopi che tanto piacciono ad Hange, troverebbe le sue
impronte sovrapposte una sull’altra, sempre sugli stessi punti, sempre più
visibili.
Come se
quelle dita (così lunghe e ossute, così solo-di-Hange) conoscessero ogni
sua fibra talmente bene da sapere ove toccare per farlo stare meglio.
O peggio,
a seconda dei casi.
Le sue
papille ci avevano provato ad avvisarlo che non era solo acqua, quell’intruglio
che Hange è riuscita a convincerlo a bere spacciandolo per tale, ma lui non aveva
voluto dar loro retta.
Hange
aveva raccolto la sua testa e se l’era adagiata contro il petto. Il suo cuore
di nuovo calmo nelle orecchie, le sue dita (così sue) sotto al mento…
che altro avrebbe potuto fare, se non bere, così come ordinato?
Dio, in
quel momento avrebbe anche camminato a quattro zampe, se glielo avesse chiesto.
“Vieni
qui, voltati,” lo aiuta a girarsi su di un fianco spingendolo dal collo e dal
bacino. Punti strani, ma non casuali: se evita in quel modo le spalle, è perché
hanno qualcosa che non va. Prova a muoverle, non è sorpreso di ritrovarle
bloccate da bende.
“Shhhh, non è successo
niente,” bisbiglia. Il fatto che lo ripeta appena dopo e che soprattutto, lo
faccia premendo i polpastrelli tra i capelli radi della sua nuca (bendata? Suturata?)
fa capire che ‘niente’ non è esattamente il termine che descriverebbe
meglio la realtà.
Moblit fa
un nuovo tentativo di riaprire gli occhi, giusto perché non vederla in momenti
simili gli fa proprio strano.
Ha i
capelli asciutti sulle spalle, l’imbracatura allentata.
Gli occhi
liberi dalle lenti ostentano uno di quei sorrisi forzati che di solito usa per
salvare i suoi pazienti dalla disperazione, e lui non è da meno. Si fa salvare
anche lui.
Perché è così
bella.
“Han—” Il
palmo tra le scapole Hange lo sfrega ancora prima che la sua bocca possa
spalancarsi sotto la furia di nuovo conato. “Non parlare, va tutto
bene—”
Non
rigetta niente, questa volta. Ma il suo stomaco è un vile, insiste ancora. Ed
insistono anche le carezze di Hange su di esso come a dimostrargli che non è il
caso di continuare fare la voce grossa e piegarsi in quel modo orrendo.
“Va tutto
bene,” Il fazzoletto con cui gli tampona le labbra impiastrate è morbido, è
lieve, così lieve da trovarlo quasi piacevole, perché diamine – solo il cielo
sa quanto odi vomitare, ma solo una sua concussione è capace di tenere Hange
lontana dai pericoli, per cui di tanto in tanto, è ben lieto di offrirgliene
una, dice a sé stesso, prima di rendersi conto di star delirando.
“Shhhh, non è successo niente, ti sei solo spaventato un
po’…” cambia fazzoletto, ripulisce anche i suoi occhi e il fatto che abbia
qualcosa da ripulire anche lì spiega perché ci tenga tanto a rassicurarlo.
“Come ti
senti adesso? Va un po’ meglio?”
Moblit
annuisce.
“Puoi dirlo
a voce?”
“Sto
meglio—”
Piegata
sulle ginocchia, Hange sfiata. Moblit la sente così vicina da metterlo quasi in
soggezione. Quasi.
“Sul serio?”
è un’altra Hange quella che lo vuole sapere. “Sul serio stai meglio, Moblit?”
È la Hange
che ha le dita sporche di fanghiglia e un retino rosso pieno di rospi. Quella
che lo prendeva per mano e lo tirava su affinché anche lui, goffo e certamente
meno agile di lei, riuscisse a raggiungere il ramo sulla quale si era
arrampicata per confermare che sì, quel bugiardo di Joseph Rogge aveva mentito:
non c’erano affatto uova blu in quel nido.
