DISCLAIMER: I personaggi di questa
storia sono puramente inventati.
Qualsiasi riferimento a fatti o persone realmente accaduti o esistenti
è
puramente casuale. Idem per i cognomi presenti, tutti scelti a caso.
Altre note a fine storia.
Cliché.
Era
iniziato
tutto con il porta-aceto.
O
più
correttamente, era finito tutto, con il porta-aceto.
“Non
metti mai
l’aceto in tavola” aveva detto la sera prima
Chiara, posando la forchetta nel
piatto, con una calma meticolosa e una placidità studiata
che non lasciavano
presagire niente di buono. Andrea non aveva risposto, aspettando che il
silenzio solito in cui erano avvolti nelle loro ore
pasti le togliesse anche quella volta ogni desiderio di
iniziare polemiche di dubbia utilità.
“A
me piace l’aceto”
andò avanti lei, invece, rimettendo al lato del piatto anche
il coltello. Il
che avrebbe dovuto rassicurare Andrea, invece gli diede la perfetta
misura di
quanto fosse catastrofico quello che ne sarebbe conseguito. Chiara
adesso lo
stava guardando, aspettando una sua reazione, o anche un minimo cenno
di
comprensione riguardo al punto focale del suo monologo. Andrea si
versò da
bere, sostenendo il suo sguardo con gli stessi occhi imperscrutabili
che
riservava alle facce sgomente dei suoi studenti in sede
d’esame, in università.
“E
detesto, lo
sai, la senape, ma metto sempre il barattolino al centro del tavolo,
quando
mangiamo la carne” insistette, sibilando.
“Chiara…”
iniziò
allora Andrea, prendendo atto di dover fermare subito la valanga di
recriminazioni
che languivano da un anno sotto la lingua della sua compagna.
“Ti
accorgi che
la sedia davanti a te è occupata?” lo aveva
interrotto lei, garantendogli che
quella sera non avrebbe avuto voce in capitolo, non una sola occasione
di dare
sfoggio della sua retorica allenata dai suoi studi giuridici e
praticata
compiacendosi del proprio riflesso nel cucchiaino del caffè
la mattina.
“Entro
da un
anno nel tuo letto e ancora non ho le chiavi di questa casa”
diede il via
all’elenco. Andrea finì il vino che aveva nel
bicchiere, sentendo di non avere
più molta fame. Lasciò perdere anche il contorno,
il caffè, l’amaro dopo il
caffè e passò direttamente alla sigaretta di
routine.
“Non
so di che
colore sono le pareti del tuo studio, non ho mai guidato la tua
macchina… non
sono neanche mai stata gelosa delle tue ex, perché non mi
hai mai raccontato
niente. E’ un diritto della fidanzata ufficiale, odiare le ex
del proprio uomo,
avvocato, e tu mi privi di questo
diritto”.
“Chiara,
io e te
abbiamo un concetto di rilevanza
giuridica piuttosto diverso” si permise di farle
notare con un sospiro
stanco. Il giorno dopo avrebbe avuto lezione alle otto, come tutti gli
altri.
Avrebbe anche dovuto discutere con il rettore di facoltà,
fingendo il solito
garbato possibilismo in merito alle sue idee quando invece non vedeva
altro
possibile rimedio all’idiozia e alla pochezza culturale di
quell’uomo se non
una rassegna di dimissioni. Ma quando mai.
“Me
ne frego,
della rilevanza giuridica!” esclamò Chiara,
serrando le dita smaltate contro il
collo del bicchiere come se fosse il collo di Andrea. Lui ne ebbe piena
percezione e non seppe se riderne o preoccuparsene. “Sai cosa
significa? Sì che
lo sai” continuava, ormai lanciata nella sua arringa.
“Perché tu te ne freghi
di tutto! Tu hai un serio problema relazionale, Andrea, lascia che te
lo dica.”
“Ti
ringrazio,
ne parlerò con il mio analista”.
Per
un attimo il
sardonico distacco delle sue parole sembrò lasciare attonita
Chiara e la sua
furia. Non che
fosse una novità,
dopotutto, da quando era divenuto capace di intendere e volere Andrea
aveva
fatto del più sincero e dissacrante cinismo il suo cavallo
di battaglia, in
sella a cui affrontare le più disparate e spiacevoli
incombenze della vita. Non
aveva mai dubitato che Chiara fosse stata attratta dal suo modo
impeccabile di
vestire in facoltà, dal sorriso irridente e
l’amore per se stesso e per il suo
lavoro, piuttosto che per il suo carattere. Ed era andato tutto liscio,
all’inizio il loro era stato un perfetto
contratto, l’espressione della comune
volontà delle parti, che ne delineava
la sintonia sessuale e la simpatia condivisa per il caffè a
stomaco vuoto nel
bar all’angolo dell’università.
Poi
lui era
stato distratto, evidentemente, dalla routine, dalla sua noia,
dall’affezionata
cura della propria persona. Gli era sfuggito il momento in cui Chiara
aveva
intrapreso i suoi voli pindarici e dipinto la loro storia come un
naturale
processo evolutivo verso la tenera e appassionata condivisione di
progetti di
vita e di vacanze al mare con gli amici.
“Non
devi
parlarne con il tuo analista” gli stava dicendo in quel
momento, a proposito,
con voce accorata. “Devi parlarne con me”.
Seguì
un
silenzio carico di sgomento da parte di Andrea, e di aspettative da
parte di
Chiara.
“Stavo
facendo
del sarcasmo” replicò spazientito, versandosi
ancora da bere. “Non abbiamo mai
discusso dei termini del nostro rapporto” aggiunse,
alzandosi, d’improvviso
prigioniero nella propria cucina.
“Ne
parli come
se fosse—” si interruppe lei, con un certo,
scenografico, orrore nello sguardo.
“Non
ho nessun
problema relazionale con te” cercò di spiegarle
Andrea, il più delicatamente
possibile, per non dover fare fronte anche all’isterismo del
suo orgoglio
offeso. “Né con i miei genitori o con me
stesso” aggiunse in fretta,
togliendole la possibilità di costruire psicologie turbate
intorno alla
semplice mancanza di volontà di avere una
“storia” – come andava di moda dire
–
con lei. “Non vedo il motivo di darti le chiavi di questa
casa, considerando
che ne hai una tua, e che passiamo tutto il giorno fuori dietro i
nostri
impegni”. Chiara avrebbe voluto suggerirgli che una
convivenza non le sarebbe
dispiaciuta, ma come le era mancato il coraggio di avanzare la proposta
in
tutti quei mesi, le mancò anche quella sera.
“E
le mie storie
passate hanno il pregio di essersi concluse. Non vedo perché
mai una Alice o
una Roberta dovrebbero avere l’obbligo di avere a che fare
con te solo perché
ti stai arrogando il diritto di dichiarare loro guerra. In nome di cosa
poi?”
concluse più che soddisfatto del suo argomentare, e
spegnendo la sigaretta nel
posacenere.
“Alice
e
Roberta? Dubito che ti sia limitato solo a due—”
“Sono
nomi
ipotetici. Smettila, Chiara” le intimò
considerando l’idea di accendere
un’altra sigaretta. O di tornare ad aprire il cassetto dei
segreti e tirare
fuori l’altro genere di fumo, che mai avrebbe ammesso di aver
provato di fronte
a terzi diversi dalla sua coscienza.
