June adorava il proprio lavoro. Amava
l’atmosfera calda e
rilassante che si risvegliava ogni giorno all’apertura della
caffetteria, con
l’entrata del primo cliente. Alle sette in punto lei e
Morena, la padrona del
Ye Olde Paddy’s Inn, prendevano il primo caffè
della giornata e dedicavano
quella mezzora che precedeva l’inizio ufficiale della
giornata a una sana
chiacchierata tra donne, immerse nel silenzio di una Dublino ancora
sonnacchiosa.
Il Paddy’s, come lo
chiamavano gli affezionati, era un
piccolo caffè allocato nella fortunata posizione
d’incrocio tra Grafton Street,
principale via commerciale del centro, e Wicklow Street, in fondo alla
quale si
trovava la sede primaria dell’ufficio turistico cittadino, ed
era molto
popolare sia fra i dublinesi che fra i turisti, che andavano e venivano
a ogni
ora del giorno, attirati dalle segnalazioni sulle guide, dai consigli
dei
passanti, o semplicemente dall’aspetto invitante del posto,
un pub vecchio
stile restaurato e riportato allo splendore con tanta fatica e tanto
impegno.
June andava fiera di quel caffè come se fosse stato una sua
creatura. Per lei
niente sapeva di casa come quel luogo.
“Oggi sarà una
giornata tranquilla.” preannunciò Morena una
mattina, guardando fuori dalle grandi vetrate della parete che dava
sulla
strada. Fuori, una fitta ma insistente pioggerellina martellava
fastidiosamente
i passanti e le auto, creando un impercettibile scroscio di sottofondo
per i
rari clienti che al momento popolavano il caffè.
June si legò i lunghi
capelli in una treccia distratta e
sbuffò.
“E io che speravo di
rivedere quella comitiva di italiani
che è entrata ieri.”
Morena rise. Era una donna sulla
cinquantina, con un bel
viso tondo e aperto, spruzzato da fitte lentiggini. I suoi occhi erano
esattamente come lei: luminosi e gentili.
June aveva un aspetto molto meno
irlandese di lei, a parte i
capelli rossi e la carnagione chiara, ma con un padre austriaco non
avrebbe
potuto pretendere granché. Era carina, non si poteva
lamentare, però le sarebbe
piaciuto assomigliare di più a sua madre, sembrare
più celtica.
“Io vado di là a
salutare Caitlin e Brendan. Ci pensi tu a
quel ragazzo che è appena entrato?”
June annuì prima ancora di
aver registrato la richiesta. Ci
mise qualche istante a individuare il ragazzo a cui le aveva accennato
Morena:
si era seduto al tavolo più isolato della sala, la custodia
nera e graffiata di
una chitarra accanto, e se ne stava lì, con le spalle
ricurve, a fissare il
vuoto. Aveva un cagnolino con sé, un meticcio nero dal pelo
lungo che lo fissava
adorante. Aveva le punte delle zampe anteriori completamente bianche,
come se
avesse attraversato una pozzanghera di vernice, e se ne stava
lì, seduto ai
suoi piedi, la lingua penzoloni fuori dalla bocca, con
un’espressione che
sembrava in tutto e per tutto un sorriso.
Il ragazzo, invece, aveva
l’aria di uno che non aveva mai
sorriso in vita sua. June gli si presentò davanti
psicologicamente preparata a
rapportarsi con un ‘soggetto difficile’.
“Ciao. Vuoi
ordinare?”
Lui sollevò stancamente lo
sguardo su di lei. Aveva gli
occhi di un grigio metallico, contornati da pesanti ombre scure, e un
colorito
incredibilmente pallido. Lo avrebbe trovato attraente, se non fosse
stato così
magro, ma aveva un certo fascino distratto, quasi tormentato, dato dai
vestiti
sciupati, dai capelli biondi scompigliati e dalla barba che sembrava
trascurata
da almeno un paio di giorni, ma soprattutto da quel suo sguardo vitreo
e
malinconico.
“Sì,”
le rispose con voce roca. “Mi hanno dato questo,
ieri.”
June prese il cartoncino che le
porse. Era una specie di
coupon sul cui fronte campeggiava il logo del Paddy’s, mentre
sul retro c’era
una griglia riempita di numeri da uno a cento, una tazza di
caffè fumante sullo
sfondo. Buono valido per 100 caffè,
diceva.
“Che cosa
sarebbe?” domandò.
Il ragazzo inarcò le
sopracciglia.
“Non sai leggere?”
“Sì che so
leggere,” replicò lei acidamente. “Ma
è la prima
volta che mi presentano una cosa simile.”
“Be’,
lì c’è scritto che ho diritto a cento
caffè gratis,
quindi gradirei ordinare il primo.”
June si impose di mantenere la calma.
Quel tizio le dava sui
nervi.
“Devo prima chiedere al mio
capo che cos’è quest’affare,”
gli spiegò con rigida gentilezza. “Torno
subito.”
Lui sollevò le spalle con
indifferenza. June si allontanò e
si recò nel retrobottega per mostrare il coupon a Morena.
“Sì, ne avevo
fatto fare qualcuno per una lotteria di
beneficienza,” le disse lei. “Da’ pure al
ragazzo i suoi cento caffè e segnali
qui sopra.”
Obbediente, June tornò in
sala dal ragazzo. Lui la aspettava
con le braccia conserte al di sopra del tavolo.
“Dunque?”
