A few simple fairytales

di Feel Good Inc
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Quello che pubblicherò ora è uno degli esperimenti più stimolanti che mi abbiano mai spinta alla scrittura, ma se devo essere sincera non mi aspetto una gran riscossione di pubblico

Quello che pubblicherò ora è uno degli esperimenti più stimolanti che mi abbiano mai spinta alla scrittura, ma se devo essere sincera non mi aspetto una gran riscossione di pubblico. ^^’

Si tratta delle 7_crossovers. Si sceglie una serie di prompt, si prendono sette pairing da fandom diversi, et voilà. Ho sempre avuto voglia di scrivere una crossover, ma puntualmente mi mancavano l’ispirazione o i personaggi giusti. Ora però l’idea (più o meno giusta, il giudizio spetta a voi) è venuta: puff! Ed ecco qui il primo capitolo.

Il motivo per cui asserisco – con convinzione – che non mi aspetto nulla da questa raccolta è molto semplice. I pairing su cui si incentreranno le mie shot saranno indubbiamente molto strani. Alcuni non convincono neppure me per prima. Per cui, non sarò sorpresa se resterete perplessi. Ecco tutto. xD

Eppure ho deciso di pubblicare comunque i risultati, perché stavolta la sfida mi piace troppo da lasciarmi abbattere dalla solita “paura da palcoscenico”. :P Ovvio che, se invece la raccolta piacerà, mi renderete la ficwriter più soddisfatta sulla faccia del pianeta! *-*

Vi lascio dunque con il primo capitolo della tabella che ho scelto, incentrata sui classici Disney. Eccola qui:


1. Cindere
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2. The Little Mermaid
3. Snow White
4. Sleeping Beauty
5. Peter Pan
6. 101 Dalmatians
7. Beauty & the Beast

 

Un milione di grazie in anticipo a tutti i lettori! :3

 

 

 

 

 

* * *

 

 

 

 

 

*A few simple fairytales*

 

 

Prompt: #5. Peter Pan

Personaggi: Near [Death Note], Sora [Kingdom Hearts]

Genere: Introspettivo, Malinconico

Rating: Verde

Note: AU (vale solo per Sora), Shounen-ai (appena accennato)

 

 

 

 

 

Di tutti i ragazzi dell’orfanotrofio Wammy, Sora era sicuramente il più strano.

Non che ci fosse qualcosa di anomalo in lui. Era un ragazzino allegro, solare come pochi ed estremamente espressivo; non si faceva problemi nell’esporre sempre chiaramente ciò che provava o pensava, e non si chiudeva mai in se stesso, come ci si sarebbe potuti aspettare da un qualsiasi altro bambino sopravvissuto all’incidente che aveva stroncato la sua famiglia.

Sora era normale. E proprio in questo stava la sua diversità.

 

Non sapeva se invidiarlo, ammirarlo o che altro. Non riusciva a concepire la sua visione ottimistica e positiva delle cose, eppure ne era anche affascinato. Con lui era sempre così.

Erano completamente diversi, Nate e Sora. Due opposti che senza un vero motivo si erano attratti. Come il giorno e la notte, indipendenti ma complementari, un binomio indissolubile di elementi speculari. L’uno era l’immagine al contrario dell’altro, il suo negativo – il suo amico.

 

Era cominciata sette anni prima, all’arrivo di Nate in orfanotrofio.

Per alcuni giorni il terremoto dagli occhi blu lo aveva studiato, senza forzare il suo silenzio, il suo essere così dissimile da lui. Sembrava quasi incuriosito dal bambino taciturno con gli occhi grandi e scuri, che se ne stava lontano da tutto e da tutti torcendosi i capelli chiarissimi e rifugiandosi nell’unica compagnia di pochi giocattoli logori.

Lui aveva ricambiato l’esame, senza alcun vero interesse; più che altro perché gli occhi erano fatti per guardare, e la visione e la comprensione delle cose era praticamente l’unica costante della sua esistenza solitaria e silenziosa.

Un giorno, Sora si era seduto al suo fianco e aveva iniziato a passargli le tessere del suo puzzle preferito.

Nate l’aveva guardato senza parlare, vedendolo forse per la prima volta. E non lo aveva allontanato. Aveva soltanto accettato l’aiuto sorridente della sua manina paffuta.