“Smettila
nel
senso di Zitta e mangia? Tu fingi
di
non vedere il problema, Andrea, io sono—”
“Sì,
certo, tu
sei innamorata di me. Così io posso passare una notte
insonne a rimuginare sui
fasti di quest’anno trascorso insieme, capire di aver vissuto
una vita a metà
fino ad ora, fare appello a tutto il mio coraggio e venirti a prendere
al
lavoro, chiederti di sposarmi, farlo davvero e poi fare un figlio, e un
altro a
distanza di non oltre cinque anni dal primo. E poi porterei a casa un
cane,
magari. E tu mi chiederesti di comprare una station wagon. Una
familiare a
cinque porte, con annesso il seggiolino e lo scalda
biberon…”
Chiara
era già
arrivata alla porta, quando lui era appena arrivato al concepimento del
secondo
figlio.
“Sei
uno
stronzo, Andrea” gli comunicò con la sicurezza di
un addetto stampa. Poi tornò
indietro, afferrò il suo codice civile dal secondo scaffale
della libreria
nell’ingresso e glielo lanciò con tutta la forza
del suo amore.
Andrea,
esattamente come aveva appena fatto con la forza dell’amore
di Chiara, lo
schivò.
“Dovrebbe
esserci una sezione speciale su quelli come te!” la
sentì urlare sul
pianerottolo.
“…
invierò una
mozione alla Corte costituzionale” mormorò lui,
godendosi la pace del silenzio.
*
“Come
fai a
passare un anno insieme ad una persona e a non affezionarti neanche un
po’?”
gli chiese la mattina dopo Amanda, cercando sul fondo della borsa il
suo
rossetto.
“E
tu come fai a
passare tutta la giornata alla ricerca del fondo della tua
borsa?”
Amanda
ignorò il
dettaglio riguardo l’antipatia di quello che in tutta la
facoltà di
Giurisprudenza alla fine doveva definire il meno antipatico, per forza
di cose.
“La
vita degli
assistenti è dura” sancì estraendo il
rossetto e svitando il tappo. Salvo
scoprire di aver messo in borsa quello finito. “Sei un
disastro” commentò senza
alcuna smanceria Andrea, tenendole aperto il portone
d’ingresso, perché almeno
non si facesse travolgere dalla marea di universitari alle sue spalle.
Lui
della vita degli
assistenti ne sapeva poco.
Alla
metà dei
trent’anni era professore ordinario, e a chi commentava il
fatto con un banale
e fatalista “che fortuna!”, non perdeva tempo ad
opporre il poco tempo in cui
si era laureato, gli anni spesi in America e in Inghilterra per
allargare le
sue competenze e il suo curriculum, gli scrupoli che non aveva perso
tempo a
porsi quando si era trattato di preparare un concorso e la passione per
l’oggetto dei suoi studi e del suo lavoro.
Sapeva
di essere
una rarità, e che il suo posto avrebbe dovuto difenderlo con
i denti, perché
essere un homo novus nel baronato universitario equivale ad essere ad
un passo
costante dal precariato. Tuttavia lo teneva al sicuro il ruolo extra
universitario di consulente per società sulla via
dell’affermazione nel mercato
economico, e le sue collaborazioni ormai più che occasionali
con riviste e
quotidiani economici nazionali. Tutto surplus che aveva il potere di
incidere
sul suo status di docente ordinario.
Amanda,
ad
esempio, con i suoi boccoli deliziosi e il sorriso simpatico sulle
labbra tinte
di rossetto, aveva avuto meno occasioni di lui alla sua età.
Non dubitava che
la vita di un assistente fosse dura e frustrante per molti aspetti, e
forse
solo per questo si tratteneva a volte dal parlare di quanto fosse
altrettanto
complicato e stancante – o forse a volte solo noioso
– fare i conti con la
propria cattedra universitaria, giorno dopo giorno, dopo giorno, dopo
giorno.
“Quanti
ne bocci
a questa sessione?” lo riscosse la sua voce.
“Il
dovuto”
replicò a colpo sicuro, con un sorriso ironico sulle labbra,
a lasciare
intendere di aver colto il rimprovero rivoltogli ma di non avere alcuna
intenzione di dichiararsi colpevole di alcunché, soprattutto
dell’intransigenza
con cui trattava le preparazioni dei suoi studenti.
“Sai,
tu sei un
ottimo insegnante, Andrea” rispose Amanda, battendogli un
colpo sulla spalla -
faceva fatica a raggiungerlo, nonostante camminasse su dieci centimetri
di
tacco d’abitudine – “sei solo un
po’ troppo stronzo”.
“E
tu stai bene
anche senza rossetto”. Il sorriso di prima era ancora al suo
posto sulle
labbra.
Amanda
lo
squadrò alcuni secondi, davanti all’Aula2.
“Non
fare il
ruffiano” gli intimò, giocando con la sua
femminilità nonostante si fosse
imposta anche quella mattina di non farlo, quando aveva visto la figura
di
Andrea andarle incontro lungo il viale.
“Sono
oggettivo.
Infatti hai anche delle scarpe orribili” soggiunse,
indicandole con un cenno
della testa. Amanda abbassò subito lo sguardo, non
comprendendo come qualcuno
potesse trovare orribile una scarpa Sergio Rossi. “E quella
non è natura, è una
tua responsabilità” le giunse la voce di Andrea,
piena di saccente simpatia.
“Io
sto dalla
parte di Chiara” comunicò infine, voltandogli le
spalle stizzita.
“Non
c’è nessuna
controversia in corso!” alzò la voce lui, per
farsi sentire in mezzo al tumulto
dell’università in pieno risveglio mattutino.
Lo
sguardo di accondiscendenza
di Amanda, intravisto tra la folla, gli fece temere di non aver capito
niente,
in fondo, del mondo femminile. O forse solo di Chiara.
*
Alberto
Scarpelli, barista ufficiale de L’ora
legale, di statistica non sapeva assolutamente niente, ma era
più che certo
che in proporzione a tutti i caffè in vetro ristretti che
buttava giù nell’arco
di una giornata, di cui la maggior parte a stomaco vuoto, il professor
Minati
avesse una gastrite.
“Un
caffè in
vetro, ristretto”. A proposito.
“Arriva
subito,
professore!” replicò prontamente, confermando la
diagnosi. Non ci voleva di
certo il Dottor House, checché ne dicesse sua moglie
lamentandosi del loro
medico della mutua.
Andrea
ignorò
l’aria critica con cui gli venne servito il suo
caffè, allungando una mano per
prendere la solita bustina di zucchero, rigorosamente di canna. Per
quanto
odiasse ammetterlo, Amanda in tutto il suo parlare a vanvera era
riuscita a
coinvolgerlo in quella moda alternativa. Adesso anche lui faceva parte
della
categoria di persone che sostiene di sentire nello zucchero di canna un
gusto
diverso dallo zucchero normale.
L’automatismo
della sua azione venne interrotto però da qualcosa, che poi
scoprì essere
qualcuno, scaraventatosi a rotta di collo sul bancone del bar,
nell’esatto
punto in cui fino ad allora sostava indisturbata la zuccheriera.
“Alberto,
scusa
hai – oh cazzo, scusa!” piovve dalla bocca di
quella che infine apparve essere
un essere umano di genere femminile. Alberto sia era tirato su,
smettendo di
litigare con la lavastoviglie solo per prendere atto che la zuccheriera
era
rovinosamente franata nel lavandino e il suo contenuto era sparso tra
il
lavandino e il bancone.
E
che qualcuno
lo stava guardando estremamente mortificata.
“Fa
niente, fa
niente” mormorò agitando una mano e passando sopra
l’accaduto nel passare lo
straccio sopra al bancone, invece. Con un’occhiata obliqua
captò l’espressione
del professor Minati appena in tempo per allungare verso di lui
l’altra
zuccheriera, alla sua sinistra.