“Sì, sto
meglio—"
Come
potrebbe non stare meglio? Quelle nocche sulle guance e poi sulla fronte sono
l’incarnazione stessa dello ‘stare meglio’.
“Il mal di
testa?”
“Sta
passando…” Più o meno.
“Per
fortuna…” bisbiglia, “Per fortuna, Moblit—” e sospira di sollievo, e di amore,
e di tutto quello per cui Hange dovrebbe sempre e solo sospirare, secondo lui.
“Vieni
qui,” d’un tratto si sente coraggiosa. Moblit lo sente dai suoi polpastrelli,
dal modo in cui la sua voce torna quella della caposquadra, o un miscuglio
pericoloso e ambiguo tra le due; non è sicuro (qualunque cosa Hange gli abbia
fatto bere, e qualunque cosa il suo corpo gli abbia saggiamente fatto
eliminare, beh, ha comunque avuto il tempo di fare la sua parte).
“Vieni,
mettiamoci seduti, forza—”
Geme, non
lo fa di proposito; si maledice per averlo fatto.
Perché anche
se Hange finge di non farci caso, Moblit sa che non è così. Le sue mani
scivolano, cambiano posizione, cercano con difficoltà un nuovo punto dove poter
premere senza fargli male, e si sente in colpa, perché è sempre la solita
vecchia storia, soliti vecchi limiti.
Dimentica
ogni cosa quando il mondo torna in verticale e la nausea torna a farlo suo.
“Ehi—” La
mano di Hange sul fianco gli presta un equilibrio che scopre di non avere; ha
più forza in quelle braccia di quanto tenda a credere. “Stai bene?” gli ripete.
Il
capogiro è come un moscone che gli ronza in testa. Moblit ingoia saliva
acidula. “Sì, sto bene—” mente di nuovo.
Hange
inforca gli occhiali recuperati da un lato oscuro alla sua sinistra, lo osserva
ancora un po’.
Ne osserva
gli occhi che gli fanno la cortesia di restare aperti e incontrare i suoi, poi
annuisce appena.
Osserva le
bende, le sue lenzuola. Guarda in basso, poi ai lati.
Prende
consapevolezza di quello che è un disastro annunciato.
“Mi
dispiace,” dice Moblit.
“No, è
stata colpa mia. Non avrei dovuto ingozzarti in quel modo.”
“È una
tradizione.”
“Eh?”
Hange solleva lo sguardo perplessa. Qualcosa si libra in aria, e lui quel
qualcosa lo osserva come osserverebbe una monetina da cui attende un verdetto.
Cristo, ma
cosa gli è saltato in mente?
“Ah—”
Hange sorride, il suo sguardo si ammorbidisce, “La zuppa di grano di zio
Ulrich…”
Riprende
ad appallottolare tra le braccia le lenzuola sporche che ha rimosso dal suo
letto.
L’impazienza
è la stessa di chi ha osato indulgere in un bel ricordo troppo a lungo.
“Piagnucolavo
come un vitellino al macello per l’iniezione che mi avrebbe atteso da lì a
pochi minuti,” Si ferma. La dignità si allea alla nausea, tentano insieme di
dirgli che forse ha già straparlato abbastanza, ma non basta. “—ma tu continuasti
ad imboccarmi incurante—”
Il sorriso
di Hange trema, si allarga sul suo viso più di quanto vorrebbe.
“Finché non
vomitasti pure l’anima.” dice, scuote la testa, “Certe cose non cambiano mai—”
“Ed è
un—una fortuna.” dice Moblit, trattenendo un sussulto quando i palmi appiattiti
di questa vanno a sondare l’incolumità delle bende che gli tengono insieme il
torace. Ci prova di nuovo.
“Ed è una fortuna che non cambino, Hange.”
“È una
fortuna che io stia ancora qui a rimpinzarti di roba che poi vomiterai?” dice a
labbra arrotondate, quasi divertita.
