La musica
di Ketterdam è la pioggia.
Un'orchestra
di strumenti umili, che si rafforza col vento e che copre qualsiasi
altro rumore. In quei momenti, la città smette i panni del
brulicante porto di criminali e torna a essere un insieme di edifici
che a malapena si distinguono tra loro, con le insegne che cigolano
sotto le raffiche di vento, le porte che sbattono, le finestre
percosse.
È in
questi momenti che Kaz Brekker, calata la quotidiana maschera
dell’inganno, può chiudere gli occhi e illudersi
di sentire altro,
nel buio del temporale.
La immagina
danzare sui tetti, i piedi leggiadri che a stento sfiorano la
superficie dell'acqua che scivola via; vede la sua ombra stagliarsi
contro la luce dei fulmini, prima di svanire più veloce del
rombo
del tuono.
Ma Inej
Ghafa non è più un’evocazione delle
strade di Ketterdam. Lo
Spettro non ha più alcuna catena a legarla alla
città, e viaggia
libera per mari che Kaz può solo immaginare dai racconti
delle sue
lettere.
Ed è un
bene.
Eppure,
quando è solo, la brama lo anima di continuo. Pulsa, sotto
la pelle
scura dei suoi guanti, che pure non riuscirebbero a toccarla. Gli
corrode la mente, perché sa che è il desiderio
inespresso di un
bambino e che non ha alcun diritto di esprimerlo.
Allora, si
limita a fissare la finestra che lascia socchiusa persino in quelle
pessime serate. Un'abitudine che dovrebbe gettare via, come tante
volte ha già fatto.
«Kaz.»
Sente
persino il sussurro della sua voce calda, con quella nota di
malinconia che l'ha sempre contraddistinta e che non ha perso neanche
adesso che ha ritrovato i suoi genitori. È l'ombra di un
dolore che
lascia segni indelebili – un vuoto che hanno scoperto di
condividere.
Per un
folle secondo, evoca il labile ricordo della sua pelle nuda sotto le
dita ma il brivido che lo scuote è un'antitetica spirale di
disgusto
e piacere.
Merita di
meglio. Lo sa ancor prima di riaprire gli occhi, e ne è
consapevole
mentre si costringe a tornare al cumulo dei fogli sulla sua
scrivania.
Una risata
leggera dà forma al sorriso prezioso dei suoi pensieri.
«Kaz?»
E lei è
lì, avvolta in abiti di guerriera, armata della sua fede e
della sua
fermezza. Kaz scorge a malapena gli occhi scuri infiammati dalle
candele dello studio, il volto scuro avvolto in uno scarmigliato
intreccio di veli e capelli neri come l'ignoto.
«Le
vecchie abitudini sono dure a morire, vedo» risponde.
Inej fa
qualche passo avanti, emerge dall’oscurità a cui
non appartiene
più. Gli abiti sono umidi dal temporale, ma non ci vuole
molto per
capire che si trova nella stanza da ben prima che lui entrasse.
«Solo
quelle buone.» Non rimane in piedi, infatti. Si siede,
elegante
capitano della nave che lui stesso le ha procurato.
L’autorità
risplende sugli zigomi affilati, e Kaz si scopre invidioso della sua
ciurma. Quanto brilla, Inej, al timone della sua nave se riesce a
brillare come un sole a mezzanotte nel suo studio?
Una domanda
rimane sospesa tra loro, in un gioco di attese che una volta a Kaz
piaceva, tanto da alimentarlo continuamente. Adesso lo irrita.
«Immagino
tu sia qui per un--»
«Ho
bisogno di te.»
Le loro
voci sovrapposte spariscono sotto lo scroscio dell’acqua che
viene
da fuori.
Inej e la
sua nuova libertà, il suo cuore che batte con la forza di
due perché
deve farlo anche per quello affaticato dalla paura di Kaz. Inej e la
rinnovata speranza che Kaz non dovrebbe più conoscere, e che
eppure
vede in lei incarnata.
Si trovano
continuamente in bilico tra ciò che vogliono e non possono
dirsi, ma
Inej ama mettere alla prova la trave logora su cui si muovono. E Kaz
non è proprio un campione di equilibrio.
Esita, e
spera che non sia per un secondo di troppo. Innumerevoli via di fuga
da quella richiesta così diretta da dolere come un colpo di
balestra
si affollano sulla sua lingua, ma le tiene a bada.
Non parla,
perché sa che la ferirebbe ancora. Deve agire. Allora,
allunga
lentamente la mano verso di lei, posandola sulla scrivania che li
divide. La sicurezza guanto lo protegge dalla repulsione, ma non gli
impedisce di avvertire la pressione delle dita della ragazza che si
poggiano sul suo palmo, che afferrano la sua mano incerta e
accarezzano la stoffa scura.
Ogni volta
che si convince a rinunciare, lei appare. Come un segno.
«Ti
ascolto.»
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