“Dicevi?”
La
ragazza si
riprese dal mea culpa con uno
scatto,
sporgendosi per vedere l’entità dei danni.
“Non
è che hai
visto un codice di procedura civile?” domandò,
sbirciando verso i tavoli alle
sue spalle. Alberto aggrottò la fronte, riflettendoci.
Considerando
che
il suo locale assomigliava molto più ad un centro per il
recupero di oggetti
smarriti che ad un bar, gli parve plausibile pensare che oltre al
portafoglio
della giornalaia lì davanti, ai cinque ombrelli che aveva
trovato l’altra sera
chiudendo il bar, e i due cellulari della settimana scorsa, potesse
esserci
anche un codice di procedura civile, o quel che era.
“Anitaaaaaaaaaaa!”
urlò perforando il timpano dei presenti, incluso quello di
Andrea.
“Eeeeeeeeeh?”
gli fece eco quella della moglie, dall’altra parte,
perforandogli anche l’altro
timpano.
La
ragazza fonte
di tutto quell’inquinamento acustico se ne stava appoggiata
al bancone, con
l’unica preoccupazione di non recuperare il suo strumento di
studio, anziché
prendere atto di essere una disturbatrice della quiete pubblica.
“No
dolcezza,
non lo abbiamo visto” le comunicò dispiaciuto il
barista qualche secondo dopo.
La
ragazza lo
guardò come se gli fosse spuntato un pomodoro al posto della
testa
d’improvviso.
“Ma
non è
possibile, l’ho lasciato sul tavolo, quello
lì!” mormorò confusa, indicando un
tavolino traballante accanto alla vetrina. “Ho
l’esame tra due giorni…”
“Non
so dove
possa essersi ficcato” si scusò ancora Alberto,
pensando di offrirle la
colazione, sinceramente colpito dal puro panico che le aveva scolorito
la
faccia.
“Sarà
andato in
cerca della Sua testa” si intromise poi una voce,
rivolgendosi verso di lei,
con un tono troppo derisorio perché potesse fingere di non
averlo sentito.
“Mi
scusi, ci
conosciamo?” domandò alterata.
“Spero di non
avere mai l’onore, altrimenti
saprò che non ha studiato”.
A
quel punto
Valeria – quella che aveva perso testa e codice di procedura
civile – perse
anche ogni speranza di poter raddrizzare la giornata.
“Sono
due mesi
che preparo questo esame, la pregherei di non infierire
ulteriormente” replicò passandosi
una mano tra i capelli, del tutto dimentica di aver speso tre ore a
costruire
una coda che non le lasciasse sfuggire ciuffi da tutte le parti, quella
mattina. Ovviamente distrusse il risultato di quelle lunghe ore di
lavoro
architettonico.
“Lungi
da me.
Spero non fosse della biblioteca giuridica di facoltà,
almeno” si sentì in
dovere di chiederle, in quanto co-responsabile della struttura, a tempo
perso. In
aggiunta al fatto che qualsivoglia manifestazione di disorganizzazione,
sciatteria e fatalismo lo indisponevano da sempre. Da quando suo
fratello a
cinque anni aveva lasciato le castagne raccolte nello zaino che gli
aveva
prestato, dando adito ad un nuovo ecosistema di ricrearsi lì
dentro. Strani
vermi inclusi.
“No,
era di mio
padre. Questo immagino le dia ancora più
soddisfazione” borbottò Valeria, sotto
lo sguardo di viva partecipazione di Alberto.
“Mi
segua” le
ordinò più che dirle Andrea pagando il suo
caffè, dopo un lungo secondo
meditativo. Valeria sgranò gli occhi, cercando quelli di
Alberto vagamente
preoccupata.
“Che
fa? Mi
arresta per abbandono di buonsenso?”
Andrea
aprì la
porta del bar, lasciandola aperta in attesa che
l’indisponente studentessa si
decidesse a seguirlo sul serio. Sulle sue labbra sottili tuttavia si
era
disegnato un mezzo sorriso, che tutto sommato avrebbe anche potuto
definire rallegrato.
“Tutto
al più potrei
denunciarla. È sicura di voler dare questo esame,
signorina?” domandò
alternando ironia e abuso di potere alla cavalleria con cui le fece
cenno di
passare per prima.
“Le
procuro un
altro codice” chiarì, per fugare ogni resistenza
che ancora albergava negli
occhi scuri e piccoli di Valeria.
“Nel
caso in cui
il suo non torni al bar prima di due giorni” aggiunse,
costringendola a ricredersi
sulla sua inaspettata cortesia.
*
“Non
Le avevo
detto di seguirmi?” domandò Andrea quando
finalmente vide spuntare il profilo
di Valeria dietro l’angolo. Lei lo guardò
interdetta e con sempre meno
simpatia.
“Lei
sta
seguendo un percorso alternativo, perché la biblioteca
è—”
“Chiusa,
alle
due di pomeriggio” le fece notare, impeccabile come lo aveva
visto essere in
ogni altra cosa. Nel chiudere la macchina con il telecomando della
chiave, un
colpo sicuro e deciso, tic, chiusa. Nell’aprire il portone
d’ingresso della
facoltà, che cercava di trascinarsi dietro Valeria tutte le
volte che aveva
cercato di ricorrere alla sua sola forza. Niente, lui gli aveva imposto
di
rimanere aperto sorreggendone il peso con il palmo di una sola mano. E
dire che
poteva dirsi tonico ma di certo non un campione di pesi massimi. E
infine
l’aria con cui camminava per i corridoi della
facoltà, come se effettivamente
fosse sua, in senso giuridico di proprietà,
rifletté Valeria affiancandolo di
nuovo, per le scale.
E
poi, ovviamente,
sapeva a memoria gli orari della biblioteca.
“Quindi?”
“Mi
segua nel
mio studio, le do una copia di quelle che mi ha fornito la
biblioteca” spiegò
tirando fuori le chiavi – dalla tasca giusta, naturalmente,
mentre Valeria,
Amanda e gran parte del resto del mondo avrebbero come minimo cercato
nella
tasca sbagliata per due volte – del suo ufficio ed aprendo la
porta.
“Mi
piacerebbe
riaverlo indietro, questo” specificò aprendo la
teca e tirando fuori il
benedetto codice. Si voltò, porgendolo a Valeria con aria
solenne, ma la trovò
intenta a scrutare l’enorme scatola poggiata sul suo tavolo,
che lui non aveva
notato entrando. Abbandonata lì sopra aveva un aspetto
spettrale ed
escatologico tuttavia cercò di dissimulare il presagio in
presenza di una
studentessa.
“Mi
lasci le sue
generalità, per il codice” disse tenendo
d’occhio la scatola, come se dovesse
saltare in aria da un momento all’altro. “Sembrano
buone notizie” commentò
Valeria, frugando nella borsa in cerca della carta
d’identità. A dire dal
nastro annodato in un fiocco che chiudeva la composizione,
più che una bomba ad
orologeria sembrava una comunicazione straordinaria. Tuttavia
l’aria
preoccupata del professor simpatia le faceva pensare un possibile
contrario, il
che la divertiva abbastanza, proprio lei che il sadismo lo trovava
fuori luogo
e fuori moda.
“La
pregherei di
limitarsi a parlare con me di quanto concerne l’ambito
giuridico e didattico,
signorina” le intimò annotando da parte nome,
cognome e numero del documento.
“Mi
scusi”
mormorò lei, riprendendo il suo documento. “Era
per dialogare, un fatto
sociale”.
