Believe
Aurora
rientrò nel suo appartamento, gettò la borsa
piena di
libri sul divano e si tolse il cappotto.
“Io
detesto questa città!” pensò con
rabbia. “Detesto
il caos, detesto l'assenza totale di gusto nella maggior parte delle
zone e detesto la gente. Come si può essere così
freddi
e scostanti, così indifferenti? Ecco, di questa
città
detesto soprattutto il senso di gelo, di abbandono... di
solitudine.”.
Si
avvicinò alla finestra e guardò fuori.
Le
luci natalizie decoravano la grande strada che correva di fianco al
suo palazzo, ma ai suoi occhi non riuscivano a scaldare l'aria di
quella città, né tantomeno il cuore della sua
gente.
Gente
che correva indaffarata lungo i marciapiedi, che usciva dai negozi e
si infilava in altri, che quando urtava qualcuno fingeva di non
accorgersene, gente alla guida di un'auto che si attaccava al clacson
alla minima minaccia di ingorgo, che sfrecciava senza nemmeno
guardare se qualcuno stesse attraversando... gente che sembrava
andare avanti per inerzia, come programmata in precedenza, gente che
si confondeva nella massa, gente senza un'individualità...
tutti uguali, tutti... vuoti.
“Ecco
cosa intendeva Eliot quando ha scritto The Waste Land e
The Hollow Men.”
pensò, ritirandosi dalla finestra. “Menomale che
domani me
ne torno a casa per le vacanze di Natale!”
Si
preparò la cena, poi si fece una lunga doccia calda e
tornò
in sala con l'intenzione di cominciare a studiare almeno uno della
montagna di libri che le toccavano per ogni materia, ma ci
rinunciò
dopo solo mezz'ora, quando si rese conto che continuava a rileggere
le stesse pagine senza capirci nulla: era troppo stanca e troppo
nervosa.
Andò
in camera e finì di preparare la valigia per il giorno dopo,
poi si avvolse in una pesante camicia da notte bianca e lilla, si
rannicchiò sotto le coperte e si infilò nelle
orecchie
le cuffiette dell' iPod, selezionando la modalità
“riproduzione casuale”.
La
voce di Josh Groban, con la sua “Believe”, le
risuonò
nelle orecchie.
“Ecco,
Josh, dammi una mano tu.” pensò la ragazza,
abbandonandosi
alle parole e alla musica di un cantante che amava.
We
were dreamers
not
so much ago...
Già,
le sembrava passato così poco tempo da quando era una
bambina
e viveva in un paesino immerso nel verde delle colline, che d'inverno
si tingevano di neve candida e soffice.
Così
poco tempo, da quando trascorreva la notte di Natale in trepidante
attesa, ogni volta, di sentire i passi di Babbo Natale nel salotto,
intento a lasciare i regali per lei e le sue sorelle.
Così
poco tempo, da quando, ogni anno, si riprometteva di stare sveglia
per sentirlo, forse per scorgerlo... e da quando poi,
inevitabilmente, si lasciava vincere dalla stanchezza e si
addormentava.
Così
poco tempo da quando poi, la mattina, si svegliava con il cuore in
gola e correva in salotto per vedere cosa lui le avesse portato... le
risate, i gridolini di contentezza, le carte colorate stracciate da
manine impazienti...
E
soprattutto il calore, il calore della sua grande famiglia, che ogni
anno si riuniva per trascorrere il Natale, tra canti, festeggiamenti,
giochi... e anche gli ottimi piatti della mamma, delle nonne e delle
zie.
Ma...
But
one by one we
All
have to grow up
E
così era successo a lei.
Era
cresciuta e, per prima tra le sue sorelle, aveva dovuto lasciare la
campagna e trasferirsi in città per studiare
all'università.
Per
carità, era grata di quella possibilità e quello
che
studiava l'appassionava, ma se avesse potuto sarebbe corsa via da
quella città per non mettervi più piede.
