Vattene
Cerca di dimenticarti di noi due
Riusciremo ad andare avanti
Solo se non ci vedremo più
Vattene
Vattene
I giorni passano
Senza essere
qui…
***
“Ci
siamo incontrati
solo un paio di volte.”
“Siamo diventati amici, tutto qui.”
“Non ho avuto modo di conoscerla molto bene, ma mi
è sembrata una bella
persona.”
“No, non ci siamo più visti, da quella
volta.”
“Purtroppo
il mio
lavoro mi impedisce di mantenere i contatti con tutta la gente nuova
conosco,
quindi non penso ci rivedremo.”
Tom aveva perso il conto delle volte
che aveva ripetuto
quelle frasi, davanti a giornalisti e intervistatori vari. Ormai era
passato un
anno da quando aveva conosciuto Norja, ed era diverso tempo che
l’interesse
mediatico verso il loro incontro era scemato, ma all’inizio,
subito dopo che si
erano separati, né lui né lei avevano avuto
tregua, tra domande invadenti,
supposizioni e congetture dilaganti, insorgere di fans inacidite dal
sospetto
che qualcuna potesse rubarsi il loro chitarrista preferito.
Tom aveva tentato di mettere le cose
in chiaro, più e più
volte, ed era certo che lo avesse fatto anche lei. Qualcuno aveva
creduto alla
storia del ‘solo amici’, qualcuno no, ma, in ogni
caso, senza ulteriori prove
che lui e Norja si frequentassero, alla fine il polverone si era
diradato, fino
a scomparire del tutto. L’unica cosa rimasta del loro
incontro erano pochi
scatti rubati di loro due che discutevano fuori dal Crimson e un paio
di
articoli insinuanti.
Nient’altro.
Tutto ciò che Tom sapeva
di lei era quello che leggeva sulle
riviste, vedeva in TV, sentiva dai pettegolezzi. Lei era stata a Los
Angeles,
negli ultimi mesi, a seguire le riprese del primo film dedicato ai suoi
libri.
Lui c’era stato due volte, a Los Angeles, in quel periodo, e,
nonostante lo
avesse sperato, non la aveva mai incontrata.
L’aveva cercata,
però. In ogni ragazza che avesse dei
capelli rosso vermiglio, o un abbigliamento poco consueto, o degli
occhiali da
sole che le nascondessero il viso come lei era solita nasconderselo
dietro la
sua maschera. Per quanto ci avesse provato, non l’aveva mai
trovata. E le altre
che aveva conosciuto gli erano più o meno piaciute, ma erano
poche e il
problema era sempre lo stesso: non c’era tempo per
innamorarsi.
Per una aveva addirittura pensato di
provare qualcosa, ma
poi, come al solito, era arrivato il momento degli addii, e lui si era
reso
conto che non avrebbe sentito la sua mancanza come aveva voluto credere.
La mancanza di Norja,
però, la sentiva ancora.
Era brutto essere di nuovo
lì a Berlino, un anno esatto dopo
averla incontrata per la prima volta, e dover fare tutto come se lei
non fosse
mai esistita. Aveva sorriso nel photoshoot che avevano fatto a Schloss
Charlottenburg. Aveva sorriso all’intervista per MTV che era
seguita. Aveva
perfino sorriso alla manciata di fans raccomandate che avevano avuto
accesso al
set. Non era riuscito a sorridere quando Bill, Gustav e Georg lo
avevano
guardato con quell’aria compassionevole e nostalgica.
Ora se ne stava lì, seduto
dietro a un tavolo all’ultimo
piano dell’Europacenter, a firmare autografi su autografi per
una fila infinita
di fans che si accalcavano davanti a lui come insetti affamati su un
brano di
carne cruda.
Non aveva nemmeno idea di quanto
tempo avesse passato a
scarabocchiare quei maledetti poster, ma gli sembrava
un’eternità.
Probabilmente più tardi gli sarebbe toccata una strigliata
per quel malumore
che stava ostentando, ma non gli importava. Aveva solo voglia di
alzarsi ed
andarsene.