“Dunque puoi ordinare il
primo dei tuoi cento caffè
gratuiti.” Sbuffò June.
“Bene. Un espresso con
panna, senza zucchero.”
“Perfetto.
Nient’altro?”
Lui scosse il capo.
“Sono a posto
così.”
June abbassò lo sguardo e
vide che il cane del ragazzo le
stava annusando curiosamente le scarpe.
“Non ce l’ha un
guinzaglio questa pulce?”
“No, ma Monsoon
è molto beneducata, non darà fastidio a
nessuno, lo garantisco.”
“Monsoon?” fece
June, perplessa. Lui scrollò nuovamente le spalle.
“Era un cucciolo randagio.
L’ho trovata lo scorso anno
davanti al negozio Monsoon in Grafton Street, così
l’ho chiamata Monsoon.”
“Che originalità.” Commentò
lei. L’ironia era uno dei suoi tratti più
caratteristici.
“Me lo porti questo
caffè sì o no?” berciò il
ragazzo, che
sembrava gradire la presenza di June almeno quanto lei gradiva la sua.
“Va bene, Signor Cafone, ti
porto il tuo maledetto caffè!”
“Grazie.”
Ribollendo, June gli voltò
le spalle e marciò verso il
bancone, dietro al quale si affaccendava Michael, l’addetto
alla preparazione
delle bevande calde.
“Un espresso con
panna,” gli mugugnò sbrigativamente. “E
non
sprecarti a metterci la bustina dello zucchero, il Signor Cafone
laggiù non lo
vuole.”
“Tipo strano, eh?”
June sospirò.
“Ha un buono da cento
caffè,” gli riferì, tetra.
“Ho paura
che lo rivedremo spesso.”
I timori di June si rivelarono
fondati.
Il ragazzo ritornò il
giorno seguente, e anche quello dopo,
e quello dopo ancora. Si presentava ogni mattina alle dieci in punto,
con la
chitarra in spalla e la cagnetta Monsoon che gli trotterellava
appresso; si
accomodava sempre allo stesso tavolo, accasciandosi sulla sedia come se
una
stanchezza più forte di lui lo opprimesse; si toglieva il
cappotto nero e
sgualcito e lo lasciava cadere alla cieca sulla sedia vuota accanto a
sé, poi
si sfilava il buono dalla tasca dei jeans e aspettava.
Aspettava che June si rimboccasse le
maniche e andasse da
lui a prendere svogliatamente l’ordinazione del giorno. Non
si piacevano, era
stato chiaro fin dal primo momento che si erano visti, e anche dopo
parecchi
caffè e altrettante crocette tracciate sul buono le cose non
erano migliorate.
Quel giorno, esattamente come tutti
gli altri, June si
trascinò con sofferenza verso il tavolo dove quel tipo
bizzarro la stava
pazientemente aspettando. Morena la aveva incaricata di occuparsi
personalmente
di lui, visto che, a detta di tutti, era la più indicata per
trattare con la
clientela più esigente.
Quando gli giunse davanti, il ragazzo
la salutò sollevando
svogliatamente una mano. Forse era solo un’impressione, ma
June lo vedeva ogni
giorno più magro e sciupato.
Che fosse malato?
“Fammi
indovinare,” gli disse, senza nemmeno tirare fuori
carta e penna dalla tasca del grembiulino bianco. “Un
caffè con panna, senza
zucchero.”
“Ottimo,”
L’aborto di un sorrisetto sarcastico balenò sulle
labbra del ragazzo. “Sei più sveglia di quel che
sembri, Sarah.”
Lei represse un brivido irritato.
“Mi chiamo June, non
Sarah.”
Lui scrollò le spalle.
“Avevo sette
probabilità su dieci che tu ti chiamassi
Sarah.”
“Spiacente di deludere te e
le tue statistiche, Sean.”
“Ike.”
Sembrava un’esclamazione
infastidita: Ike. June pensò che
non poteva esserci nome più adatto a un tipo come lui.
“All’alba del
ventesimo caffè, finalmente so con che nome
imprecarti dietro.” commentò. “Bene, Ike,
caffè con panna. E Monsoon è
sempre digiuna?” aggiunse, occhieggiando la cagnetta,
docilmente accucciata
accanto alla sedia del padrone.
“A lei non piace il
caffè.”
“Ha l’aria di una
che preferirebbe mille volte del
prosciutto. Si offende se gliene porto qualche fettina? Offre la
casa.”
“Chiedilo a lei.”
June si chinò sulla
bestiola e le sorrise.
“Hey, pulce, lo vuoi un
po’ di prosciutto?”
Per tutta risposta, Monsoon
sollevò la testa con occhi
avidi, la lingua rosa penzolante fra i denti, ed emise un uggiolio
allettato.
“Credo fosse un
sì.” Dedusse Ike.
“Anch’io,” annuì June, poi lo
squadrò rapidamente. “E tu non mangi mai
niente?”
Da quando era entrato là
dentro per la prima volta, non lo
aveva mai visto prendere altro che caffè.
“No, grazie, preferisco
mantenermi in linea.”
“A guardarti sembri più che altro
anoressico.”
“Vedi che danni psicologici
i media infliggono a noi
giovani?” replicò lui, affatto turbato.
“Sei fortunata, tu, a essere immune da
queste pericolose influenze.”
