Una ZoSan.
Dio, ormai credo di aver dimenticato perfino come se ne scriva una
anche solo decentemente. Ma questo era un tentativo che dovevo fare, lo
dovevo a me stessa.
Detta così sembra ancor peggio della promessa fatta da
quell’idiota a Kuina, quindi vediamo di metter, almeno in
parte, le cose in chiaro.
Questa storia, nata inizialmente come un’unica One Shot,
è stata divisa successivamente in più paragrafi.
Avendo oltrepassato le quindici pagine postarla intera mi sarebbe parsa
come una violenza bella che buona a voi poveri lettori, ragion per cui
ho deciso di suddividerla in più parti.
Un viaggio nel passato del biondo. Non mi son voluta riproporre nulla
di più.
Attraverso dialoghi, attraverso silenzi, attraverso quel rapporto di
odio ed amore che sempre ha caratterizzato i modi di fare fra cuoco e
spadaccino.
---
Run away from nothing.
- Ma non ti fa paura? -
- Cosa? –
- Il non avere più un nome…-
- No. –
- Ma… ma non è un male? –
- No. –
- E perché? –
- Posso essere chi voglio. Quando e come voglio. –
- Oh! –
- Non è un male.
…
Non deve più esserlo. -
Il baule era di legno marcio, graffiato e rovinato in più
punti.
Non era un fatto insolito, negli ultimi tempi, che il cecchino si
scoprisse a lanciargli di tanto in tanto una languida occhiata, per poi
tornare subito dopo sul ponte, con fare disinteressato. La ciurma, o
gran parte di quelli che se n’erano accorti, era arrivata
oramai a farvi un insolito callo.
E le reazioni non erano state epocali, a differenza di quanto Usopp
continuasse a sostenere. Nessuno si era inginocchiato ai suoi piedi
lodandolo e nessun altro aveva urlato sino allo stremo di esser un suo
seguace.
Semplicemente erano rimasti impassibili, divertiti forse
dall’insolita crociata che il ragazzo aveva deciso di
intraprendere.
- Robe da pazzi! Ma non vede come mi è diventata chiara la
lingua? Oh, ma ne sono sicuro! Un altro po’ e
finirà con lo staccarsi esattamente come successe a quel
mostro che sconfissi anni fa! -
- Che mostro, Usopp? –
- Ma come che mostro e mostro, Chopper! Possibile che ancora non ti
abbia raccontato di quel re dei mari che annientai quando avevo sei
anni? – ed ancora una volta, in barba all’imminente
assideramento, la bocca del moro si aprì a dismisura,
abbandonandosi all’ennesimo racconto delle sue gesta.
Da dietro la penisola cucina il cuoco non potè fare a meno
di scuotere la testa, in un vago gesto di disappunto.
Era rimasto a sentire le sue ciarlanate sin dall’alba quando,
con un livido tumefatto sulla nuca ed una coperta di cotone indosso, lo
aveva visto spalancare teatralmente la porta della cambusa e lasciarsi
cadere sulla sedia.
E nonostante avesse preferito di gran lunga non fare domande circa
l’accaduto, si era ritrovato inconsapevolmente a divenire
l’ascoltatore preferito delle avventure del prode capitan
Usopp. Un’altra volta.
- Ancora non si è dato pace? – la lama del
coltello scivolò sul tagliere pigramente, cadendo con un
suono grave. Sanji sollevò il coperchio della pentola,
grande, di proporzioni insolitamente maestose per appartenere ad un
gruppo di semplici sei persone, e lasciò cadere il tritato
nell’acqua in ebollizione. Poi volse lo sguardo al compagno.
- Evidentemente no. – questi di rimando si limitò
ad annuire in silenzio, portandosi languidamente un braccio dietro la
nuca.
- Capisco… - e la conversazione parve troncarsi
lì.
Rimase a fissarlo senza parlare, quasi senza prestare attenzione. Lo
spadaccino volle evitare volutamente di menzionare il verbo
“osservare”. Con il biondo, del resto, aveva smesso
da anni oramai di usarlo.
Stupidamente aveva creduto che poche occhiate potessero dar
complicità, render le cose più chiare ai loro
occhi e per qualche assurda ragione illeggibili a quelli di estranei.
Aveva semplicemente creduto, basta.
In cosa ancora non gli era dato saperlo.
E si era ritrovato così tante di quelle volte a sbattere
contro il muro di indifferenza del biondo, che quasi era arrivato a
stupirsi del fatto che tutte le sue ossa fossero rimaste integre e non
in frantumi, sparse un po’ ovunque.