“Me la potresti fare una
dedica personale?”
Non si degnò nemmeno di
sollevare lo sguardo. L’ennesima fan
pretenziosa che voleva qualcosa di speciale.
“Nome?” chiese in
tono incolore, la punta del pennarello già
pronta sul poster.
“Kels.”
Che cazzo di
nome è
Kels?, si domandò Tom, iniziando a scribacchiare
distrattamente: ‘A Kels,
Tom’.
“Sta per Kelly.”
Lo informò la ragazza, come se gli avesse
letto il pensiero.
Tom si gelò sul posto.
Non
può essere,
pensò, ma la sua testa stava già abbandonando il
poster per sollevarsi sulla
ragazza che aveva di fronte. Dapprima vide i jeans scuri, poi un
maglione
grigio piuttosto largo, un cappotto nero, poi una catena argentata, una
voluminosa sciarpa rossa, infine un viso pallido. Erano castani i
capelli che
lo incorniciavano, ma gli occhi che lo illuminavano erano
inconfondibilmente,
intensamente, dolorosamente neri. E le sue labbra rosse sorridevano.
“Ucraina?”
Tom non riuscì a
controllare il volume della propria voce.
Molte teste si voltarono incuriosite, anche se di per sé
quell’esclamazione
aveva ben poco significato, per tutti loro. Bill, Gustav e Georg,
invece, guardavano
la ragazza a bocca aperta, del tutto dimentichi degli autografi.
“Vedo che non hai perso il
senso dell’umorismo, SNF.”
Tom non era proprio sicurissimo di
trovarsi in una scena
reale. Era un’assurdità: lei non poteva essere
lì, adesso, davanti a lui. No,
non poteva essere. Lo aveva sperato troppe volte, e non era mai
successo. Non
poteva essere vero.
“Sei davvero tu!”
Le braccia conserte, Norja
sollevò sarcasticamente un
sopracciglio.
“Così
pare.”
Era lei. Era lei davvero.
“Cosa cazzo ci fai
qui?”
Altra alzata di sopracciglio:
“Non è
chiaro?”
“No, intendo in mezzo a
tutta questa folla!”
“Sono una fan, no?” fece lei con
ovvietà. “Faccio la coda come tutti.”
Tom era esterrefatto. Lei, che come
se nulla fosse, se ne
andava tranquillamente a fare la coda per un autografo… Che
senso aveva? Era
come se lui si fosse messo in coda per farsi autografare un CD da Bill.
“Tu non dovevi fare nessuna
coda, sarebbe bastato
avvisarci!”
Lei distese le labbra in un sorriso
rigido.
“E come? Telefonavo alla
Universal e dicevo ‘Salve, sono un’emerita
sconosciuta. Mi potrebbe fissare un appuntamento privato con i Tokio
Hotel, per
cortesia?’?”
“Tu non sei
un’emerita sconosciuta!”
Norja si limitò a
sorridere amaramente, scuotendo la testa.
Tutt’intorno stava scoppiando il finimondo: la security non
sapeva più come
tenere a bada la folla di ragazze curiose, e le ragazze stesse erano
esplose in
un attacco di borbottii più o meno sommessi, cercando di
capire cosa stesse
succedendo e chi fosse quella sconosciuta con cui Tom stava parlando.
Tom, dal canto suo, era completamente
estraneo a tutto ciò.
“Sei qui a
Berlino?” domandò ansioso a Norja, quasi temendo
che lei potesse smaterializzarglisi davanti da un momento
all’altro.
“Solo per poco.”
“Alloggi ancora al –?”
“Tom, la
prossima.” Lo esortò sgarbatamente uno dei
bodyguard alle sue spalle.
A quel punto, Norja gli
sfilò praticamente il poster dalle
mani. Tom non ebbe nemmeno la prontezza di sollevare il pennarello
dalla carta,
così l’immagine fu sfigurata da una lunga riga di
indelebile argentato.