Andrea
le
rivolse uno sguardo molto chiaro in merito al suo concetto di fatto
sociale,
comportamento etico e tutela degli interessi personali.
“Lei
è un po’ un
cliché, sa?” aggiunse poi, prendendo il codice di
procedura civile e avviandosi
alla porta dello studio. La sfacciataggine di quella confidenza che si
era
concessa deliberatamente con lui lo distolse per un attimo
dall’agghiacciante
immagine del contenuto della scatola. Forse ci avrebbe trovato
l’orecchio del
rettore.
“Prego?”
le
chiese, volutamente minaccioso. Non sortì un effetto
particolare.
“Sì,
senza
offesa”.
“Sarebbe
il
minimo”.
A
quel punto
Valeria si sentì in dovere di difendere la propria posizione
e fornirgli una
spiegazione appropriata che confermasse le intenzioni dichiarate.
“Intendevo
dire… il giurista che subordina tutto alla legge. Il genere
di persona che dà
una gerarchia ai sentimenti come se fossero criteri di interpretazione
di un
contratto. Sempre senza offesa. È solo uno studio
antropologico, la prenda
così” concluse in fretta, rendendosi conto, per la
prima volta in una vita di
disattenzioni e sconsideratezze, di aver decisamente varcato il confine
della
decenza. Ad un passo dalla laurea, per giunta, che avrebbe
già ottenuto se non
fosse stato per quel maledetto esame che non voleva essere superato.
Andrea
rimase in
silenzio per lunghi secondi, fissandola torvo e attento come se fosse
uno
strano esemplare di uccello esotico; poi d’improvviso
infranse quello stato di
trance in cui sembrava essere caduto e con un buffo tono alla Perry
Mason,
disse: “Lei non studia in questa facoltà,
vero?”
Valeria
considerò l’idea che non volesse ucciderla, e
stabilì che al confronto essere
espulsa non era poi un male tanto grande. “No.
Sono… studio a Scienze
politiche” biascicò aprendo la porta.
Andrea
prese un
respiro profondo, chiuse gli occhi, incrociò le braccia, poi
tese un solo
braccio verso di lei e le fece cenno di restituirle il codice. O almeno
così lo
interpretò Valeria.
“Allora
non le
serve questo. Le serve un codice civile
per dare l’esame di Diritto Privato”.
Valeria
lo
guardò allibita. “E io cosa ho detto?”.
Di
nuovo, Andrea
prese un profondo respiro. “Fino ad ora Lei ha parlato a
sproposito di un codice di procedura civile”.
Un
lampo
illuminò lo sguardo annebbiato di Valeria.
“Mi
sbaglio
sempre. Intendevo davvero dire un codice civile”. Si
giustificò nel tempo in
cui Andrea sbatté il codice di procedura civile nella teca,
estraendo il codice
civile e porgendoglielo di nuovo, in un gesto secco.
“Se
ne vada,
adesso” proclamò stancamente, in modo decisamente
teatrale pensò Valeria,
piuttosto umiliata dalla faccenda, ma accolse il gentile invito e si
ritirò in
retromarcia, con un “Mi scusi per la confusione, grazie, mi
scusi anche ancora
per il cliché, grazie, arrivederci!”.
*
Una
volta solo
nel suo studio, Andrea fumò le restanti due sigarette del
pacchetto.
Poi
si decise ad
aprire la scatola.
Tagliò
il fiocco
con le forbici, e sollevò il coperchio scaraventandolo
lontano, neanche fosse
fatto di acciaio bollente. Poi con molto poco coraggio e una non troppa
cautela, diede un’occhiata dentro.
Con
sommo orrore
ne estrasse quello che sembrava a tutti gli effetti e fino a prova
contraria un
ciuccio. Seguito da un altro qualcosa che aveva l’aspetto di
un biberon, e che
finì con il fare compagnia al coperchio. Sotto al biberon
era adagiato un
coupon di un Villaggio Vacanze, con cerchiato in rosso
un’offerta per tre, in
alta stagione. Infine, sotto al coupon troneggiava quello che senza
ombra di
dubbio era il preliminare di un contratto definitivo. E altrettanto
indubbiamente, Andrea scoprì che si trattava del preventivo
d’acquisto di una
macchina a cinque porte familiare.
Sul
fondo della
scatola, con lo stesso inchiostro rosso del Villaggio Vacanze (lo
stesso che si
usa nei film splatter, pensò Andrea con una trista
analogia), troneggiavano le
parole: Spero che ti sia venuto un
infarto. Stronzo.
A
quel punto,
Andrea cercò una terza sigaretta, senza trovarla.
Poi
riprendendo
lucidità dopo lo sgomento e il sollievo degli ultimi due
minuti, ne trascorse
altri cinque, seduto alla sua scrivania, con gli occhi sul soffitto e
le
braccia dietro la testa, a domandarsi se per caso Chiara in quel
momento non
stesse dando fuoco alla sua macchina, lì fuori.
Infine
chiamò la
sua banca per scoprire ciò che già sapeva: la
vacanza era stata pagata con la
sua carta di credito. Chiamò anche il concessionario di
automobili per scoprire
anche in quel caso cosa già sospettava: che le trattative
Chiara le aveva
iniziate spacciandosi per sua moglie, e lasciando come numero di
referenza
quello di Andrea.
Mettendo
giù la
cornetta, e lasciando il suo studio per andare a comprare un nuovo
pacchetto di
sigarette, Andrea non poté fare a meno di pensare che tutto
sommato a lungo
termine sarebbe stato meglio dare a Chiara una copia delle sue chiavi
di casa,
piuttosto che lasciarle scritto il codice della sua carta di credito
per pagare
quello stupido smoking per il matrimonio di sua sorella.
*
“C’era
scritto proprio
così? Spero che ti sia venuto un
infarto,
stronzo?” domandò di nuovo, per
sicurezza, Amanda, con aria gioviale.
Andrea
la guardò
dall’alto della sua tazzina di caffè, con odio
sincero.
“La
cosa ti
soddisfa enormemente, non è vero?”
domandò risentito, mandando giù il
caffè in
un sorso. Amanda inzuppò con tutta calma il suo cornetto nel
cappuccino. Andrea
la guardò nascondere un sorriso dietro lo zucchero in
polvere e la crema, con
il divertimento di una bambina, e poi portare alle labbra la tazza
bollente.
“Non
hai trovato
il rossetto neanche oggi” osservò, notando che il
bordo della tazza non era
macchiato. Amanda cancellò le tracce delle briciole dal suo
golf nero, con una
alzata di spalle.
“Qualcuno
mi ha
detto che sto bene anche senza” rispose a bassa voce, con il
tono che si addice
ad un segreto, per quanto avrebbe preferito che il segreto
più grande – che un
commento del professor Minati la compiacesse e determinasse il suo look
della
giornata – rimanesse tale.
Andrea
sorrise,
recuperando la sua borsa da lavoro dal bancone, abbassando lo sguardo.
“Ma hai
sempre quelle scarpe orribili” constatò
scherzando.
Amanda
lasciò
che pagasse anche il suo cappuccino, obbligandosi ad un po’
di decoro, almeno
professionale, se non emotivo. “Non sono affatto orribili.
Ogni tanto dovresti
mettere in discussione le tue certezze” commentò
anticipandolo fuori dal bar.
Alberto
raccolse
soldi e mancia, mentre sua moglie Anita accanto a lui scuoteva la
testa,
fissando torva professore ed assistente uscire dal bar.