- Da quando bevi prima di pranzo? –
La sua voce era rimasta calma, ponderata, come se alle spalle di quella
domanda vi fosse stata una semplice constatazione.
Eppure Sanji la sentì scivolare in modo quasi mellifluo
nella stanza e cercarlo forte di quell’ostinazione che sin da
sempre aveva caratterizzato i modi di fare del compagno.
Ed il cuoco seppe, nel profondo, che non furono le sue parole a
scuoterlo, come una presenza invisibile. Vi era dell’altro,
in quella camera, che lentamente stesse incominciando ad infastidirlo.
E fu proprio quell’indefinito qualcosa che lo spinse a
sorridere appena. Un ghigno, uno spacco indifferente delle labbra, che
probabilmente avrebbe voluto nascondere molto più.
- Da quando quel che bevo e quando lo faccio ti crea problemi, marimo?
– non ebbe bisogno di voltarsi per intuire
l’espressione disegnata sul viso del verde. Del resto sapeva
che Zoro poteva diventare una delle persone più irascibili
che avesse mai visto in vita sua. Gli sarebbe semplicemente bastato
sfiorare le giuste corde.
Ed allora provò a sfidarlo; si voltò per
incrociare quelle iridi impenetrabili ed affrontarle ancora una volta.
Eluderle ancora una volta.
Farle divenire grigie come la lega indistruttibile delle sue spade e
fargli capire che era disposto a tutto pur di non permettere
più a nessuno di varcare quella sottile soglia di confine
che era la sua esistenza. Le poche volte in cui lo aveva fatto, del
resto, le cose non erano mai andate per il verso giusto.
Ma ciò che voltandosi vide lo lasciò stupito.
Zoro non stava reagendo, non stava facendo niente per impedirgli di
dilaniare ancora una volta quel nome costruito su una leggenda e
diffamarlo. Zoro era semplicemente immobile, con entrambe le braccia
incrociate al petto e gli occhi fissi sul calice stretto fra le lunga
dita del biondo.
- Che hai combinato? – si limitò a chiedergli.
Il viso del cuoco cambiò improvvisamente espressione.
Sentì quella domanda insinuarsi sin sotto la pelle, diretta,
dilaniante, ed aggrapparvisi quasi come un cancro.
Perché in fondo aveva sperato dentro di sé che
avvenisse una specie di miracolo ed il compagno tornasse alla sua
solita vita; che magari, per qualche assurda legge fisica, si limitasse
ad ignorare la bottiglia alle sue spalle e tornare con lo sguardo fisso
al soffitto, perso nel vuoto.
Ed invece aveva lasciato scioccamente che quella morbosa
incorruttibilità lo invadesse a tal punto da farglielo
rivoltare contro. Dannato spadaccino.
- Niente, idiota. Perché me lo chiedi? – il verde
gli si avvicinò guardandolo dritto negli occhi.
- Sei strano. –
- Sono sempre me stesso. Di strano in questa stanza, ti posso
garantire, che c’è solo il tuo brutto muso.
–
Richiuse lentamente lo sportello del frigo, versò
dell’acqua in un bicchiere e ne prese un lungo sorso. Aveva
bisogno allentare quel poco di l’alcool che ancora gli
circolava in corpo.
La vista aveva incominciato ad esser appannata e le mani, nonostante
fossero assicurate dal sottile cotone delle tasche, davano i primi
segni di tremori.
Si maledisse mentalmente per esser stato talmente idiota da commettere
un errore così banale in sua presenza.
- Sei ubriaco. – constatò semplicemente il
compagno, distogliendo disgustato lo sguardo.
- Sono un cuoco. È mio dovere assicurarmi personalmente di
quello che quotidianamente ti fai entrare nel gargarozzo, bevande
comprese. Qualche problema a riguardo, spadaccino? –
- Figurati! Puoi anche strozzarti con quello che bevi per quel che mi
riguarda! – lo conosceva da esattamente due anni e sapeva con
certezza le conseguenze a cui quell’ultima affermazione
avrebbe portato.
Si passò appena la lingua sulle labbra, ad inumidirle,
pregustando il sapore del sangue scorrergli sulla pelle sino ad
insinuarsi nei pensieri. Lottare era forse la cosa che meglio li
accomunasse del resto, li si addiceva bene quanto le spade o il fumo.