“Ci vediamo,
Tom.” Lo salutò Norja, come nulla fosse, e gli
volse le spalle. Solo che Tom non era dell’idea di lasciar
correre un’altra
volta.
Col cavolo
che mi
molli così un’altra volta!
“No! Danimarca,
aspetta!”
Saltò in piedi senza
riflettere e fece per lanciarsi in
avanti e trattenerla, ma le guardie del corpo furono più
veloci e lo fermarono
appena in tempo.
“Tom, dove credi di
andare?”
Lei non si voltò nemmeno a
guardarsi indietro, anche se lui
era sicuro che lo avesse sentito chiamarla. Impotente, vincolato dalla
salda
presa dei due uomini, Tom fu costretto a desistere. Era il suo lavoro,
dopotutto. Si accasciò quindi sulla sedia, svuotato
bruscamente di ogni sensazione.
Ci vollero diversi minuti prima che l’ordine
all’interno della sala fosse
ripristinato, ma alla fine la sessione di autografi riuscì a
proseguire.
“Chi era quella?”
ebbe il coraggio di domandargli qualche
fan particolarmente sfacciata.
Lui non rispose.
Non l’avrebbe perdonata per
questo suo scherzo.
No, questa volta non le avrebbe
permesso di passarla liscia.
***
Era una cazzata, lo sapeva.
Erano già passate due ore
da quando Norja aveva lasciato
l’Europacenter e lasciato Tom con un palmo di naso in balia
del proprio
destino. Era davvero stupido pensare che lei fosse veramente
lì al Ritz e
ancora più stupido era illudersi che sarebbe riuscito a
ottenere una
conversazione decente con lei. Però valeva la pena di
tentare.
Pagato il taxi, Tom scese
dall’auto, trascinandosi dietro
una cosa non di certo sua che però, in un modo o
nell’altro, aveva con sé da
ormai un anno. Entrò nella hall dell’hotel a passo
sicuro, ma con un tale
tumulto nascosto dentro che a stento si sentiva in grado di mettere
insieme una
frase di senso compito. Era nervoso, e arrabbiato, ed era tutta colpa
di Norja.
Quando lo vide arrivare,
l’uomo che stava al bancone della
reception ebbe un fugace attimo di stupore, che mascherò
rapidamente con un
sorriso cordiale:
“Buonasera.”
“Salve.” Ricambiò Tom, indeciso sul da
farsi. Non era riuscito ad elaborare un
vero e proprio piano durante il tragitto dall’Europacenter a
lì. Tutto quel che
sapeva era che voleva trovare Norja.
“Ehm… Forse lei
si ricorda di me. Sono Tom Kaulitz, alloggio
spesso qui con la mia band. Un anno esatto fa eravamo qui.”
“Né io né il mio personale di pulizie
lo abbiamo dimenticato.” Rispose l’uomo,
con un bagliore ilare negli occhi.
“Senta, so che le
sembrerà strano, ma… La vede questa?”
Sollevò la cosa che teneva in mano per fargliela vedere
bene. “È la stessa
giacca che avevo con me l’anno scorso e dovrei proprio
restituirla alla
proprietaria.”
L’uomo assunse
un’espressione incredula:
“Lei se ne va in giro da un
anno con questa giacca e non è
ancora riuscito a restituirla?”
“Lo so che può sembrare strano, ma è
così.”
Stranamente, diversamente
dall’anno prima, questa volta il
direttore sembrava disposto a collaborare.
“Il nome della signorina, prego?”
“Kelly.” Rispose Tom, soddisfatto di conoscere
finalmente la risposta giusta a
quella maledetta domanda. “Kelly Devenpeck.”
L’uomo parve quasi
dispiaciuto di sentire quel nome, come se
fosse una conferma a un timore che già aveva.
“Mi dispiace, ma la
signorina ha liberato la stanza due ore
fa.”
Fu come se il mondo, da lucente e
colorato e pieno di belle
speranze, fosse improvvisamente precipitato
nell’oscurità assoluta.