“Torno subito con le vostre
ordinazioni.” Mugugnò lei a
denti stretti, ignorando la sua sfacciataggine. Quando finalmente, dopo
aver
attraversato la sala a passo funereo, raggiunse il bancone,
trovò Michael a
ridersela alle sue spalle. “Non dire niente,” gli
intimò acidamente. “Sai cosa
preparare.”
E Michael, in effetti, lo sapeva.
Tutti ormai sapevano cosa
ordinava Ike e da un po’ avevano addirittura preso a
chiamarlo ‘il tizio di
June’, visto che in un modo o nell’altro era sempre
lei a servirlo.
June chiese a Michael di portarle
anche qualcosa per Monsoon
e quando lui le consegnò il vassoio con
l’ordinazione lei lo afferrò in malo
modo e ritornò verso il tavolo con la sensazione che le mani
le prudessero.
C’era poco da fare: quell’Ike le dava
immancabilmente sui nervi.
“Ecco,” Per
l’ennesima volta da due mesi a quella parte,
June posò la tazza davanti ad Ike senza troppe cerimonie.
“Caffè con panna per
il signore dallo sguardo truce e una chicca succulenta per la mia
cagnolina
preferita: salmone fresco!”
Monsoon emise un piccolo latrato
giubilante e si tuffò con
foga nel piattino che June le lasciò sul pavimento.
“A questo punto potresti
portarmelo direttamente a
domicilio,” scherzò Ike. “Mi
risparmieresti un po’ di strada.”
“Ma certo! Venti euro a
consegna. Dove devo recapitare?”
Lui fece un gesto evasivo.
“Lasciamo perdere. A quanti
caffè siamo?”
June spuntò una casella
sul coupon.
“Cinquanta netti, Vostra
Tirchiezza. Un caffè ogni giorno,
per cinquanta giorni, domeniche escluse, alle dieci spaccate. Sei
rigoroso e
puntuale come un inglese.”
“Io sono
inglese.” Ci tenne a sottolineare lui.
June strabuzzò gli occhi,
ma subito dopo si disse che
avrebbe dovuto intuire le sue origini. A ben guardarlo, in effetti,
aveva
proprio l’aria tipica da giovane inglese ribelle: era un
improbabile misto tra
Lord Byron e Liam Gallagher.
“Scusa la
curiosità, ma quanti anni hai?”
“Ventidue appena
compiuti.”
June non riuscì a impedire
alla propria bocca di
spalancarsi. Gli avrebbe dato almeno venticinque anni. Doveva essere
quel suo
aspetto fiacco e tirato a ingannare.
“Sei giovane!”
esclamò, stupita.
Ike rimase impassibile.
“Perché,”
replicò. “Tu quanti ne hai?”
“Ventiquattro.”
“In effetti a una della tua
età devo sembrare parecchio
acerbo.” Rispose Ike, mellifluo.
June inorridì nel sentirsi
arrossire.
“Sei un
musicista?” divagò, spostando lo sguardo sulla
custodia da chitarra che stava adagiata sull’altra sedia.
“No, mi porto sempre dietro
la chitarra per ragioni
puramente ornamentali.”
“Cosa suoni?”
insisté lei, ignorando i suoi deliberati
attentati di farle perdere la pazienza. Ike, però, era, se
possibile, ancora
più cocciuto di lei e non si lasciò scoraggiare.
“Sei in vena di
chiacchiere, oggi?”
June si chiedeva solo se fosse
così schivo per riservatezza
o semplice sociopatia.
“Be’, sono quasi
due mesi che sei un cliente fisso, e di
solito gli altri attaccano bottone alla prima occasione.”
Ike sorseggiò il proprio
caffè, osservandola di sottecchi. I
suoi occhi erano davvero belli.
“Il fatto è che
tu sei una civetta, Sarah.” Sentenziò
boriosamente.
“June, maledizione! Mi
chiamo June!” si infiammò lei,
alzando la voce. Quasi tutti gli avventori del caffè si
voltarono incuriositi.
Ike, invece, portava quel suo solito, fastidiosissimo sorrisino
beffardo
impresso sulle labbra.
“Il fatto è che
sei una civetta, June.”
Rettificò,
marcando bene il nome.
“Non è vero,
sono solo amichevole.” Si difese lei.
“Sei una
civetta.”
“E tu sei un selvatico!”
Una piccola parte del cervello di
June le stava ricordando
già da diversi secondi che non aveva senso che lei se ne
restasse lì a litigare
con quel cafone, dando per giunta spettacolo davanti agli altri
clienti, ma lei
sembrava non sentire.
“Ho notato che ti piacciono
i mediterranei,” riprese Ike a
un tratto. “Italiani, francesi, spagnoli… subisci
il fascino latino?”
“Subisco il fascino della
gente estroversa e calorosa.”
“Quindi ti piacciono gli
esibizionisti.”
“Le persone
solari.” Sottolineò rigidamente June.
“Questione di punti di
vista.”
“Avresti qualcosa da
imparare da loro.”
Scettico, Ike inarcò le
sopracciglia.
“Ad esempio?”
“Ad esempio a sorridere
veramente, qualche volta.”
Un improvviso tintinnio
spezzò il ritmico suono strascicato
del cucchiaino che mescolava il caffè. Lo sguardo che Ike
sollevò su di lei fu
inaspettatamente glaciale.
“Non sorrido a chi mi
tratta con sufficienza.”
“Non ti tratto con
sufficienza.”
“Sì,
invece.”
“Non è
vero!”