Ma le sue speranze, quella fredda mattina, parvero perdersi inutilmente
nel silenzio della stanza. Scosso ancora, seppur impercettibilmente,
dal rumore della porta che il cuoco, uscendo sul ponte, aveva
spalancato.
- Al diavolo, marimo! - e la conversazione parve concludersi
lì.
Ancora una volta.
L'erba dell’agrumeto si incrinò mestamente sotto
il peso delle sue suole, scricchiolando e spezzandosi in piccoli
scoppi. Fuori nevicava.
Nevicava sempre su quelle terre dimenticate persino da dio, non era di
certo una novità.
Il paesaggio era spento, lugubre e con quella poetica vena di
malinconia che forse, in passato, lo avrebbe spinto a sedersi sulla
neve e continuare a fissare l'orizzonte, stranito.
Alzò gli occhi al cielo e rimase ad osservare un punto
indefinito oltre le nuvole, nei brevi sprazzi di luce fra il turbinio
del nevischio.
Cercava ancora di ricordare che sensazione dovesse dare il calore del
sole sulla pelle. Ma la pallida luce che splendeva su di lui non poteva
riscaldarlo, niente di quel luogo avrebbe probabilmente più
potuto farlo.
Si arrese ed abbassò nuovamente la testa continuando a
camminare.
Sentiva l'alcool scorrergli in corpo, sentiva la pelle sudata, gli
occhi lucidi ed il calore prenderlo completamente. Eppure sentiva anche
freddo, un gelo che partiva dal cuore e si diffondeva rapidamente in
tutto il suo corpo facendo contrasto con il calore procurato
dall'alcool.
Scosse la testa, con fare liberatorio, mentre nella sua mente una
gelida consapevolezza aveva incominciato a farsi strada, annusando
l’aria speranzosa.
E la certezza di esser tornato a casa, dopo così tanti anni,
gli diede un ulteriore brivido, scivolando con voluttuoso piacere in
ogni singola parte di sé. Credeva di aver dimenticato tutto,
invece ricordava anche il più piccolo particolare.
Cercò con la sinistra il peso familiare delle fedeli bionde
in una delle tante tasche del completo.
Sentiva il bisogno, folle ed inaspettato, di rivolgere la propria
attenzione altrove, a qualsiasi cosa che non fosse quella landa bianca
e luminosa. Aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa che
gli impedisse di sprofondare nelle tenebre più nere.
Quelle stesse che così tanto gli aveva rimproverato, in
passato, e che ora sentiva invece trascinarlo a se. Adesso le
percepiva, le poteva scorgere nitidamente nei contorni sempre
più nitidi e sicuri della costa.
Adesso, per la prima volta dopo un decennio, sentì di
doverle temere.
Prese un lungo respiro e poggiando la fronte contro il legno della
porta in un gesto stanco, dai tratti forse esasperati, si
limitò a sussurrare appena il nome della compagna.
E quando una voce da dentro la camera gli rispose semplicemente di
entrare, si sentì quasi sollevato. Il freddo adesso gli dava
tremendamente fastidio, l'effetto dell'alcool non era più
tanto forte.
Entrò nella cabina e fu avvolto dal silenzio e dal lieve
bagliore di una candela, posta nel punto più alto della
stanza. L'oblò era chiuso, la minuscola tendina tirata.
Sembrava non esserci nessuno.
- Nami-san? Ti ho portato un po’ di buon the, un toccasana
con questo gelo. – poggiò il vassoio sul tavolo
della stanza, con un movimento oramai meccanico delle mani. E si
stupì quasi lui stesso della sicurezza di cui avesse voluto
impregnare quel gesto, della forza con cui lo stesse ripetendo ancora
una volta.
Ma la navigatrice non era di certo una sprovveduta e Sanji era conscio
che ingannarla, anche se per brevi secondi, sarebbe stata una delle
cose più difficili da fare. Era qualcosa che andava
semplicemente contro natura del resto; le sue labbra glielo avrebbero
anche potuto permettere ma il cuore, alimentato da
quell’indomabile spirito cavaliere, si sarebbe limitato a
frenare le sue parole, rimandandole indietro.
- Umph… - alzò lo sguardo verso il fondo della
stanza riuscendo ad intravedere unicamente il baldacchino.
Non era nulla di particolarmente sofisticato, solo un insieme mal
assortito di assi e legname che con qualche coperta la notte fungeva da
letto. Sicuramente non il massimo dell’eleganza per una
ragazza di grandi pretese come la navigatrice ma, con altrettanta
certezza, decisamente più comodo delle brandine logore e
consunte su cui i ragazzi erano costretti ogni sera a far ritorno.