No, no, no,
no,
cazzo!, imprecò fra sé, già preso dal
panico. Vaffanculo, brutta stronza!
“Ha detto di essere Tom
Kaulitz?”
“Sì.” Boccheggiò Tom, a
malapena conscio di ciò che gli era stato chiesto. Con
una faccia seria, l’uomo si voltò verso la mensola
dietro di sé e prese
qualcosa.
“La signorina Devenpeck ha
detto che probabilmente sarebbe
passato.”
Tom restò immobile per un
momento, letteralmente
pietrificato. Non sapeva esattamente come si stesse sentendo, se
più ferito, o
offeso, o furioso, o deluso.
Tu lo
sapevi, sbottò
contro Norja. Sapevi che sarei venuto, e
te ne sei andata lo stesso.
forse lo sapeva come si sentiva: preso in giro.
“Ha lasciato detto
qualcosa?” domandò, la bocca
insopportabilmente asciutta.
“Veramente no.
Però mi ha pregato di darle questo.” E gli
porse una busta bianca.
Perplesso e morbosamente curioso al
tempo stesso, Tom, la
mano tremante, afferrò il biglietto ripiegato in quattro e
lo aprì.
‘Sei
prevedibile, SNF.
Spero che tu non ti sia fatto idee strane su stamattina. Volevo solo
rivederti,
nient’altro. Ammetto che ogni tanto mi manchi, ma il mio
lavoro a maglia mi
tiene abbastanza sana di mente (astieniti da commenti simpatici, per
favore) da
non farmi perdere la connessione con la realtà. Per quel che
vale, mi dispiace
davvero per come mi sono comportata con te, un anno fa. Che tu ci creda
o meno,
mi è sempre rimasto l’amaro del rimpianto in
bocca, da allora. Grazie
dell’autografo, a proposito, a te e al resto della banda
Disney. Ah, piccola
nota cultural-grammaticale: Kels si scrive senza H. Ad ogni modo,
statemi bene
tutti quanti. Magari ci si rivede, qualche volta.’
Tom non seppe cosa lo trattenne dallo
scoppiare. Aveva
appena scoperto di essere in grado di provare una gamma di emozioni
contrastanti infinitamente più vasta di quel che aveva
sempre creduto.
“Tutto qui?”
L’occhio destro
dell’uomo ebbe un fremito impaziente.
“Signore, questo è un hotel, non
un’agenzia di pubbliche relazioni.”
Tom sospirò, chinando la
testa impotente.
Sì,
sì, ho capito…
“Ho sentito
l’uomo che era con lei che parlava di qualche
appuntamento ad Amburgo,” gli riferì una donna
sulla settantina che sedeva a
uno dei tavolini della hall con un caffè in mano, assieme ad
un paio di amiche.
“Ho avuto l’impressione che dovessero prendere un
treno.”
Tom si rianimò in un
attimo, ma la situazione non era poi
migliorata di molto
Un treno. C’erano
un’infinità di stazioni ferroviarie a
Berlino. Non sarebbe mai riuscito a trovarla in tempo.
“Cazzo!”
“Non sia volgare,
giovanotto!” lo rimproverò un’altra
delle
signore.
“Non sgridarlo,
Gerta!” intervenne la terza. “Non vedi che
il ragazzo è innamorato?”
Tom si sentì sbiancare,
uno strano ronzio sordo nelle
orecchie.
Cos’è
che sono?
La donna si voltò verso di
lui con un enorme sorriso rugoso.
“Ho sentito che dicevano al
tassista di andare a
Friedrichstraße, caro!”
Friedrichstraße…
Non aveva la minima idea di dove fosse. O
forse ce l’aveva ma non riusciva a ricordare. Ma non aveva
importanza, avrebbe
comunque preso un taxi per arrivarci.
Forse c’era ancora una
speranza.
“Grazie!” disse
alle signore, stritolandosi il foglio
lasciato da Norja tra le dita.
“Però faresti
meglio a sbrigarti,” lo avvertì la prima
vecchietta. “Sono partiti un’ora fa!”
Merda!