Ike posò il cucchiaino e
si portò la tazza alla bocca.
“Come vuoi tu.”
Esasperata, June gli
piantò in malo modo il buono sul
tavolo, dicendosi che se non si fosse allontanata al più
presto avrebbe finito
per prenderlo a schiaffi.
“Spero che quel
caffè ti vada di traverso!” gli sbottò
contro, poi gli voltò le spalle e se ne andò.
Lo sentì rispondere un
flebile “Grazie”, ma non si voltò
indietro. Non aspettava altro che quei maledetti caffè
gratuiti si esaurissero,
così si sarebbe finalmente liberata una volta per tutte di
quell’individuo
sgradevole.
“Ciao, Monsoon!”
esclamò June, rivolgendosi giovale alla
cagnetta, che, come d’abitudine, era in attesa
all’abituale tavolo del Paddy’s
assieme ad Ike. “Sai che cos’ho per te oggi? Un bel
filetto di vitello tenero
tenero!” Si voltò verso Ike con aria distratta.
“Oh, ciao anche a te, Signor
Braccino Corto.”
“Ciao,”
contraccambiò lui, del tutto privo di entusiasmo.
“Per oggi niente vizi per Monsoon, grazie.”
“Come sarebbe?”
“Non è stata
molto bene, stanotte, meglio che non mangi cose
strane.”
“Potresti portarla da un
veterinario, anziché costringerla a
fare la fame, non credi?”
June trasalì quando Ike
piantò un violento pugno contro il
legno massiccio del tavolo e scattò rabbiosamente in piedi,
le narici bianche e
dilatate.
“Ma tu che ne sai di quello
che posso fare?” ringhiò. “Tutto
quello che sai di me
è quello che
ordinerò quando metto piede qui dentro,
nient’altro, quindi fammi un favore:
risparmiami le prediche!”
Benché la ritenesse una
reazione decisamente spropositata,
June mantenne la calma. Forse era semplicemente una giornata storta.
“Oggi ti vedo
più lagnoso del solito, sbaglio?”
sdrammatizzò.
Ike schioccò
impazientemente la lingua e si risedette.
“Caffè numero settantasette, June, niente
chiacchiere.”
June si diresse a passo svelto verso
il bancone, macinando
nella testa riflessioni dubbiose su Ike e su chi fosse veramente. In
generale
le era sempre parso insopportabile, ma con il tempo, caffè
dopo caffè, era
emersa anche una parte più spiritosa e amichevole, anche se
spesso trovava il
suo umorismo inglese abbastanza macabro. A tratti era schivo, a tratti
quasi
sereno, raramente allegro, come se il suo umore cambiasse con il tempo.
E il
tempo, a Dublino, mutava in un battito di ciglia.
“A quanto siamo?”
le domandò Michael, mentre preparava
l’espresso con panna.
“Settantasette. Ancora
ventitré e il supplizio finirà.”
Michael ridacchiò.
“Fai tanto la sostenuta, ma
secondo me quel tipo ti piace.”
“Cosa?! Non dire sciocchezze, lo sopporto a
malapena!”
“Sarà,”
Michael le mise in mano il vassoio con il caffè.
“Ma
tutte le volte vi intrattenete a battibeccare decisamente
più del necessario.”
“Ma figuriamoci.”
June tornò al tavolo di
Ike con uno strano ronzio sordo
nelle orecchie. Michael si sbagliava, e di grosso, anche.
Le giornate si susseguirono
monotonamente tra sole e
pioggia, una dopo l’altra, tutte uguali. Alle dieci, Ike
entrava con la sua
andatura pigra, Monsoon fedelmente accanto, e June andava da lui,
nonostante
ormai ben sapesse cosa le sarebbe stato ordinato. Quando poi tornava,
chiacchieravano per qualche minuto, scambiandosi principalmente
battutine
pungenti e occhiate storte, poi a un certo punto uno dei due mandava a
quel
paese l’altro, e allora si separavano fino alla mattina
successiva. Per più di
tre mesi continuarono così, e lentamente, man mano che
spuntava le caselle sul
coupon, June si rendeva conto di quanti caffè avesse servito
in tutta la sua
vita. Centinaia e centinaia, migliaia, di ogni tipo e
varietà: forti,
ristretti, lunghi, decaffeinati, d’orzo, macchiati, neri,
corretti…
Non aveva mai servito,
però, un caffè con panna senza
zucchero, prima Ike gliene chiedesse uno.
E prima di Ike non si era mai nemmeno
soffermata a scambiare
qualche parola con un cliente di spontanea volontà. E anche
così facendo,
quello che sapeva di lui sfiorava il nulla.
Il giorno del penultimo
caffè, Ike si presentò puntualmente
alle dieci, la chitarra buttata sulla spalla, ma qualcosa non andava. I
suoi
occhi sembravano ancora più tristi e cupi del solito, le sue
spalle più pesanti
e ricurve, il suo passo più affaticato. June
impiegò qualche istante per capire
cosa ci fosse di diverso.
“Dov’è
Monsoon?” volle sapere, non appena lui fu giunto al
tavolo che abitualmente occupava. Lui appoggiò la chitarra
alla seconda sedia,
si tolse il cappotto e si sedette con incuranza.
“Non
c’è.”
“Questo lo vedo. Ti ho chiesto dov’è,
infatti.”
Senza guardarla, Ike si mise a
trafficare nel proprio
portafogli.