Il
giorno dopo sarebbe tornata a casa per Natale, certo, ma dentro di
lei sapeva che il grigiore e la freddezza della città
l'avrebbero accompagnata e assillata, come un fantasma invisibile e
gravoso... e che il pensiero di doverci rimettere piede, dopo le
feste, avrebbe continuato a darle la caccia.
Più
forte di tutti, c'era il terrore che quella città sarebbe
riuscita a cambiarla, facendo di lei una persona fredda e vuota come
quelle che formicolavano per le strade. Era contro questa divorante
paura che combatteva, ma questa sembrava farsi ogni giorno
più
forte.
Non
voleva perdere se stessa.
When
it seems that magic is slipped away,
we
find it all again on Christmas Day.
Per
una qualche ragione, le venne in mente il viso di sua madre, la sua
mamma buona e paziente, e il suono della sua voce mentre, la vigilia
di Natale, ripeteva a lei e alle sue sorelle la solita frase per
convincerle ad andare a letto buone buone: “La notte di
Natale è
magica. E' la notte della speranza, della nuova luce... esprimete un
desiderio, e quello si avvererà.”.
Ci
aveva sempre creduto, anche quand'era cresciuta. Era un piccolo rito
di Natale che non si faceva mai mancare: ogni 24 Dicembre, prima di
addormentarsi, mormorava le sue speranze alle stelle che intravedeva
dalla finestra del lucernario della sua camera.
Non
era ancora la vigilia di Natale, ma sognare e sperare non costava
nulla...
“E'
quasi Natale. E' quasi la festa della luce, della speranza, del
calore... e come vorrei trovare tutto questo in questa
città,
almeno per una volta.” pensò, mentre le si
chiudevano gli
occhi...
Believe
in what your heart is saying...
Quando
li riaprì, si trovò in una stanza completamente
diversa
da quella in cui era prima.
Stava
sdraiata in un enorme letto a baldacchino e indossava una pesante
camicia da notte finemente lavorata.
Confusa,
si tirò a sedere e si guardò intorno.
La
stanza non era poi così diversa dalla sua, ma era
più
ampia, più alta e decisamente più accogliente. I
mobili e tutti i suoi averi, però, erano cambiati, come se
appartenessero ad un'altra epoca: il computer sulla scrivania, ad
esempio, era sparito e al suo posto erano comparsi dei fogli di carta
da lettera ben impilati.
“Ok,
Aurora, stai sicuramente sognando.” pensò,
alzandosi e
andando alla finestra.
Scostò
la tenda e guardò in basso, senza aspettarsi nulla di
preciso.
Oltre
la sua finestra si stendeva un giardino imbiancato di neve e,
più
in là, oltre il cancello, una strada percorsa da cavalli e
carrozze, mentre il cielo cominciava ad imbrunire.
“E'
decisamente un sogno.” si disse. “Figurati se nella
città
dove sono capitata ci sono dei giardini! Quanto ai cavalli,
verrebbero investiti dal primo tram che passa... o stroncati dai
veleni delle auto. Per non parlare della neve, che si trasformerebbe
in una poltiglia rivoltante ancora prima di toccare terra! ”
commentò.
Qualcuno
bussò alla sua porta.
“Avanti!”
rispose istintivamente.
Nella
stanza entrò una giovane cameriera, visibilmente agitata.
“Ah,
signorina Aurora, siete sveglia...menomale!”.
“Signorina
Aurora? E da
quando?” pensò
la ragazza. Nemmeno all'università la chiamavano
“signorina”.
“Coraggio,
non vorrete far tardi alla festa di Natale al castello!”
continuava
la cameriera, che sembrava non aver notato il suo spaesamento.
“N-no,
certo che no! Scusa ma...che giorno è oggi?” le
chiese
Aurora, sentendosi una perfetta imbecille.
La
cameriera alzò gli occhi su di lei. “Il 24
Dicembre...
signorina, vi sentite bene? Dopo pranzo eravate stanca e strana, ma
credevo che il sonno vi avesse ritemprata.”.
Aurora
scosse la testa e sorrise. “No, sto bene.” rispose.
“Dì
a mia madre che scendo tra poco, giusto il tempo di
vestirmi.”.