***
Tom, nella sua scarsa
lucidità, non aveva smesso un secondo
di ripetere a se stesso che, una volta portata a termine quella pazzia,
sarebbe
stato consigliabile farsi internare in un ospedale psichiatrico,
perché non
sapeva bene nemmeno lui cosa diavolo stesse facendo e soprattutto
perché.
Prima la corsa in taxi fino alla
stazione ferroviaria di
Friedrichstraße, poi la lotta contro il tempo per orientarsi
in quel dannato
labirinto di scale e binari, poi ancora l’individuazione del
treno giusto e la
corsa per saltarci sopra appena prima che le porte si chiedessero. O
meglio,
non era proprio sicuro che fosse proprio quello il treno giusto, ma era
l’unico
che partisse per Amburgo e dunque l’unico su cui avesse senso
puntare.
Ovviamente non aveva avuto il tempo
di comprare un biglietto,
ma quello era l’ultimo dei suoi problemi. Stava risalendo il
treno dall’ultima
carrozza, perlustranolo palmo a palmo per cercare di individuare un
volto noto.
Sarebbe stato tutto molto più semplice se Norja avesse avuto
ancora quegli
assurdi capelli rosso fuoco. La gente non badava a lui,
perché per fortuna
erano quasi tutti professionisti che si spostavano per lavoro, ma, a
giudicare
dagli sguardi, qualcuno lo aveva senz’altro riconosciuto.
A metà del terzo vagone,
il cellulare gli vibrò in tasca. Tom
le recuperò automaticamente e se lo portò
all’orecchio.
“Tom, dove cazzo
sei?!” strillò la voce isterica di Bill,
prima che lui potesse anche solo dire ‘Pronto?’.
“Ah,” Tom continuò ad avanzare
attraverso i sedili, scandagliando
speranzosamente ogni singolo passeggero. “Non ci
crederesti.”
“Mettimi alla prova.”
Tom si leccò le labbra
incerto.
“Su un treno per Amburgo.”
“Un cosa per dove?!” sbraitò
Bill, dall’altra parte. “Tom, sei mi stai prendendo
per il culo, io –”
“Sto cercando Norvegia
Nera.” Sospirò Tom, continuando
imperterrito a cercare.
“Lilli? Credevo fosse al Ritz.”
“Lo credevo
anch’io, ma lo sai com’è fatta quella.
Non è mai
dove dovrebbe essere.”
“E adesso cosa pensi di
fare?” chiese Bill, tutto eccitato.
“Non ne ho idea. Cioè, devo setacciare il treno,
suppongo.”
“Come sai che è
lì?”
Tom si morse un sorriso tra le labbra.
“È una lunga storia.”
“Oh, Tomi, è
così romantico quello che stai facendo!”
“Lo vedrai come
sarà romantico appena la trovo!” sbottò
Tom,
passando alla carrozza successiva. “È stata
proprio una stronza a venire alla
signing session e poi sparire così! Avrebbe almeno potuto
–”
Il sangue di Tom defluì da
ogni parte del suo corpo per
concentrarsi tutto sul viso. La mano che reggeva il cellulare si
abbassò inconsciamente
e lo infilò in tasca, senza neanche chiudere la chiamata.
Un paio di occhi neri come il carbone
lo fissavano sgranati
da dietro ad un paio di occhiali rettangolari.
“Tom?”
Era lì.
Norja era lì, davanti a
lui, seduta accanto al finestrino con
un grosso libero in mano e la vaporosa sciarpa rossa della signing
session
avvolta attorno al collo.
“Scozia!”
Solo adesso che la aveva di fronte,
Tom si rendeva conto di
non aver mai creduto veramente che sarebbe riuscito a trovarla.
Lei sembrava incollata al sedile, il
suo viso congelato in
un’espressione sconvolta che Tom non sapeva come interpretare.
“Che cosa… Cosa
diavolo ci fai tu qui?”
Suo malgrado, Tom le sorrise.
“Inseguo un Bianconiglio dispettoso.”
“Tu sei pazzo!”