“Ieri per strada una
bambina l’ha vista e ha detto a suo
padre che la voleva,” Quando trovò il solito
talloncino, ormai logoro, lo porse
a June con disinvoltura. “Lui mi ha proposto di vendergliela
per cinquecento
euro.”
Lei si rifiutò di credere
che fosse successo quel che
pensava fosse successo.
“E tu
hai…”
“Starà meglio
con loro.” Tagliò corto Ike.
June dovette muoversi violenza
psicologica per non dare in
escandescenza.
“Hai barattato il tuo cane
con cinquecento miseri euro! Ma
che razza di persona sei?”
“Le mie scelte non ti
riguardano, June,” dichiarò lui,
asciutto. “Non sta a te giudicarmi.”
“Monsoon era la tua
migliore amica!” strillò lei. Non le
importava se tutti la stavano fissando e bisbigliavano alle sue spalle.
Era
furiosa.
“No,” la corresse
Ike, sempre pacato, ma un’ombra strana gli
oscurava il viso. “Era l’unica amica che
avessi.”
“E allora perché
l’hai abbandonata così?”
“Non ti riguarda. La
questione è chiusa. Portami il mio
novantanovesimo caffè.”
Era sempre stato scontroso con lei,
ma mai così tagliente e
lapidario. Doveva esserci stato qualcosa di sbagliato che lei aveva
detto, qualcosa
che aveva incrinato tutto il resto. Ma al momento non le interessava,
non aveva
voglia di preoccuparsi per lui. Lo detestava per quello che aveva
fatto, non
aveva più niente da dirgli.
“Sì,
signore.” Gli sibilò, poi gli voltò le
spalle,
allontanandosi in fretta. “Il solito,”
borbottò a Michael, passandogli davanti
come una furia. “E fallo portare da qualcun altro, per
favore, io sono in
pausa.”
Entrò come una furia nel
retrobottega e si chiuse nel bagno
del personale, desiderando che quello stronzo sparisse per sempre dalla
sua
vista.
Il giorno dopo, Ike non si
ripresentò a riscuotere il suo
ultimo caffè.
June si strinse la sciarpa attorno al
collo mentre una
folata di vento gelato le scompigliava i capelli. Nonostante
l’inclemenza del
tempo uggioso, Parnell Street era comunque discretamente affollata, con
gente
frettolosa che affollava i marciapiedi umidi senza guardare in faccia
nessuno.
Nell’aria, sempre quel profumo, unico e magico. Il profumo
dell’Irlanda. Un
profumo che quel giorno a June sembrava insolitamente triste.
Era un mese che Ike non si faceva
vedere, e da un mese lei,
stupidamente, era preoccupata per lui. Avrebbe cercato di
rintracciarlo, se
solo avesse saputo qualcosa di più del suo nome. Ogni volta
che intravedeva un
ragazzo con una chitarra in spalla, le veniva un tuffo al cuore, ma poi
si
rendeva conto che era troppo alto, o troppo robusto, o che i suoi
capelli erano
troppo corti e scuri.
Si dava della patetica per come non
faceva che cercarlo in
ogni volto che incontrava, sperando di scorgere il grigio dei suoi
occhi
nell’ennesimo sconosciuto che le passava accanto. Un paio di
volte le era anche
capitato di scambiare il cane di qualche vecchietta per la piccola
Monsoon,
salvo poi incassare una cocente delusione nel realizzare che non poteva
essere
lei. Anche adesso, oltrepassando distrattamente l’ufficio
turistico, il cane
che quella bambina teneva gelosamente al guinzaglio le sembrava fin
troppo
familiare.
June si fermò di scatto
nel bel mezzo del marciapiede, i
passanti che la aggiravano scocciati, senza risparmiarle qualche
rimprovero, ma
lei non li poteva nemmeno sentire. Di fronte a lei c’era una
con un cagnolino
al guinzaglio: piccolo, nero, con quelle zampette bianche e la lingua
pendente
di lato. June poteva anche essere un’illusa visionaria, ma
non esisteva ombra
di dubbio: quella era davvero Monsoon.
Le ginocchia tremanti, si
avvicinò con discrezione. Appena
Monsoon la vide, fu lei a riconoscerla e avvicinarla, tirando
prepotentemente
il guinzaglio. La bambina sembrò felice di avere
un’occasione di mettere in
mostra il suo cucciolo.
“Com’è
bella la tua cagnetta!” si complimentò June,
abbassandosi per accarezzare dolcemente il muso di Monsoon.
“Come si chiama?”
La bambina sorrise orgogliosa, prima
all’uomo distinto che
era con lei, che ricambiò, poi a June.
“Si chiama Missy.”
Monsoon abbaiò in protesta
e si protese di nuovo verso June,
leccandole le mani. Era decisamente più vivace delle ultime
volte che l’aveva
vista assieme ad Ike.
“Che bel
peperino.”
“Pensi che prima stava con
un artista di strada,” le rivelò
l’uomo, avvolgendo un braccio attorno alle spalle della
figlia. “La teneva con
sé tutto il giorno al freddo mentre suonava in Grafton
Street.”
June ebbe la sensazione che il
proprio cuore si fermasse.
“Suonava?” balbettò.
“Sì,”confermò
lui. “Una vecchia chitarra abbastanza
malandata, e questa poverina se ne stava lì ai suoi piedi a
congelare, ed era
anche malata. Un giorno Sophie l’ha vista e se ne
è innamorata, così ho offerto
al ragazzo una piccola somma in cambio del cane. Lui
all’inizio mi è sembrato
titubante, ma alla fine ha acconsentito a regalarci Missy, a patto che
ce ne
prendessimo cura, e così è stato.”