Da allora, non erano mai stati separati.

Da allora, non era ancora riuscito a capirlo.

 

«Perché mi guardi così? Ho qualcosa sulla faccia?»

Sì che aveva qualcosa sulla faccia. Aveva quel sorriso. Aveva quello sguardo felice. E non si rendeva conto di quanto questo lo rendesse [speciale] diverso dagli altri bambini e soprattutto da lui.

Sora diceva spesso che Nate era in bianco e nero, mentre lui era a colori. Lo diceva ridendo, come poteva dirlo un tredicenne troppo giocoso da dare peso alle proprie parole, o da rendersi conto di quanto fossero vicine al vero. Nate non sorrideva mai a quella battuta. Sapeva che in fondo non era altro che una realtà, una considerazione assolutamente oggettiva. Molto più realistica delle storie fantasiose che Sora amava raccontare, a modo suo, a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo.

 

«Quando sulla Terra una mamma non vuole un bambino, quello finisce nel Mondo Che Non Esiste. È un posto lugubre e spaventoso, e i bambini perduti hanno il compito e il desiderio di renderlo migliore. Per questo motivo ogni notte vengono a visitare i sogni dei bimbi tristi e li colorano di allegria: perché ogni bel sogno porta nel loro buio un raggio di sole.»

 

Seduto sul davanzale della finestra spalancata, nel dormitorio addormentato, le mani intrecciate dietro la nuca, la maglietta cascante sulle spalle magre, i piedi nudi dondolanti. Faceva vivere quelle immagini a bassa voce.

Lui ascoltava ogni sua parola, accovacciato ai suoi piedi con gli occhi spalancati nella penombra. Qualche volta s’illudeva persino di crederci.

Ogni notte, una storia.

 

«Ehi, Near.»

Una breve attesa.

«Un giorno ce ne andremo da qui, e viaggeremo insieme nei posti più incredibili, fino al Mondo Che Non Esiste e anche oltre.»

La sua voce era sicura, fiduciosa. Una luna spietatamente piena gli illuminava gli occhi sognanti, riempiendoli di stelle. Lui ci credeva davvero.

Le dita di Nate corsero istintivamente ai capelli.

«Siamo orfani, Sora. L’unico modo che abbiamo per andarcene di qui è essere adottati.»

Si voltò a guardarlo con una linguaccia. Tutt’intorno, i respiri regolari dei compagni addormentati.

«E allora? Potremo farlo lo stesso.»

Quella notte Nate si concesse un sorriso. Anche con Sora, non sorrideva quasi mai.

Strinse le dita attorno ad un vecchio pupazzo meccanico, il primo robot con cui ricordasse di aver giocato, sette anni prima.

«Quando accadrà, non saremo più insieme.»

Una lunga attesa.

Sora schizzò via di colpo dalla finestra, come se si fosse scottato. Venne ad accovacciarsi di fronte a lui. Si aggrappò alla manica del suo pigiama, costringendolo ad alzare lo sguardo.

Era imbronciato, come un bambino. Il che non capitava spesso.

«Non permetteremo che succeda. Noi due saremo sempre insieme. Non vado da nessuna parte senza di te.»

[Non c’era nessun posto dove sarebbe voluto andare senza Sora.]

Sora con le sue favole, la sua allegria, la sua straordinaria capacità di non ancorarsi al rimpianto o al ricordo del passato perduto. Sora con la sua risata incontrollabile, la sua scarsa attitudine al buonsenso, i suoi capelli impossibili e il cielo negli occhi. Sora e la sua voglia di volare.

Sora era pur sempre un ragazzino solo.

[Proprio come lui.]

Si sollevò sulle ginocchia. Era tempo di dormire. Gli si accostò, avvicinò le labbra alla sua fronte.

«Buonanotte, Sora.»

Lo sentì sorridere, imbarazzato, felice.

«Buonanotte, Near.»

 

Era stato lui a dargli quel soprannome.

«Anche quando saremo grandi, anche quando saremo lontani, sarai sempre vicino a me.»

 

La cosa più bella di quel ragazzino troppo normale era che trovava sempre il modo di mantenere le sue promesse.





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