“Vi
mando Henriette per aiutarvi con la chiusura dell'abito e
l'acconciatura?” domandò ancora la cameriera.
Aurora
intuì che, se avesse risposto di no, quella giovane
cameriera
si sarebbe convinta che qualcosa decisamente non andava,
così
annuì.
“Sì,
grazie.”.
La
cameriera apparve sollevata e uscì dalla stanza.
Aurora
crollò sulla sedia e si appoggiò una mano sulla
fronte.
“Ok...
è evidente che è un sogno. Goditelo
finchè
dura!” si disse.
“Ma
quale sogno?” intervenne una vocina vicino a lei.
“E' il tuo
desiderio che si realizza!”.
La
ragazza alzò la testa e si guardò intorno, per
vedere
chi avesse parlato.
“Sono
qui, cervellona, sul tavolo! Guarda giù!”.
Aurora
obbedì e vide la sua fatina da collezione preferita, regalo
della sua migliore amica. Era una piccola fatina di porcellana
seduta su una stella, con l'abito blu notte, le alucce sui toni
dell'azzurro e i capelli castani sciolti sulle spalle, con qualche
ciocca che le ricadeva davanti. Di tutte le cose che erano nella sua
vecchia stanza, quella sembrava l'unica immodificata.
“E
tu chi sei?”.
“La
tua guida. Tutti ne hanno una, ma non tutti la trovano...
però
ne riescono a sentire la voce, se vogliono.”.
“Spiegati
meglio.”.
“Non
posso, Henriette sta per arrivare. Su, scegli il vestito...parleremo
mentre ti sistema i capelli. Puoi comunicare con me semplicemente
pensando.”.
“D'accordo.”.
Aurora
si alzò e aprì il grande armadio addossato alla
parete.
“Wow!”
pensò. “Non è che tutti questi vestiti
posso
portarmeli via, quando l'incanto svanirà?”
pensò.
Diede
una scorsa agli abiti, cercando di non incantarsi troppo su ognuno, e
alla fine scelse un bell'abito rosso scuro, con fili dorati che
scendevano lungo la gonna e orlavano le maniche e la scollatura,
impreziosendole.
Henriette
entrò proprio mentre la ragazza si spostava davanti allo
specchio per aggiustarsi l'abito sulle spalle, prima di chiuderlo.
“Eccomi,
signorina.” disse la cameriera, affrettandosi a raggiungerla
e
chiudendole agilmente il vestito. “Avete fatto un'ottima
scelta.”
le disse.
Henriette
era più anziana della cameriera di prima, e sembrava anche
molto più a suo agio in sua presenza, quasi la conoscesse
fin
da quando era piccola.
Guardandola
meglio, Aurora credette di riconoscere nei lineamenti di quel viso la
tata che si prendeva cura di lei e delle sue sorelline quand'erano
più piccole.
Docilmente,
lasciò che la donna le acconciasse i capelli.
“Dunque.”
pensò, certa che la sua fatina le avrebbe risposto.
“Spiegami
meglio la storia delle guide. Sono la stessa cosa della
coscienza?”.
“No.
Non puoi voltare le spalle alla tua coscienza, per quanto tu ti
sforzi, ma puoi voltarle alla tua guida, decidere di non ascoltarla
più. Pensa bene... ti è già capitato
di
sentirmi, quand'eri confusa, quando avevi paura... e ogni volta che
rimuginavi con te stessa.”.
Ad
Aurora non fu necessaria una lunga riflessione per rispondere. Quante
volte si era trovata a confidare i suoi pensieri a un'entità
non meglio definita e poi a sentire dentro di sé una vocina,
quasi impercettibile, che le suggeriva il da farsi?
“Sì,
è vero.” confermò. “Ma non
avrei mai pensato
che...” lasciò la frase in sospeso, e la fatina
annuì
sorridendo.
“L'importante
è che tu ora ci creda, Aurora. Non mi occorre altro. Credi a
tutto quello che ti succederà adesso...poi ti
spiegherò.”.
“D'accordo.”.