L’uomo regalò a Monsoon un sorriso
premuroso. “Il veterinario ha detto che è stata
una fortuna che la abbiamo
adottata, non era nemmeno vaccinata. Probabilmente quel ragazzo non
aveva i
mezzi per nutrire sé stesso, figuriamoci un cane. Missy
aveva una seria
malformazione ai reni, sarebbe morta se non l’avessimo fatta
operare.”
“Per fortuna la abbiamo
trovata noi, vero papà?”
“Certo, tesoro.”
June era sconvolta. Si era appena
resa conto di non aver
capito un bel niente, per tutto il tempo. Ike e i suoi caffè
gratis, il suo
intestardirsi a non prendere mai altro, e poi la storia di Monsoon che
stava
poco bene, la decisione di darla via… aveva frainteso tutto
quanto.
“Capisco,”
farfugliò, risollevandosi in piedi sulle gambe
malferme “Be’, è stato un
piacere,” disse all’uomo e alla bambina.
“Arrivederci.”
Loro la salutarono cordialmente.
“Arrivederci.”
Un forte senso di vertigine colse
June mentre riprendeva a
camminare, senza una meta o direzione. Guardò avanti a
sé e pensò che Ike era
là, da qualche parte, solo con la sua chitarra, ad odiarla
per come lo aveva
trattato.
Il rimorso si fece strada dentro di
lei e le afferrò la
gola, stringendo impietosamente.
Doveva trovarlo e scusarsi. Lo
avrebbe fatto, ma prima
doveva capire cosa voleva dirgli, e soprattutto cosa si aspettava da
lui. Non
si era più fatto vivo dopo la loro discussione, e un valido
motivo ci doveva
pur essere. Se non gliene fosse importato nulla di ciò che
lei pensava di lui,
non si sarebbe fatto problemi a tornare per il suo centesimo
caffè. L’ultimo.
Restò per un attimo a
fissare la strada che curvava in
lontananza, verso il Trinity College, poco prima di Grafton Street.
Ci sarebbe andata, quando avesse
capito perché ci teneva
così tanto a ritrovarlo, a riportarlo al Paddy’s
per servirgli quel famoso
caffè numero cento.
Se necessario, decise, glielo avrebbe
portato personalmente
là fuori, ovunque lui si trovasse.
Una settimana fu il tempo che June
impiegò a riflettere
sulla situazione e un’altra settimana le servì per
giungere alla conclusione
che non aveva la più pallida idea di che cosa volesse fare.
L’unica cosa che
sapeva era che aveva bisogno di parlare con Ike.
Era ancora buio quando
uscì di casa e si incamminò verso il
centro. Quando giunse nei pressi del negozio Monsoon, il sole era
già alto nel
cielo e penetrava faticosamente attraverso la densa coltre di nuvole
livide. Si
era fatta mille piani mentali, aveva fatto infinite previsioni, si era
preparata tutta una serie di cose da dire, fiduciosa che sarebbe stato
tutto
semplice e naturale, come quando aveva parlato con lui al
caffè.
Quando sollevò gli occhi e
lo vide, però, tutto quanto
crollò.
Ike era pochi metri avanti a lei,
seduto a terra a ridosso
di un muro, la chitarra imbracciata mentre cantava una canzone
melanconica che
lei non conosceva. Aveva i capelli umidi che gli coprivano il viso e il
capo
chinato. La sua voce roca risuonava debolmente per la via affollata. La
gente
passava e gli lanciava qualche moneta nella custodia della chitarra, e
un
gruppetto di giovani si era addirittura radunato vicino a lui per
sentire
meglio. June non lo aveva mai visto con così tanta gente
attorno, eppure, al
tempo stesso, non lo aveva mai visto così solo.
Gli si avvicinò in
silenzio e si fermò a un passo da lui.
“Ciao, straniero.”
Lentamente, come se non credesse di
averla sentita davvero,
Ike guardò in su. La musica cessò e i suoi occhi
stanchi si dilatarono dallo
stupore.
“Che cosa ci fai
qui?” chiese in un soffio.
Incurante delle occhiatine
incuriosite dei ragazzi presenti,
June gli si sedette affianco e si strinse le ginocchia al petto,
avvolgendole
con le braccia.
“Se dicessi che passavo per caso?”
Per tutta risposa Ike
afferrò la custodia senza nemmeno
sprecarsi a togliere i soldi che vi erano stati gettati dentro e vi
ripose la
chitarra. June notò che assieme alle monete e alle rare
banconote c’erano anche
un paio di buoni pasto. Doveva essere così che era entrato
in possesso del
coupon: qualche passante gli aveva dato quello, anziché una
manciata di
monetine. Un affare, a ben pensarci.
“Perché non mi
hai detto la verità?” gli chiese.
“A proposito di
cosa?”
“Di Monsoon,”
June cercò di incontrare i suoi occhi, ma lui
non glielo permise. “E di te, soprattutto.”
“Non ho mai
mentito.” Si difese Ike.
“Ma hai taciuto diversi
particolari, come il fatto che ti
guadagni da vivere suonando, tanto per dirne uno. E poi non hai affatto
venduto
la tua migliore amica; l’hai affidata a delle persone che
potessero permettersi
le costose cure di cui aveva bisogno.” Lui non disse nulla,
così lei aggiunse:
“Li ho incontrati per caso. La trattano molto bene, se
può consolarti.”