“Tutti uguali, sono”
borbottava cambiando il filtro del caffè. Suo marito come
sempre non ascoltava
i suoni confusi dei suoi rimbrotti. “Che ci ho guadagnato io
a sposare te? Un
bar. Vedi, se mi sposavo un bel professore, diventavo
l’assistente! Sai che… Alberto?
Eh, figurati se mi ascolti. Manco per sbaglio. La volta che dico
qualcosa di
interessante, poi vedi.”
Suo
marito alzò
la testa dalla lavastoviglie, che neanche quel giorno gli rendeva
facile il
lavoro. “Ad esempio?” domandò troppo
occupato per seguire il filo logico della
questione.
“Ho
deciso cosa
lasciarti in eredità” sancì sua moglie,
porgendo il caffè macchiato alla
giornalaia lì di fronte, che anche quel giorno avrebbe
dimenticato sul bancone
il suo portafoglio.
“Ti
ascolto”
rispose suo marito, perplesso.
Anita
provò il
forte desiderio di chiuderlo nella lavastoviglie, anche quella mattina.
*
Dopo
aver
siglato l’ennesimo misero e scialbo 22 sul libretto di uno
studente medio,
Andrea decise di averne momentaneamente abbastanza. Batté
con le dita sul
microfono della sua cattedra, avvisando tutti che avrebbero fatto una
pausa e
gli esami sarebbero ripresi alle due e mezza.
“Che
ne hai
fatto del mio 28?” gli domandò Amanda, nel cortile
della facoltà.
Andrea
ci pensò
su, distratto.
“Mi
hai mandato
un 28?”
“Sì,
perché tu
confermassi il voto. Ma quando l’ho visto andare via non
aveva più la faccia di
un 28” spiegò Amanda.
“Ah
sì. Avrà
avuto la faccia di un 25” rispose Andrea, cercando di evitare
il suo sguardo.
Amanda
scosse la
testa, sinceramente risentita a nome del povero studente.
“Era
molto
preparato” insistette, andando a sedersi su una panchina poco
più in là. Andrea
la seguì, reticente, consapevole di sé.
“Ma tu inibisci gli studenti. Gli avevo
dato 28! Come hai fatto a…” Andrea le rivolse uno
sguardo di finta attesa per
la conclusione della domanda. Soddisfazione che Amanda, con il
più delizioso
dei sospiri, gli tolse. “Lascia stare. Il professore sei tu.
Io non dovrei
neanche darti del tu” proclamò parlando
più a se stessa che all’altro.
Era
difficile
lavorare con uno come lui, che del dialogo non sapeva che farsene e
interpellava l’altro solo su raccomandazione minacciosa del
rettore o se il
caso proprio lo richiedeva come necessità. E probabilmente
lei aveva iniziato a
vederlo con occhi diversi dal giorno in cui aveva preso
l’abitudine di
chiederle pareri, su questo e su quello, niente che avesse a che fare
con il
loro lavoro, certo, per carità, sia mai che
l’illustre professor Minati avesse
dei dubbi in merito all’interpretazione di un contratto. Un
giorno poi aveva
nominato Chiara, un altro ancora il suo migliore amico, che era
avvocato
associato a New York e con cui aveva perso quasi ogni contatto che non
fosse il
ricordo della vita da studenti che avevano diviso.
Aveva
compreso
che Andrea fosse una persona da scoprire e ricomporre, da prendere come
esempio
da seguire e come modello di cose da non fare – dire
– pensare. A fatica, tra
mille incertezze, qualche porta in faccia, le solite discussioni, era
riuscita
ad ottenere una vittoria, ad imporgli la complicata arte della
dialettica, a
parlare con lui senza stare solo ad ascoltare, ma facendosi anche
sentire.
Durante
tutto
questo processo, che Amanda aveva messo in atto in un primo momento per
una
questione di principio, di rivalsa professionale, era anche riuscita a
captare
degli aspetti di Andrea che aveva solo potuto sospettare o sperare
fossero
parte di lui.
Le
gentilezze
nascoste dietro un commento critico, ad esempio. Quella sua abitudine
gentile
di pagarle la colazione, con quel modo di fare naturale e per niente
formale
che si usa con una persona vicina e considerata, e non con un collega
subordinato.
Si
era sforzata
di non cedere mai alle proprie debolezze, di restare sempre sul suo
stesso
piano, di non andare oltre, di conservare il sarcasmo e
l’ironia e lasciar
perdere la delicatezza con cui avrebbe voluto parlargli quando si
accorgeva di
quanto fosse stanco alla fine di una giornata con cento studenti
esaminati.
“Amanda,
ti
sembra che io sia un cliché?” disse
d’improvviso Andrea, e lei quasi sussultò,
colta in flagrante in quei pensieri. Lo guardò senza capire.
“L’avvocato
concentrato sul lavoro che—”
“Intendi
dire se
sembri il tipo che troverebbe più attraente la Boccassini
piuttosto che la sua
assistente?” domandò ironica, fino al secondo in
cui comprese di averlo detto
sul serio. Di aver davvero scelto quel
termine di paragone, di aver ceduto alla più banale delle
lezioni freudiane.
Andrea
rise per
quella battuta. Il che peggiorò notevolmente la giornata di
Amanda.
“Sì,
una cosa del
genere. Sono quel tipo, secondo te?”
Amanda
comprese in
quel momento cosa significasse arrampicarsi sugli specchi e cercare
disperatamente di non scivolare, servendo sul piatto ad Andrea la
possibilità
di licenziarla, subito, in tronco, per violazione dell’etica
professionale.
“Immagino
che
questo dovresti dirmelo tu” sussurrò infine,
flebilmente, troppo perché potesse
sembrare l’Amanda spigliata e disincantata di sempre. Sebbene
quella fu forse
la prima volta che le capitò di vedere Andrea Minati
imbarazzato. Per di più
per qualcosa che lei aveva detto.
“Beh,
credo che
Vittorio voglia ricominciare gli esami” aggiunse poco dopo,
pur di evitare di
stare seduta su una panchina con Andrea, nel cortile
dell’università, a
sentirsi come la studentessa che era stata una volta, che affogava nei
principi
codicistici il pensiero del primo uomo che l’aveva fatta
sentire… come si
sentiva ora. “Stasera ha a cena i suoi genitori, dice che
deve prepararsi
psicologicamente almeno tre ore prima” continuò,
alzandosi e recuperando i
fogli che aveva lasciato sulla panchina.
“Voi
assistenti
state preparando un colpo di mano?” domandò
Andrea, assecondando la sua
proposta tuttavia. “Quello è da 28, gli esami
riprendono adesso, la lezione la
spostiamo di pomeriggio…” le fece il verso,
raggiungendo l’ingresso principale.
Di nuovo, come sempre, tenne aperto il portone per Amanda.
“Non
so se sei
un cliché, ma di sicuro sei suscettibile” gli fece
notare, entrando.
In
lontananza
scorse Vittorio rientrare in aula, con una certa fretta.
“Consapevole
delle mie qualità”.
“E
autoreferenziale”.
“C’è
dell’altro?”
“No,
Chiara mi
ha rubato le parole”.
Andrea
la guardò
oltraggiato.
“Potrei
licenziarti” le fece notare, con quel solito vizio di abusare
del proprio
potere. Amanda gli sorrise.
“Sì,
ma dubito
che la Boccassini accetterebbe di farti da assistente”.
*
“Mi
stavo
chiedendo come ha fatto Chiara ad entrare nel mio ufficio”.
Amanda
recuperò
le chiavi della macchina nella tasca del cappotto, dopo aver frugato in
tutte
le tasche della sua borsa. “Non sapeva neanche
dov’era”.