Quando
Henriette finì di acconciarle i capelli e se ne
andò,
Aurora si truccò leggermente il viso e scelse qualche
gioiello dal suo portagioie, poi lasciò la stanza, con la
fatina che le svolazzava intorno e le suggeriva il percorso per
arrivare al grande salone dove il resto della sua famiglia
l'aspettava. Quando li raggiunse, Aurora sentì un improvviso
calore nel cuore: ognuno di loro aveva qualcosa che le ricordava i
suoi veri familiari. Riconobbe suo padre nel sorriso aperto
dell'uomo, sua madre nel dolce abbraccio con cui l'accolse, le sue
sorelle nell'espressione degli occhi delle tre bambine. E le voci...
le voci di tutti, esattamente uguali a quelle dei suoi veri
familiari.
“Come
sei bella...” sussurrò la più piccola,
ammirata.
Aurora
sorrise: “Grazie.” rispose, dando alla piccola un
bacio sulla
fronte.
La
famiglia uscì in giardino dove, sul vialetto, aspettavano
due
carrozze. Appena i genitori si furono sistemati in una e le figlie
nell'altra, i lacchè chiusero le porte e i cocchieri
spronarono i cavalli lungo il vialetto e poi sulla strada.
Mentre
attraversavano la città, Aurora non poteva credere di essere
nello stesso luogo che tanto detestava. Era tutto diverso: non solo
per via della neve, che certo da sola bastava a portare una ventata
di magia, ma anche per l'atmosfera: le carrozze procedevano
tranquille, mentre sui marciapiedi gentildonne, gentiluomini e
bambini camminavano senza fretta e alcuni si erano addirittura
fermati a parlare con gli amici o i conoscenti. I lampionieri
cominciavano ad accendere i lampioni lungo i marciapiedi, volgendo
cenni di saluto ai colleghi che incontravano e facendo bizzarrie per
far ridere i bambini, se si accorgevano che questi li guardavano.
“Vedi...
una volta, questa non era una landa desolata.” disse la
fatina,
appollaiata sulla spalla di Aurora.
Alla
ragazza sfuggì un mezzo sorriso all'udire le stesse parole
che
lei aveva usato per descrivere quella città.
“No
davvero...”.
Ad
Aurora parve che la fatina volesse aggiungere qualcosa, ma quella
tacque.
“Fatina,
di chi è il castello dove si terrà la
festa?” chiese
la ragazza dopo un po'.
La
fatina sorrise. “Della tua nonna materna. Dà ogni
anno una
festa così, invita i familiari e i suoi amici più
cari.”.
Incredula,
Aurora voltò la testa, tanto che la sorellina seduta accanto
a
lei sobbalzò leggermente.
“Tutto
bene, Aurora?” le chiese.
La
ragazza sorrise. “Sì, tranquilla.”
rispose, e tornò
a guardare fuori, cercando di impedire alle lacrime di sgorgarle
dagli occhi.
“La
nonna...” pensò. Nel suo mondo, adorava la sua
nonna
materna, che per lei era sempre stata un esempio e una confidente.
Purtroppo era mancata cinque anni prima, quando Aurora aveva
un'età
a metà tra l'essere bambina e l'essere ragazza,
un'età
in cui si comincia a confrontarsi con i dolori grandi e piccoli della
vita.
Ma
lei era sempre rimasta legata al ricordo della nonna... e per il
primo Natale passato senza lei, aveva espresso il desiderio di
vederla ancora una volta, di sentire ancora la sua voce... era stata
una necessità improvvisa e, anche se lei sapeva benissimo
che
non si sarebbe mai potuto avverare, per quell'anno era stato quello
il suo desiderio di Natale.
E
ora, dopo tanti anni, sembrava che si stesse avverando...
Il
castello dove si sarebbe svolta la festa era un magnifico, vasto
maniero ed era stato addobbato ad arte per l'occasione: sullo scalone
esterno era stata stesa una passatoia rossa e all'interno ogni sala
era stata addobbata con festoni rossi, verde scuro e oro. Inoltre
nella sala da ballo, visibile da una porta aperta della sala da
pranzo, troneggiava un magnifico albero di Natale.