“Mi fa piacere, ma non mi
consola,” Il tono di Ike era
amaro. “Monsoon era tutto per me, tutto quello che avevo.
Adesso non ho più
niente.”
“Hai ancora una casella da
spuntare sul tuo buono di cento
caffè.”
Ci fu una pausa di silenzio. Forse
una casella su un buono
non era granché, come prospettiva a cui aggrapparsi in un
momento di sconforto,
ma se non fosse bastata quella, lei aveva qualcos’altro in
serbo. Qualcosa di
speciale, solo per lui. Per farlo sentire meglio, o così
sperava.
“Ah,
be’...”
“E hai me.”
Ike si bloccò.
“Scusa?”
“Hai me,”
ribadì June, convinta. “Ti ho servito novantanove
caffè con panna, si sarà pur creato qualche tipo
di legame tra di noi.”
“Mi hai detestato dal primo
momento in cui mi hai visto.”
Replicò lui. Un ricciolo divertito gli comparve in un angolo
della bocca.
“Sai, mi manca la tua
presenza molesta, al caffè,” confessò
lei. “Tutti gli altri clienti sono così gentili e
simpatici… sai che noia?”
Per la prima volta, June
udì il suono della sua risata. Era
strana, buffa, come quella di un bambino, ma con un retrogusto
amarognolo.
“Sì,
immagino.”
“Almeno ce l’hai
un tetto per la notte?” si informò lei.
“Sto in un ostello. Non
è un granché, ma è pur sempre un
posto in cui tornare, no? E, prima che tu lo chieda, mangio
regolarmente, anche
se non sembra.”
June si ritrovò a
sorridere. Giocava tanto a fare il ragazzo
coraggioso e stoico, il bel tenebroso pieno di misteri, ma in
realtà aveva un
gran bisogno di stabilità, vantaggio di cui uno che si
guadagnava da vivere
suonando per strada non poteva godere in abbondanza.
“Sei un randagio,
Ike.”
Lui sollevò le spalle.
“E con questo?”
June gli porse un foglietto. Lo aveva
fatto lei
personalmente quella notte, presa da un’ispirazione
improvvisa, ed era
piuttosto soddisfatta del risultato.
“Che
cos’è?” domandò Ike,
rigirandoselo fra le mani.
“Non sai
leggere?” fece lei,
sorniona.
“Buono da 100
tutto-quello-che-vuoi-tu?” lesse lui,
perplesso.
“Offerta imperdibile,
vero?”
Ike ebbe un impeto di rabbia e quasi
le scaraventò il
cartoncino addosso.
“Non accetto la
carità di nessuno!”
“Non è
carità,” precisò June, paziente, e gli
rimise il
foglietto in mano. “Mi prendo cura di te. Sei il mio
randagio, adesso. Non
vedi? Ti ho trovato proprio davanti al negozio di Monsoon in Grafton
Street.”
Seppur palesemente sbigottito, Ike
prese il nuovo buono tra
le dita e si mise a osservarlo con un accenno di sorriso.
“Tu sei fuori di
testa.”
“Vorrei ben vedere. Una
persona normale mica adotterebbe un
selvatico scontroso come te.”
“Sì, forse hai
ragione.”
“Verrai?”
“A riscuotere questo
buono?”
“Sì.”
“Non lo so, June.”
Vago ed evasivo, come suo solito.
“Qual è il tuo
problema?” lo interrogò, severa.
“Perché sei
così allergico alle persone?”
“Non ne ho mai incontrate
di meritevoli di fiducia.”
June si sentì punta nel
vivo: tutto poteva accettare, ma non
che lui dubitasse della sincerità delle sue intenzioni.
“Sono venuta fin qui a
piedi, sotto la pioggia, da Dundrum,
nel mio unico giorno libero, e ho fatto a mano quello stupido coso ieri
notte alle
due, il tutto perché… perché volevo
fare qualcosa di carino per te, che ti
facesse sorridere, per una volta, e invece tu sei sempre freddo e sulla
difensiva! Non voglio pugnalarti alle spalle non appena abbasserai la
guardia,
maledizione, voglio aiutarti!”
“Ma
perché?” esclamò lui, piccato.
“Cosa te ne importa di
me?!”
“Mi importa!” si
arrabbiò lei. “Mi importa e basta! E se per
te non è sufficiente, allora proprio non so
perché sono ancora qui a perdere
tempo!”
Lo sguardo di Ike si
adombrò nell’abbassarsi.
“Me lo sto chiedendo
anch’io.”
June si alzò in piedi, si
sistemò il cappotto e ricacciò
indietro una voglia di mettersi a piangere e urlare a cui non sarebbe
stato
saggio dare pubblicamente sfogo.
“Io ho fatto quel che
dovevo, Ike. Il resto sta a te.”
Lui non disse più niente,
né la guardò. Rimase seduto a
terra con il coupon in mano, fissandolo con espressione assente. Non
aprì bocca
né mosse un muscolo nemmeno quando June girò sui
tacchi e se ne andò,
lasciandolo nuovamente solo.
Forse era così che doveva
andare. Forse era quello il
destino delle persone come lui: la solitudine.
Eppure lei non riusciva ad accattarlo.