Poi
si impegnò
accuratamente perché i verbali di esame entrassero
simmetricamente all’interno
della sua cartellina. Andrea la guardò, non visto, non
aspettandosi un suo
silenzio. Lei che in genere aveva idee fantasiose, e soprattutto che
guardava
troppi telefilm polizieschi in televisione.
“Avrà
corrotto
gli inservienti della pulizia” rispose, agitando la mano con
fare vago. Lei
così precisa nelle sue analisi sui profili psicologici delle
persone, era un
aspetto divertente per lui, che invece osservava da lontano, spaventato
dai
profondi abissi della psiche umana.
“Amanda”
la
chiamò infine, vedendola di nuovo distratta da qualcosa di
totalmente
ininfluente. Aspettò allibito che la smettesse di
affaccendarsi in altre faccende.
Poi, le rivelò l’intuizione.
“Sei
stata tu”.
“Ho
la macchina
qui”.
Andrea
aggrottò
la fronte.
“La
tua macchina
è rossa”.
“Nuova”.
“La
vecchia?”
“Rotta,
incidente, mercoledì sera”.
“Eravamo
ad un
seminario, mercoledì sera. È finito alle nove,
eri in macchina con Vittorio”.
“Sì,
già, poi
sono uscita—”
“Ma
se eri
distrutta”.
Amanda
frenò la
sequela di patetiche giustificazioni per commuoversi all’idea
che Andrea avesse
notato la sua stanchezza. Un attimo dopo si preoccupò di
cosa lo avesse reso
palese, ossia dello stato dei suoi capelli, o delle occhiaie che magari
aveva
coperto male con il fondotinta, o…
“Amanda”
la
chiamò di nuovo Andrea, con un sorriso di sorpresa sulle
labbra. “Sei stata tu”
proclamò trionfante sul caso misterioso.
Amanda
gliela
diede vinta.
*
Vittorio
era a
stento sopravvissuto alla cena di famiglia, quasi avvelenato dai
commenti di
sua madre riguardo la piattezza preoccupante della sua vita
sentimentale, quasi
stroncato dallo sguardo giudice di suo padre rispetto al professore
ordinario
che non sarebbe mai diventato per sue incapacità nel
settore, del tutto ucciso
dalla gloriosa persona di suo fratello e di sua moglie, che avevano
annunciato
di aspettare un secondo figlio.
Nessuno
dei suoi
genitori aveva pensato al mutuo ancora acceso e tutt’altro
che spento che
pendeva sulla famiglia del valente Edoardo, o al lavoro da casalinga di
sua
moglie, che avrebbe dovuto essere provvisorio e invece sarebbe durato
per
sempre, valutava Vittorio, se nei periodi di noia sceglievano di
mettere al mondo
un figlio per ravvivare il rapporto.
Ma
nessuno aveva
chiesto il suo parere, e suo padre non aveva mancato di far notare
subdolamente
quanto sarebbe stato più appropriato chiamare Edoardo con il nome Vittorio.
Quella
mattina i
tacchetti di Amanda gli erano entrati nel cervello, risuonando nella
desolazione dei suoi pensieri e tutto aveva voglia di ascoltare tranne
le trame
complicate della vita sentimentale del professore di cui era assistente.
Soprattutto
considerato il suo curriculum ed il proprio, che dava dolorosamente
ragione a
suo padre.
“Amanda,
avrebbe
potuto licenziarti per una cosa del genere!”
l’aveva rimproverata, sentendosi
miracolato all’idea di poter fare una lezione a qualcuno, una
volta tanto.
Lei
lo aveva
guardato con tre chilogrammi di rimmel sulle ciglia, con il solito
sorriso alla
Amanda e con l’aria affranta di chi comunque è ben
lontana dall’ottenere quello
che spera.
Perché,
sebbene
lei come tutti lo ritenesse un semplice uomo laureato, con la passione
per il
basket e una moto vendutagli dal fratello (“Non
per niente, Vittorio, ma così almeno ci paghiamo
tranquillamente l’asilo di
Alessia”), Vittorio sapeva di essere molto altro.
Incluso un fine
osservatore. E che Amanda da un giorno all’altro avesse
iniziato a vedere
Andrea Minati con occhi decisamente diversi, era più che
palese.
“Hai
fatto
entrare qualcuno nel suo studio! È violazione della privacy!
Tu non dovresti
neanche avere le chiavi del suo studio— aspetta,
perché ce l’hai?” esclamò di
colpo, fissandola stralunato. Amanda temette per un momento di vederlo
tingersi
di verde sul serio, come nelle favole di Fedro.
“Cosa
fate nel
suo studio?” azzardò, non volendo in
realtà conoscere la risposta.
Amanda
lo guardò
più che offesa. “Nien— cosa? Io e
Minati? Nel suo studio? Io e Minati nel suo
studio! Ma come ti permetti!” replicò, sbattendo
la tazzina di caffè nel
piattino.
Anita,
la
barista, le lanciò uno sguardo fulminante.
“No,
niente.
Certo che non fate niente. Scusa, ho esagerato con la
fantasia” rientrò nei
ranghi Vittorio, sentendosi pericolosamente vicino ad un collasso
nervoso.
Amanda pensò che non fosse il caso di piantargli il tacco
delle sue Sergio
Rossi dove aveva pensato di piantarglielo. Non le parve carino,
infierire
ulteriormente su di lui.
“Comunque,
questi sono i programmi per le lezioni del prossimo semestre”
annunciò,
porgendole il plico di fogli. “Li ho dovuti stampare, mettere
in ordine,
numerare e fotocopiare” illustrò con intenti di
colpevolizzazione. “Perché non
so cosa tu stessi facendo, ma Minati quella mattina ha incontrato solo
me”.
Amanda sfogliò il programma, mordendosi un labbro per non
rispondere
sgarbatamente come la sua coda di paglia le suggeriva di fare.
“Ah
ma certo.
Non ti ha trovata perché eri nel suo studio con la sua ex
moglie” constatò Vittorio
un attimo dopo, scoprendo come manovrare quello strano e tagliente
strumento
che era il sarcasmo.
“Non
è la sua ex
moglie, è la sua ex e basta”
puntualizzò Amanda, pagando il proprio caffè.
“Non
c’è gusto a fare colazione con te. Non mi hai
neanche fatto prendere il
cornetto”.
Anita
incrociando lo sguardo di Vittorio scoprì in quella
circostanza che qualcuno
oltre lei provava istinti omicidi nei confronti di Amanda.
“Senti,
Amanda”
la fermò lui appena fuori dal bar, afferrandola per un
gomito. “Da assistente
ad assistente, te lo devo dire” proseguì in tono
grave. Amanda si sentì
leggermente in soggezione.
“Se
pensi di
farti trovare nuda nel suo studio e convincerlo a sposarti, devi
dirmelo con un
certo anticipo. Ho diritto a cercarmi un altro professore che voglia un
assistente serio e capace”.
Amanda
resistette
all’impulso di fargli notare di avere una laurea cum laude,
diversi attestati,
il tirocinio presso un notevole studio legale e un anno passato in
Inghilterra
ad approfondire i suoi studi di diritto comparato, e che a tutto quello
aveva solo
l’immane sfortuna di dover aggiungere una inclinazione
sentimentale verso il professore di cui era assistente, che
di certo non
avrebbe incluso nel suo curriculum.
E
resistette
anche all’ancora più forte impulso di fargli un
discorsetto sui luoghi comuni
che la gente gretta, insensibile, storicamente ignorante e mentalmente
chiusa
ha normalmente verso le donne, e verso le donne assistenti di
professori
universitari.