“Ti ringrazio per averlo notato.” Tom si
avvicinò e si sedette con noncuranza
accanto a lei. “Scusa l’invadenza, mi rendo conto
che venire a braccarti su un
treno in corsa sia una mossa abbastanza estrema e scorretta, ma non mi
hai
lasciato scelta ed era un anno che aspettavo.”
“Sei pazzo!”
“Certo che sono pazzo. Una persona normale non sarebbe di
certo qui, ti pare?”
“Come diavolo hai fatto a
trovarmi?”
“Grazie a tre simpatiche vecchiette ficcanaso con un
promettente futuro da spie
che hanno origliato al Ritz.” Spiegò lui,
compiaciuto. “Ti trovo ingrassata.”
Aggiunse poi, dandole una rapida squadrata.
Norja, stranamente, non
batté ciglio. Era proprio una statua
di sale.
“Dov’è
Julian?” insisté allora lui.
“A casa, dalla sua
famiglia.” Balbettò lei. “Lui
è di
Berlino.”
“Meno male. Sai,
quell’uomo mi irrita.”
Norja non accennava
a
sciogliersi di una virgola. Sembrava non aver ancora compreso quello
che stava
accadendo.
“Il tizio
dell’hotel non ti ha dato il mio biglietto?”
“Sì,
certo.” Tom le mostrò la pallottola di carta
stropicciata.
“E quello che ti ho scritto non era chiaro?
“Chiarissimo.”
“E allora?”
Imperturbabile, Tom distese
accuratamente il foglio sulla
propria gamba e lo lisciò per bene, poi lo porse a lei.
“Non hai firmato.”
Norja lo prese ma non fece altro che
osservarlo e battere le
ciglia perplessa.
“Ti spiacerebbe
ripetere?”
“Non hai firmato il messaggio.” Spiegò
pazientemente lui, indicandole il vuoto
bianco alla fine del messaggio. “Tu il mio autografo ce
l’hai, e non mi hai
nemmeno lasciato il tuo.”
“Tu sei pazzo!”
sbuffò ancora una volta lei, ma a Tom non
sfuggì la minuscola e fugace arricciatura delle sue labbra
scarlatte.
“La vuoi piantare di darmi
del pazzo? Fino a due volte va
bene, a tre diventa irritante.”
E da semplice arricciatura, la piega
delle labbra di Norja
divenne un sorriso vero.
“Oh, sta’
zitto!” gli disse con una gomitata.
Tom si concesse di contemplarla per
qualche secondo mentre
lei faceva lo stesso con il foglio sciupato: era carina, ma non bella
in modo
vistoso. Sicuramente non era come tutte quelle ragazze celebri con cui
Tom era
stato visto durante la sua carriera. Tom si sentì strano nel
rendersi conto
che, vedendola passare per strada, non si sarebbe mai accorto di lei.
Se non
avesse avuto modo di conoscerla, non si sarebbe mai interessato a una
come lei,
perché, sì, in fondo era l’aspetto che
contava al primo impatto, e a lui le
persone troppo stravaganti non erano mai andate giù. Un
fratello così era più
che sufficiente. Ma poi aveva incontrato lei, e con suo sommo stupore
aveva
scoperto che c’erano un bel po’ di modi a lui
finora sconosciuti in cui una
ragazza potesse piacere a un ragazzo, e da lì aveva capito
tutto, o forse aveva
cominciato a non capire più niente.
“L’ho fatto,
sai?”
Norja lo guardò. Era buffa
con quegli occhiali.
“Fatto cosa?”
“Ho provato una sedia a dondolo. A Natale, a casa dei miei
nonni. È stato
esattamente come avevi detto tu.”
“Tu hai provato una sedia a
dondolo?” esclamò lei,
incredula.
“Sì.” Rispose Tom, orgoglioso.
“E il vaporoso scialle di
lana rosa?”