“È una
fortuna che tu stia ancora qui—” Il braccio dolorante finito sotto le dita di
Hange non c’entra, Moblit si arresta prima. Inspira, avvampa, “—a rimpinzarmi
di roba che poi vomiterò,” e naturalmente, rovina tutto.
Hange
tace, assorbe la sua frase per qualche secondo, per poi far finta che non sia
mai esistita.
“Questo
braccio mi piace sempre meno, credo sia fratturato.”
Comincia a
crederlo anche lui: tenere le labbra serrate mentre Hange lo libera dalla benda
imbrattata di vomito è spaventosamente difficile.
“Bisognerà
dargli una bella sistemata e tenerlo ingessato per almeno quindici giorni,”
“Lascia
che sia Abel ad occuparsene. Torna a riposare, ti ho svegliata io, poco fa—”
“Non è necessario.”
Ha già
avvicinato il carrello. Rane e ranocchi tratteggiati di gesso sgusciano fuori
dalla borsa di tela scura dalla quale Hange estrae piccoli contenitori di
latta. Moblit si strofina gli occhi con l’unico pugno che è in grado di muovere
ancora, i ranocchi sfumano nelle zone d’ombra intorno.
“Lo farò
io non appena troverò un sedativo che il tuo pancino suscettibile potrà
tollerare.” Non lo guarda neanche, impegnata com’è a controllare a uno ad uno i
flaconi estratti dalla latta.
“Lo farai
tu?”
A quel
punto sì che Hange solleva gli occhi.
Il
contagocce che ha appena riempito di una sostanza scura perde tutta la sua
attrattiva. Storce il naso.
“Certo che
lo farò io.”
Risposta scontata. Non doveva neanche porla, una
simile domanda.
“Solo
perché in genere lascio che sia tu ad occuparti di queste cose non significa
che io non sia in grado di farlo.” dice senza rimprovero recuperando una tazza
dal carrello.
“Non
volevo dire questo…”
Il
peggioramento della sua emicrania se lo merita tutto.
Il riguardo che Hange gli riserva decidendo di
spegnere lì la polemica, no.
Ma la
verità è che non è mai stata davvero offesa da quelle parole, è troppo
intelligente per farlo.
“È solo
che…mi dispiace…”
“Di cosa?”
il tintinnio del cucchiaino contro le pareti della tazza sono chiodi che
vengono martellati nelle sue orecchie, lì, dove qualcosa sta per cedere.
“Di
tutto—” solleva un po’ la spalla, prima che gli faccia troppo male.
Hange
solleva un sopracciglio; rimane così per un po’. “Diamine, certo che le
commozioni cerebrali ti fanno davvero uno strano effetto—” sussurra, non è
seria come vuol far credere.
“Abel ti
farebbe male—” aggiunge.
“È un’operazione
che fa male…”
“Non con
la giusta analgesia.”
Mescola
sul fondo del bicchiere un impiastro denso e granuloso che di tanto in tanto
solleva, ne valuta la consistenza, per poi agitarlo ancora e ancora.
Lo fa un paio
di volte, prima di riuscire a prenderne una cucchiaiata che la soddisfi
davvero.
Moblit non
ha mai visto niente del genere.
“Vediamo
di aprire questa bocca per qualcosa di utile, adesso.”
Calca le
ultime parole con un tono da istitutrice. Moblit non oserebbe mai disobbedirle.
Affonda la
schiena sul cuscino che ha posizionato per lui, perché la testiera della branda
in ferro è, effettivamente, troppo dura.
“Voglio
che tu mandi giù questo molto, molto lentamente.”
“Cos’è?”
“Qualcosa
che Abel non ti darebbe.”
Non è una risposta che gli basta. Hange ruota gli
occhi.
“Te l’ho
detto, è un sedativo che dovresti riuscire a non vomitare. Adesso, apri.”