“E'
meraviglioso...” pensò Aurora, incantata.
“Benvenuti
cari.” disse una voce femminile.
Il
cuore di Aurora mancò un battito, mentre la ragazza spostava
lo sguardo sull'anziana signora appena apparsa davanti a loro che ora
stava abbracciando sua mamma. Era sua nonna, non c'erano dubbi: non
solo per qualche dettaglio, ma interamente. La voce, il volto, i
capelli, i movimenti, la postura... non c'erano dubbi, quella era sua
nonna, esattamente come lei la ricordava.
Trovarsela
di fronte in quel modo, dopo tanti anni, la lasciò confusa e
un po' spaventata, ma ogni incertezza svanì quando l'anziana
signora abbracciò anche lei.
Quella
era sua nonna, fuori da ogni dubbio.
Sorrise
come non le capitava da tempo e seguì la sua famiglia al
tavolo.
Per
Aurora, quella fu la serata migliore che visse da quando si era
trasferita in quella città.
Complice
la magia del Natale, si sentiva di nuovo viva, libera di essere se
stessa. Il grigiore e la paura che aveva tanto temuto erano lontani,
quasi irreali ormai.
Perché
avere paura del freddo, se dentro un fuoco così grande la
scaldava? Finché ci fosse stato quel fuoco, il freddo coi
suoi
aghi micidiali non avrebbe potuto nulla.
Dopo
la cena, un ragazzo si avvicinò alla sedia di Aurora e,
molto
educatamente, le chiese se avesse voglia di ballare.
“Questo
è un fuori programma.” la avvertì la
fatina, mentre
mangiava un dolcetto nascosta dietro un vaso pieno di agrifogli
sistemato sulla tavola, perché nessuno si accorgesse che la
tortina spariva da sola. “Non è un tuo parente,
non so chi
sia.”.
“Che
importa, è bello come il sole!” rispose Aurora,
mentre si
alzava e accettava l'invito del giovane.
La
fatina finì il suo dolce, poi svolazzò fino alla
sala
da ballo e si appollaiò su una colonna a guardare la sua
protetta che ballava felice.
Era
molto tardi quando Aurora e la sua famiglia lasciarono il castello
della nonna.
Arrivati
a palazzo, fu la mamma a sciogliere l'acconciatura di Aurora e a
spazzolarle delicatamente i capelli, prima di andarsene augurandole
la buonanotte e dandole un bacio sulla guancia.
“Allora,
Aurora... dimmi, come sei stata?”.
“Benissimo.
E' stato il giorno più bello che abbia mai vissuto, da
quando
sono in questa città!” rispose.
“E
la paura del freddo? Il fantasma della landa desolata? Il terrore che
il gelo ti cambiasse?”.
“Come
se non fosse mai esistito.” ribatté Aurora, al
colmo della
felicità.
“Quindi,
se ora tu dovessi tornare indietro...”.
Il
sorriso di Aurora si spense, lasciando posto ad un'espressione
incerta.
“Non
lo so. Qui mi sono ritrovata... c'è stato un momento, in
quella sala, in cui mi sono sentita davvero scaldare il cuore:
eravamo tutti lì intorno al tavolo, a mangiare, ridere,
parlare e in ognuno dei commensali potevo vedere qualcosa che mi
ricordasse i miei veri familiari. E' stato a quel punto che mi sono
resa conto che, finché dentro di me sentirò
questo
calore, finché ci crederò con tutta me stessa, il
freddo non potrà farmi nulla... non potrà
cambiarmi.”.
Aurora
tacque un momento, ma la fatina non disse nulla, certa che la sua
protetta non avesse ancora finito di parlare.
“Però
non so se avrei questa stessa convinzione, una volta messa alla
prova. In fondo, oggi è Natale... e si sa, la magia di
questo
giorno può molto. Ma quando sarà
passato?”.