“Quello di mia nonna è verde e non molto vaporoso,
ma, sì, ho provato anche
quello. Certo, è stato interessante, poi, spiegare a mia
madre la situazione,
quando è entrata e mi ha trovato così, ma se sono
qui vuol dire che ha creduto
alla mia arringa in difesa della mia sanità
mentale.”
Norja si portò entrambe le
mani davanti alla bocca, ma
questo non nascose il luccichio nel suo sguardo.
“Oh, mio dio.”
“Allora?” fece
Tom, carico di aspettativa.
“Allora cosa?”
“Ma scusa, ti sono venuto a cercare in hotel;
dall’hotel ti sono corso dietro
fino alla stazione; dalla stazione sono saltato su un treno in partenza
senza
nemmeno essere sicuro che fosse veramente il tuo… Non sei
nemmeno un po’
impressionata?”
Adesso che lo raccontava, gli
sembrava ancora più assurdo.
Lei, a giudicare dalla sua espressione, la pensava allo stesso modo.
“Non ricordo se ho
già detto che sei pazzo…”
“Non fare la noiosa. Dai,
sul serio… Non ti ho stupita
nemmeno un pochino?”
“Più che stupita
sono proprio incredula. Senza parole. Cosa
ti è saltato in mente, si può sapere?”
Tom si fissava le mani, seduto
scompostamente. Quella era la
parte più difficile, per lui: parlare.
“Tu scappi sempre.” Mormorò.
“Arrivi, sconvolgi tutto, poi prendi e te ne vai,
e mi molli sempre con un palmo di naso. Hai idea di come sia
pesante?”
Silenzio. Il visetto tondo di Norja
era concentrato sulla
carta, sulle parole che lei stessa aveva scritto.
“Com’è stato quest’ultimo anno, per te?” gli chiede a un tratto, atona.
“Come, scusa?”
La sua espressione si
incupì leggermente, il suo sorriso si
sciolse.
“No, perché, sai… Per me è
stato abbastanza critico. Cioè, professionalmente
è
andato alla grande. Ho finito gli ultimi due libri della saga in sei
mesi. Il
mio editore stava per mettersi a piangere quando gli ho portato i
manoscritti.
E poi c’è stata la firma del contratto con la New
Line per i film, e di
conseguenza i miei impegni sono decuplicati… E a me andava
più che bene, perché
così non avevo tempo di fermarmi e pensare a un idiota
molesto che ho
incontrato lo scorso anno sul tetto di un albergo – sai, mi
aveva rovinato le
scarpe nuove – e a tutte le cavolate che ci eravamo detti. Ma
lui…” Si
interruppe, mordendosi il labbro, e si voltò verso di lui.
“Lui… Mi mancava lo
stesso, capisci?” Disse in un sussurro a stento udibile.
“Mi mancava così
tanto, certe volte, che quando ho scoperto che saremmo stati a Berlino
lo
stesso giorno, non ho potuto fare a meno di andare da lui. Solo per
vedere come
stava. Solo che poi…”
Tom deglutì il vuoto.
“Poi?”
Le dita sottili di Norja ebbero un
lieve fremito, distese al
di sopra del foglio che teneva appoggiato in grembo.
“Mentre lui mi firmava uno stupido poster, era come se la mia
fredda
razionalità cercasse di strappare i miei piedi da
lì e trascinarmi via il più
rapidamente possibile, mentre qualcosa giù nel profondo
insisteva ad urlare
‘Lasciami qui! Non ho finito! Voglio
restare!’… Ed è stato esattamente come
un
anno fa.”
“Un anno fa non vedevi l’ora che io me ne
andassi.”
“No. Ti ho cacciato via, è diverso.”
Tom sbuffò, irritato.
“Diverso?”
No, non c’era niente di
diverso. Un bel niente.
Norja, però, aveva
un’aria mortalmente dispiaciuta.
“Tom, avevo quelli della New Line che mi aspettavano,
dovevamo concordare gli
ultimi dettagli di un contratto che mi avrebbe cambiato la vita, e
l’ultima
cosa di cui avevo bisogno era avere te lì nei paraggi a
mandarmi in pappa il
cervello!”