- Tutto bene? – chiese con premura, come qualsiasi altra
volta.
Nami si tirò su fra le coperte, stringendosi con fare
infantile nella lana grossolana delle imbottiture. Poi, lanciando una
semplice occhiata di rimando al cuoco, si limitò a
sussurrare:
- Si gela. – il biondo sorrise appena, rassicurato. Stava
bene.
- Le temperature sono effettivamente scese di parecchio. Ma non ti
preoccupare, mio dolce fiore! Il tuo Sanji penserà a
mantenerti al caldo ed al sicuro ed al… -
- Sanji…? –
- Sì, biscottino? –
- Stai zitto per favore. – ed il suo tono non ammetteva
alcuna replica.
Il cuoco sospirò appena, un movimento sufficiente a far
turbinare impercettibile l’aria attorno a sé, e si
lasciò cadere stancamente su una sedia. Alzò gli
occhi al cielo e rimase a guardare il soffitto, assente.
Nonostante fosse abituato a far fronte a qualsiasi tipo di clima il
freddo di quelli ultimi giorni, non potè negare, era
divenuto particolarmente fastidioso. Gli sembrava quasi di sentirlo
entrare dentro le ossa, nei muscoli e nella carne fino infine riuscire
a sfiorare le viscere.
Si strinse con fastidio nelle spalle quasi come se non fosse
più abituato ad anni ed anni di quel freddo pungente.
- Non ti manca? – quella domanda arrivò
graffiante, sicura.
Sanji chinò appena un po’ di più lo
sguardo, quasi per accertarsi di non aver stupidamente immaginato anche
quel suono. Non rispose, sapeva che non ve ne sarebbe stato bisogno del
resto.
Le parole delle navigatrice, anche le più leggere, non
nascevano mai per puro caso; non si limitavano a sfiorare e basta. Ma
entravano, prepotenti, nella fonte di interesse della ragazza,
sgretolandola pezzo dopo pezzo, frammento dopo frammento. E se alla
fine di quelle costruzioni maestose rimaneva ancora qualcosa di cui
poter far vanto allora se ne appropriavano, con ingordigia.
Potevano esser vuote, monotone, austere. Ma Sanji sapeva che mai, per
alcuna ragione al mondo, sarebbero potute esser prive di motivazione.
- Cosa? – si limitò quindi a chiedere, senza
più alcun infingimento.
- La tua isola. – per un attimo nel suo sguardo comparve il
riflesso dello stupore.
- Dovrebbe? – non era stato un tono cordiale il suo, non si
era limitato ad essere una semplice constatazione.
E fu solo un’amena impressione del biondo il peso di quello
sguardo che parve trafiggerlo, come una lama incerta, quasi non sapendo
dove esattamente colpire.
- Non credo, visto che ancora non mi hai proposto di deviare le rotta
per approdarvi. Sempre a patto che la Merry necessiti di deviare la
rotta per farlo. - ma erano occhi sicuri quelli di Nami. Occhi che
conoscevano i punti esatti da sfiorare per far tremare le gambe del
biondo ed obbligarlo a cedere e parlare.
Occhi che, per la prima volta, il giovane cuoco di bordo parve fare il
possibile per evitare.
- La cambusa è ben fornita. Non è necessario che
scenda anche tu questa volta. –
- Ma crostatina! Non dirmi che sei preoccupata per la mia salute! Sai
che uomo forte sia il tuo Sanji-kun, n… -
- Ho semplicemente detto che se non vuoi scendere questa volta non sei
obbligato. – mai, per alcuna ragione al mondo, sarebbero
potute esser prive di motivazione.
Rimasero in silenzio a guardarsi semplicemente in volto, a scrutarsi
alla ricerca di qualsiasi appiglio a cui aggrapparsi per poter
sopraffare l’altro.
E la consapevolezza, l'assoluta certezza, di aver lasciato ancora una
volta la propria cavalleria sopraffarlo, sino a costringerlo con le
spalle al muro, fu quell'indefinibile qualcosa che questa volta spinse
i passi del biondo fuori, nuovamente verso l'uscita.
- Fra dieci minuti è pronto. Dirò agli altri di
aspettarti, Nami-san. – La prima, grande, crepa aveva appena
visto la luce nella sua maschera perfetta.
|