“…
e in ogni
caso” proseguiva Vittorio “fino a quel momento, non
farmi mai più alcuna
confidenza. Io e te non siamo amici, chiaro? Siamo colleghi. E in
quanto tali,
possiamo anche competere. E infatti, sinceramente, io ti detesto. Non
ti
sopporto”. Amanda fece per rispondere, ma non c’era
verso di fermare il delirio
logorroico del suo collega. “Perché mi ricordi mia
cugina, che a tredici anni
non ha voluto ballare con me alla mia festa, e perché Minati
ti preferisce a
me”.
“Tu
sei matto”
statuì Amanda in conclusione. Vittorio la guardò
rassegnato.
“No
no, io sono
frustrato, è diverso. Io sono frustrato” rispose,
incamminandosi sconsolato
verso il rettorato.
*
Dal
giorno del
pacco-regalo Andrea non aveva più avuto notizie di Chiara.
Accettò
quella
scomparsa dalla sua vita con la serenità
dell’indifferenza.
Una
sera, mentre
si versava un po’ di vino bianco nel bicchiere, gli
tornò alla mente la cena in
cui Chiara lo aveva lasciato, tirandogli dietro il codice civile (che a
proposito, Valeria era passata a restituire, scusandosi ancora per la
storia del
cliché) e a quello che aveva detto Amanda, il giorno dopo.
“Come fai a passare un anno insieme ad
una
persona, e a non affezionarti neanche un po’?”
A
quella domanda
non aveva risposto, perché era più semplice
parlare della borsa di Mary Poppins
in cui Amanda portava in giro – e perdeva – gli accessori della sua
femminilità.
In
verità non si
era neanche accorto che fosse passato un anno. Il tempo era trascorso
indolente, in una pigra quotidianità, dove Chiara appariva
sullo sfondo ma mai
al suo fianco. Non lo aveva fatto con intenzione, forse questo era
sfuggito a
Chiara, forse questo non era stato in grado di spiegarle. Faceva parte
della
persona che era, questo andare avanti senza fare mai troppo caso a chi
lo
seguisse o meno, chi restasse indietro, chi si adagiasse in silenzio al
suo
fianco.
Notava
solo le
persone che avessero l’ardire – o la
capacità – di superarlo, che lo sfidassero
in qualcosa; e le persone e le cose colorate,
che bucassero il grigiore della monotonia senza eccedere, senza uscire
dagli
schemi, perché fare rivoluzioni era un metodo risolutivo
troppo semplicistico,
secondo lui, e un’opera destinata a rimanere sempre
incompiuta, perché tipico
dell’uomo è mettere mano a qualcosa che ha
rovinato e distruggerla, piuttosto
che perdere tempo a cercare il fallo e minuziosamente ricoprire
l’errore con
correzioni.
Di
queste
persone, così colorate, nella vita non ne aveva incontrate
che due.
Una
era la Giurisprudenza,
così dinamica a dispetto della fissità con cui
era percepita da chi non metteva
il naso tra le sue mille facce; a dispetto di chi la trovasse chiusa
senza
conoscere il gioco di interpretazioni che metteva a disposizione, gli
infiniti
modi di giungere alla stessa conclusione, la singola frase con cui
demolire una
certezza processuale.
L’altra
era
Amanda, probabilmente, con quel rossetto sulle labbra, o con quel
biondo dei
suoi capelli, e le scarpe Sergio Rossi che lui trovava orribili e lei
adorabili, e l’entusiasmo con cui affrontava ancora ogni
dinamica del mondo
universitario, ancora convinta che da qualche parte fosse annidato un
punto di
svolta, e che bisognasse continuare a girare angoli prima di svoltare
in quello
giusto.
Con
il suo
interesse per l’internazionale, la curiosità con
cui guardava fuori
dall’Italia. L’ironia con cui fronteggiava ed
addolciva il suo sarcasmo, la
sfrontatezza con cui si prendeva confidenze di troppo e
l’imbarazzo con cui
troppo tardi cercava di chiedere scusa.
Si
rese conto,
quella sera, che la sua quotidianità non era fatta da altro
che da quello, nel
suo punto più vivo: dalla legge e il dinamismo dei suoi
giochi, e da Amanda e i
suoi colori.
Tutto
il resto
rimaneva sullo sfondo, una presenza rassicurante alcune volte, oppure
soffocante.
Quindi,
non lo
sapeva come fosse possibile passare un anno insieme ad una persona e
non
affezionarsi neanche un po’.
Conoscendo
Amanda, la domanda che in quel momento gli veniva spontaneo porsi, era
come
fosse possibile non vivere la vita in tutto il suo cromatismo.
Come
fosse
possibile non essere come Amanda.
Si
chiese anche
cosa pensare di sé. A quanto si sentisse ombroso, in
realtà, a dispetto dei
mille colori di sgargiante presenza di sé che mostrava in
aula ai suoi
studenti.
Si
domandò se
per caso quei colori non fossero altro che il riflesso abbagliante di
quelli di
Amanda, poco lontano da lui.
*
“Io
mi licenzio”
gli comunicò Amanda una settimana dopo, bussando alla sua
porta alla fine
dell’orario di ricevimento per gli studenti.
“Vai
a lavorare
per la Boccassini?” la prese in giro, aprendo la finestra per
accendersi una
sigaretta.
Amanda
entrò
nella stanza, chiudendo la porta, e si sedette di fronte a lui,
all’altro capo
della scrivania, dove abitualmente siedono gli studenti perplessi e
sgomenti
riguardo le mille incongruenze dello studio del diritto privato.
“Vittorio
è
folle. E considerato il suo curriculum ed il mio, penso di avere
più facilità a
trovare un altro posto” spiegò con voce ferma, per
quanto l’altra voce le
urlasse nella testa quanto sconsiderata fosse a formulare certi
pensieri e
dargli anche voce.
Prendendo
atto
della serietà delle sue intenzioni, Andrea spense la
sigaretta.
“Mi
sembri più
folle tu, a fare certi discorsi”.
Amanda
ammorbidì
la durezza del suo sguardo.
“Non
ho studiato
giurisprudenza per essere assistente” gli fece notare, con la
tenerezza che si
riserva all’ingenuità dei bambini.
“E
quando te ne
andresti?” domandò lui, recuperando dal cassetto
un’altra sigaretta.
“Beh
pensavo
comunque a scadenza—”
“Non
sono
d’accordo” la interruppe, a priori, come sempre.
Andrea Minati viveva una vita
a priori, pensò Amanda, spazientendosi.
“Che
strano”
commentò lei, iniziando a sentirsi un po’ a
disagio. “I termini del contratto
stabiliti—” si interruppe, allo sguardo di Andrea.
“Pensaci”
le
disse, con una gravità nello sguardo e nella voce, che
cancellò tutti i mesi di
ironia, sarcasmo e serietà professionale intercorsi tra
loro, in un colpo solo.
“Mi sembra giusto cercare altro, aspirare— ma
pensaci” ripeté di nuovo, con un
sorriso. Sorridendo a lei, ridendo un po’ di sé.
“Ci
penserò,
Andrea, ma…”
Ma
non se la
sentiva di portare avanti quella commedia dell’assurdo, di
fingere che non
fosse strano chiamarlo per nome anziché professore,
e fare colazione con lui come due colleghi di uguale rango, o parlarsi
per
frasi brevi ed accennate delle proprie vite come fossero due
sconosciuti che
hanno appena fatto amicizia. Non se la sentiva di lavorare accanto
all’invidia
di Vittorio e al suo legittimo non comprendere perché la
situazione avesse
preso quella piega; non se la sentiva di nascondere
l’affinità che percepiva
avere con lui, di soffocare ogni tenerezza che istintiva le saliva alle
labbra
o le attraversava il corpo in una tensione verso di lui.