La
fatina sorrise, indulgente. “Aurora... il ricordo di tua
nonna non
è forse vivo in te, anche se lei non c'è
più? Ed
è vivo perchè tu ci credi, perchè tu
lo proteggi
e lo curi ogni giorno. Perché col Natale dovrebbe essere
diverso? Puoi tenere dentro di te la magia di questo giorno per
sempre e portarla in giro, dove c'è freddo, dove
c'è
indifferenza. Lo sai, non è vero?”.
“Oggi
ho sentito di poterlo fare. Ma se mi stessi montando la testa? Se non
fossi adatta?”.
“Pensa
al tuo nome, cara. Indica la nascita di un nuovo giorno, una nuova
luce, una nuova speranza. Esattamente come il Natale. Tu sei nata per
illuminare la vita di chi ti incontra, tu puoi portare un po' di
calore in quella città tanto fredda. Finché avrai
quel
calore dentro di te, il freddo non potrà nulla.”
Ad
Aurora tornò in mente quando, nella carrozza, le era parso
che
la fatina stesse per dire qualcosa.
“Era
questo che volevi dirmi, prima? Mentre stavamo andando al castello
della nonna?” chiese.
La
fatina annuì. “Sì, sono stata tentata
di dirti tutto
subito. Ma ho preferito aspettare che tu vivessi tutto quanto, che tu
ti rendessi conto da sola di quello che puoi fare, senza essere
influenzata dalle mie parole. Avevi bisogno di crederci, di
ritrovarti da sola... io ti ho solo instradato.”.
Aurora
sorrise, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
“E'
ora di tornare indietro, non è vero?” chiese.
La
fatina annuì. “Sì, Aurora. Chiudi gli
occhi...”.
La
ragazza obbedì e, quando li riaprì, si
ritrovò
nel suo letto.
Era
ormai mattina e tra poco sarebbe stata ora di prepararsi per andare a
prendere il treno e tornare a casa.
Aurora
si alzò e alzò le tapparelle, poi
guardò fuori.
A prima vista non era cambiato nulla: la città
già
formicolava di persone, come sempre a quell'ora.
Believe
in what you feel
insight
And
give your
dreams
the wings to fly...
Ma
lei ora sapeva che le cose potevano cambiare. Di più, lei
voleva che cambiassero... ci credeva.
Spostò
lo sguardo nel parchetto sotto la finestra della sua camera: due
bambini si rincorrevano nel prato, mentre due donne chiacchieravano a
poca distanza da loro.
Era
la prima volta che vedeva una cosa simile in quella città,
la
prima volta che vedeva gente rubare un momento alla vita frenetica
per rilassarsi così.
Sorrise,
si ritirò dalla finestra e cominciò a prepararsi.
Mentre si vestiva, lo sguardo le cadde sulla sua guida, ma quella era
tornata ad essere solo una fatina.
Ma
quando si girò, Aurora sarebbe stata pronta a giurare che,
con
la coda dell'occhio, aveva colto la fatina a farle l'occhiolino.
When
it seems
that
we have lost our
way
We
find ourselves
again on Christmas
Day...
If
you just...
Believe
Dedicata
ad Eleonora.
Angolo
autrice
Ok, non so
come mi sia uscita questa storia.
Pensavo
che ormai era ora di scrivere qualcosa sul Natale e questo è
il risultato...
Non è
decisamente nulla di che, solo una piccola speranza nei sogni del
Natale e nella magia di questo giorno... nel quale, tra l'altro, io
credo profondamente.
Tre
piccole precisazioni: la città non ha nome,
perchè
chiunque possa riconoscere in lei i segni di una città che
non
sopporta e dove è malgrado costretta a vivere. Lo stesso
vale
per la fatina: nemmeno lei ha nome, perchè ognuno le possa
dare quello della sua guida, se già l'ha trovata...
La canzone
che compare nella fanfiction è “Believe”
di Josh Groban.
Grazie a lui per averla scritta e a LadyElizabeth per avermela fatta
conoscere.
Bacioni e
tanti auguri.
* Stelly *
Vincitrice
delle categorie “best
co-protagonista”
e “best plot”
nel settimo turno dei NeverEndingStory Awards
(http://neverendingstoryawards.forumfree.it/),
6 Gennaio 2010
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