Nello
stesso istante in cui il cucchiaio finisce in bocca, Moblit scopre che anche
l’inferno può avere un sapore, ma è una scoperta che terrà per sé.
Lo sguardo
severo e immobile di Hange ammette un solo, unico gesto da parte sua.
E lui lo
fa: deglutisce. Perché sa cosa sono i limiti e sa anche che non c’è niente
di cui Hange abbia più paura che il suo dolore.
“Bravo bambino.”
Anche
questa è tradizione.
Le
lenzuola di riserva che Hange ha recuperato dai vari bauli ancora imballati lì
intorno non sono morbide come quelle di prima, ma a contatto con il suo corpo
scricchiolano ancora di amido, ed è una bella cosa, dice a sé stesso
abbandonandosi a quel tepore protettivo; è una bella cosa perché odorano dello
stesso disinfettante che aleggiava nello studio del Dottor Zoë,
e dal Dottor Zoë c’era Hange.
E la presenza di Hange non poteva che essere una
bella cosa.
Come
quella roba che Hange adesso gli ha fatto ingoiare, qualunque cosa essa sia
stata.
“Come mai
non mi hai ancora fatto una delle tue iniezioni?” La sua voce è già incrinata
da qualcosa che lo sta già facendo suo; il modo con cui ricerca la sua figura
con lo sguardo tradisce un certo timore.
“Perché
come hai detto anche tu, certe cose non cambiano mai—" Hange risponde
distratta, aggiungendo un’altra coperta a quella che gli ha già spiegato
addosso. Poi abbassa il viso su di lui, lo guarda negli occhi: “Inclusi i tuoi
piagnucolii di fronte ad una iniezione—”
Inclusi i
suoi cinque giorni necessari affinché si convincesse a bucargli le chiappe al
posto di suo zio, vorrà dire.
Ma Moblit
non lo dice.
“Non sono
più quel bambino di sette anni…” dice ad occhi chiusi, un sorriso gli si
allarga sulle labbra, e Moblit lo immagina ebete come poche altre cose al
mondo.
“No, non è
vero. Sarebbe davvero terribile se fosse così…” una frase simile per essere
efficace andrebbe distorta con un sogghigno, una nota di derisione, un pizzico
di bonario sarcasmo, ma non ha niente di tutto ciò.
Moblit la
sente vibrare nel buio delle sue palpebre come il frammento di un corpo
celeste; la vede abbozzare immagini bianche su sfondo nero, ricordi che vanno
di pari passo a quelle nocche che Hange fa scorrere sulle sue guance mentre
attende che il sedativo faccia il suo dovere.
“Se quel
bambino di sette anni smettesse di esistere, allora smetterebbe di esistere con
lui anche una parte importante di me, e di certo me ne accorgerei…”
Non sa se
lo abbia detto davvero. I suoi occhi sono talmente immoti sotto il cono d’ombra
proiettato da Hange che potrebbe benissimo essere parte di un sogno, uno di
quelli che subentrano nelle prime fasi del sonno, o della morte, già.
Potrebbe
anche essere la morte.
Perché avrà il volto di Hange, Moblit ne è convinto.
“Tu sarai
sempre ogni singolo Moblit che io abbia conosciuto. Tu sarai sempre il mio
Moblit.”
Qualunque
cosa sia, a Moblit va bene così.
Fine
***
Note:
· Scritta per l’Advent Calendar del gruppo Hurt/Comfort
Italia e betata
a tempo di record da Eikomidori. Grazie infinite! <3
· Segue il filone, condiviso da me e Joy, che vede Hange e
Moblit innamorati sin dall’infanzia;
· La vicenda di Moblit da bambino con la polmonite
potete trovarlo nel mio Character Study dedicato ad Hange.
· Grazie per aver letto! E’
sdolcinata, lo so, ma oh – è uscita così <3. In fondo, è un POV abbastanza
inaffidabile.
Visto che il povero Moblit si è preso una bella botta in testa e straparla, ci
può stare.