Non
se la
sentiva di ignorare la gelosia che aveva provato a volte, nel sentir
nominare
Chiara, e non poteva neanche pensare quanto poco professionale fosse
quello che
aveva fatto con quella scatola; o quanto improbabile fosse avere le
chiavi
della sua stanza.
Lei
era solo
un’assistente, con un contratto a progetto che entro sei mesi
sarebbe scaduto.
Non
voleva fare
l’assistente per tutta la vita, per quanto essere scelta da
Andrea tra diversi
neo laureati del suo corso era stata una enorme soddisfazione. Eppure
quello
non era un onesto rapporto lavorativo, non aveva mai avuto un rapporto
meno
onesto di quello con qualcuno, neanche con Daniele, che aveva tradito
addirittura due volte. Persino in quel caso il tradimento era stato
plateale e
sfacciato e molto più sincero di quel girotondo di
intenzioni che invece aveva
con Andrea.
Avrebbe
voluto
spiegargli come tutto quello la facesse sentire.
Conoscere
le sue
abitudini, fare colazione con lui, uscire
dall’università con lui e
chiacchierare fino alla macchina le sembravano prolungamenti di una
relazione
che avrebbe dovuto mantenersi su tutt’altro piano, e che lei
aveva avuto la
possibilità di confinare in termini più decisi e
meno ambigui, scegliendo di
non farlo, alla fine.
Vinta
dal
fascino di Andrea, dal suo modo di sorridere, dal suo sarcasmo che
lentamente
aveva smesso di farla sentire con le spalle al muro, e aveva invece
iniziato a
divertirla.
E
cos’era quella
storia del rossetto?, avrebbe voluto chiedergli.
Lui
così
intransigente e ligio al suo dovere; lui che temeva di cadere in un
cliché, che
non tollerava indefinitezze e abbandoni di alcun tipo, come si
permetteva di
lasciarsi andare invece a commenti tanto maschili e tanto…
Era un docente
ordinario, per la miseria, e lei la sua assistente, e avrebbero potuto
parlare
di tutto, di bioetica, della prossima sessione di esami, della riforma
del
sistema di giustizia, oppure del tempo, delle rondini che non volano
più e
della calotta artica che si sta sciogliendo per colpa del buco
nell’ozono, ma
non, NON, del suo rossetto e di come fosse carina anche senza metterlo.
Non era
ammissibile.
E
Andrea faceva
tutto quello con grande naturalezza, senza pretese né
pianificazioni.
Dolorosamente senza intenzioni. A questo doveva credere?
E
poi, quella
sceneggiata nel suo studio, per una semplice e prevedibile
dichiarazione.
Certo
lui
l’assistente non lo aveva mai fatto, ma proprio per questo
davvero non aveva
mai considerato l’idea che l’aspirazione di un
laureato non fosse quella di
passare una vita a fare l’assistente?
Non
l’aveva
forse scelta perché era dedita allo studio, meticolosa,
puntuale e precisa, e
soprattutto ambiziosa e determinata?
A
cosa avrebbe
mai dovuto pensare, quindi? Su cosa mai non sarebbe potuto essere
d’accordo con
la sua scelta, uno come lui?
Avrebbe
voluto
dirgli che sì, ci avrebbe pensato ma… tra
rimanere sua assistente e vivere in
quella ambiguità, e lasciare il proprio posto a qualcun
altro, realizzarsi,
pubblicare saggi e vivere al suo fianco come sua compagna e non come
sua
assistente; camminargli vicino e poterlo toccare; arrivare alla
macchina ed
entrare nella sua; fare colazione e pagare per lui, o bere un sorso del
suo
caffè; dividere un pomeriggio al cinema, discutere di
politica camminando nel
parco la domenica, chiedergli pareri professionali e non delibere ad
agire…
avrebbe scelto la seconda opzione.
Avrebbe
scelto
di stare con lui cominciando da capo, come donna, e non di rimanere con
lui
come assistente.
“…
ma credo di
aver già preso una decisione”.
Andrea
annuì,
come se non avesse avuto dubbi, e fosse stato consapevole da sempre
della determinatezza
della sua scelta. E di rispettarla, profondamente. Al di là
dei suoi capricci
di uomo e delle sue compiacenze vanesie.
“Ci
vediamo
domani, a lezione” aggiunse, raccogliendo la borsa da terra.
“Amanda”
la
chiamò Andrea, fermandola. Nel voltarsi, Amanda
pensò che in qualunque modo si
fossero messe le cose, quell’immagine di lui
l’avrebbe conservata per sempre, e
nella sua memoria avrebbe sempre occupato il posto di Andrea nel modo
in cui le
era piaciuto la prima volta. In mezzo ai suoi libri, in una stanza
ordinata e
controllata, con gli occhi imperscrutabili e il sorriso rivelatore.
“Ci
ho pensato,
in questi giorni, e non credo di essere un cliché”.
Probabilmente
si
stava chiedendo quanto avesse sbagliato nel dirle una cosa simile.
“Mi
dispiace per
la Boccassini” commentò lei, pensando che in
realtà, aveva solo una gran voglia
di fare l’amore con lui, con delicatezza e desiderio, fino a
stancarsene.
“Saprà
consolarsi. A domani, Amanda”.
“A
domani” rispose
lei, con la netta sensazione che il proprio nome sulle sue labbra lo
avrebbe avuto
tutto il tempo nella testa, fino alla mattina dopo. Quando lo avrebbe
sentito
di nuovo.
*
“Amanda, ti sembra che io sia un
cliché?”
“Intendi dire se sembri il tipo che
troverebbe più attraente la Boccassini
piuttosto che la sua assistente?”
“Sì, una cosa del genere. Sono
quel tipo, secondo te?”
“Immagino che questo dovresti dirmelo
tu”.
“Ci ho pensato, in questi giorni, e non
credo di essere un cliché”.
*
Fine.
Qualche nota di spiegazione, mani alzate,
giustificazioni.
1)
Sì lo
so, che le assistenti non danno del tu ai
professori.
2)
Sì lo
so, che i professori di solito non sono così
amichevoli con le assistenti.
3)
Sì lo
so, che a nessuna studentessa verrebbe in mente
di rivolgersi in quei toni ad un professore, l’ho pensato
anche io fino a
quando non ho incontrato una Valeria (che non si chiama Valeria) nella
mia
vita. Il personaggio è liberamente ispirato a lei, che
è meglio non lo sappia o
il suo narcisismo salirà alle stelle.
4)
Amanda deriva dal
gerundio latino del verbo “amo”, vuol
dire “colei che deve essere amata” e mi
è sempre piaciuto come nome, mi fa tenerezza
^^
5)
La
Boccassini ha tutta la mia stima. Non la
offenderei neanche sotto pagamento o sotto corte marziale o in pubblica
piazza
attaccata a una pira come Giordano Bruno. Dico, scrivo e sottoscrivo.
Nota aggiuntiva (marzo 2011)
Ho corretto alcune sviste, aggiustato fraseggi poco convincenti,
modificato qualche dialogo, perchè ce n'era decisamente
bisogno XD E lo scrivo, giusto per la cronaca.
Colgo anche l'occasione per ringraziare tutti: chi ha letto e
recensito, chi ha letto e preferito, chi ha letto e ricordato e via di
seguito ^^ Grazie davvero!
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