Era il primo, vero giorno di sole da
un paio di mesi a
quella parte, eppure June si era svegliata con una sensazione di
inquietudine
addosso che ancora non sapeva spiegarsi. Aveva visto il cielo blu e
aveva
capito che la primavera era ufficialmente arrivata, ma non se ne faceva
niente
della primavera se dentro continuava a sentire la mancanza di Ike e del
suo
caratteraccio. Era piuttosto masochistico da parte sua, ma
così stavano le cose
e lei non poteva farci niente, se non infilare il suo grembiule,
inventarsi un
sorriso credibile e mettersi a servire i clienti.
Erano le dieci quando, dopo essere
corsa qua e là per la
sala da the al piano superiore del Paddy’s, scese di sotto
per portare le
ordinazioni e mandare una montagna di stoviglie da lavare in cucina.
Si era aspettata il pienone e la coda
di clienti che
aspettavano in piedi all’ingresso. Si era aspettata che
Morena le urlasse quel ‘Finalmente!’
da dietro la bancone, facendo sghignazzare Michael. Si era anche
aspettata di
dover sgomitare per raggiungerli. Quello che non si era affatto
aspettata era
che avrebbe trovato un noto broncio fascinoso ad attenderla.
“Ike!”
Dopo tutto quel tempo, ancora non era
riuscita a spiegarsi
come i brividi di irritazione che lui le aveva suscitato
all’inizio si fossero
gradualmente trasformati in piacevoli formicolii allo stomaco.
Lui si fece avanti, le mani affondate
nelle tasche dei
jeans, serio come non mai.
“Ciao.”
“Sei venuto, alla
fine,” June sentiva la propria voce
tremare dall’incredulità. “Avevo quasi
smesso di sperarci. È tanto che
aspetti?”
Lui scosse la testa.
“Mai quanto mi hai
aspettato tu.”
“Posso offrirti un
tutto-quello-che-vuoi-tu?”
“Il solito mi
basta.”
June si illuminò nel
vederlo estrarre l’ormai veterano
tesserino dalla giacca.
“Siamo a cento,
finalmente!”
Ike si schiarì la gola con
fare imbarazzato.
“Centouno, a dire il
vero.” Puntualizzò.
“Come sarebbe a dire centouno?”
fece lei, confusa. Il
coupon ne copriva solo cento, e cioè uno ancora, non di
più. Ma Ike si
comportava in modo strano, strusciava un piede avanti e indietro e
guardava il
pavimento con smodato interesse
“Ti va di… farmi
compagnia?”
A June servì un notevole
sforzo per non domandargli di
ripeterlo.
“Ti senti bene?”
gli chiese invece, notando una vago rossore
che affiorava sulle sua guance scavate.
“Ti ho solo offerto un
caffè.” Si schermì rapidamente lui.
“Cioè vuoi
condividere qualcosa con me?”
“June, voglio solo offrirti
un caffè, maledizione!”
“Il buono non li copre
entrambi, però.”
“Non importa,”
disse Ike, mentre prendevano posto al tavolo
di sempre, miracolosamente libero.
“Pagherò.”
Compiaciuta, June sorrise senza quasi
rendersene conto.
“Ti stai
addomesticando.”
“Mai.”
Dichiarò lui, categorico.
“Invece
sì!”
“Senti, lo vuoi o no questo
dannato caffè?” si spazientì
lui.
June dovette mordersi il labbro
inferiore per non scoppiare
a ridere. Era delizioso quando era imbarazzato. Non se lo sarebbe mai
immaginata.
“Grazie,” si
limitò a dirgli, con il tono più dolce che
avesse mai usato con lui. “Sono sinceramente
commossa.”
“Per un banalissimo caffè?”
minimizzò lui, con un gesto incurante.
In quell’istante, senza che
nessuno la avesse avvisata,
arrivò Morena in persona e lasciò loro davanti
due tazze di fragrante caffè con
panna montata. Prima che June potesse dire alcunché, lei le
strizzò l’occhio e
se ne andò, in fretta come era arrivata, lasciandoli
nuovamente soli.
Improvvisamente June ebbe la
sensazione che ci fosse
qualcosa che Morena non le avesse detto, che l’arrivo di Ike
al Paddy’s, ormai
diversi mesi prima, fosse stato tutt’altro che causale, ma
forse era solo una
sensazione. Se conosceva Morena – e la conosceva bene
– esistevano forti
probabilità che ci fosse il suo zampino sotto a tutta quella
storia.
June sorrise ad Ike, pensando che,
anziché accusarlo di non
sorridere mai per tutto il tempo, forse avrebbe dovuto sorridere lei
per prima.
“No, non per il
caffè,” disse, avvicinandosi la propria tazza.
“Per tutto quello che c’è
dietro.”
Ike la imitò e prese a
mescolare la panna nel caffè,
scrutando pensosamente il proprio movimento.
“E per quello che c’è
davanti?” sussurrò, quasi inudibilmente.
“Davanti a questo caffè?” June
sollevò la propria tazza e bevve un minuscolo
sorso di caffè, per poi abbassarla studiarla, assieme a
quella di Ike, come se
la risposta a quella domanda fosse tutta lì. Sorrise,
perché in fondo era
proprio così. “Ci siamo noi.”
E quel noi
era
caldo e dolce, rassicurante, e aveva il sapore di una promessa. Una
promessa
suggellata dalla semplicità un caffè con panna, e
da due sorrisi che si
conoscevano per la prima volta.
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