Il cervello di Tom, per quanto
frastornato, impiegò
relativamente poco a fare due più due ed elaborare i fatti
sotto un punto di
vista un bel po’ diverso dalla sua prima percezione.
“Avresti semplicemente
potuto dirmelo.”
“Lo avrei fatto, se tu non mi avessi baciata a
tradimento!”
Tom si era preparato a ribattere, ma
questo era un colpo
invincibile.
“Uffa, trovi sempre il modo
di dare la colpa a me!”
“E vorrei ben
vedere!”
“E non è
cambiato niente in quest’anno in cui ci siamo persi
di vista?” le chiese, incrociando mentalmente le dita.
“Dipende da quello che
intendi.”
Tom sollevò le spalle.
“Sai, speravo che noi…”
“Non c’è mai stato nessun noi.”
“Ok, ma speravo che potesse esserci.”
“La vedo molto futuribile come cosa, ora che i miei libri
diventeranno dei film
e dovrò presenziare a prime, presentazioni e
chissà che altro.” Berciò lei,
acida. Acida, come sempre era stata. Come piaceva a lui.
“Non ti piacerebbe portarci quel gran pezzo di Tom SNF
Kaulitz a tutte queste
cose?” le suggerì languidamente, chino sul suo
orecchio.
Norja, rabbrividendo, lo
occhieggiò come se fosse stato un
marziano:
“Eh?”
“Ho detto: non – ti – piacerebbe
–”
“Ho sentito quello che hai
detto!” chiarì lei, stizzita.
Tom iniziava ad acquisire fiducia. La
sentiva ammorbidirsi
lentamente ogni secondo che passava. Doveva solo giocare bene le sue
carte.
“Dai, Irlanda, ce la diamo
una possibilità?”
“Una
possibilità?”
“Sì,
insomma… Tu ti potresti benissimo presentare come Norja
Schwartz e mantenere il tuo prezioso anonimato. Probabilmente
innescheremmo una
bomba mediatica di quelle epocali, ma… Potremmo anche
provare a vedere come si
incastrano le nostre vite, no?”
“Le nostre vite?”
“Hai finito di fare il pappagallo con quella faccia da pesce
lesso?” fece Tom,
spazientito. “Sto parlando seriamente.”
“Non ho capito l’avverbio, scusa.”
“Senti, io il mio impegno
ce l’ho messo! Se non te ne frega
niente, basta dirlo, me ne torno da dove sono venuto!”
“Non puoi tornare da dove sei venuto, siamo su un treno
diretto.”
“Intendevo in senso figurato.”
“Tom,
io…” La tentazione si rifletteva in ogni gesto di
Norja, in ogni sua sillaba. “Io non posso. Passerei ogni
giorno a chiedermi cose
idiote come ‘Ma perché diavolo ha voluto
me?’…”
“Perché mi fai ridere.”
“O ‘Come faccio a sapere che me lo
merito?’…”
“Eri già cotta
di me quando ero piccolo e sfigato.”
“Oppure
‘Quand’è che aprirà gli occhi
e si accorgerà che può
pretendere di più?...”
“Mai.”
Norja si portò una mano
alla fronte con un sospiro
disperato.
“Oh,
Tom…”
Lui odiò quel tono: era il
tono di chi sapeva esattamente
cosa voleva ma insisteva a negarselo. Era il tono di qualcuno che non
voleva
scegliere. E lui ne aveva abbastanza.
“Norvegia, mi hai rotto, va
bene?” tuonò, balzando in piedi.
Era deluso, ma molto più in profondità di quanto
non gli fosse mai capitato. “Sei
patetica, tu e le tue paranoie da ragazzina complessata! Che palle!
Posso avere
il diritto di prendermi una sbandata per una tizia a caso che incontro
sul
tetto di un hotel? Posso avere la presunzione di sperare che lei possa
contraccambiarmi, per una volta che mi interessa davvero? E, se non
è troppo, ti
spiacerebbe lasciar decidere a me cosa voglio, merito, eccetera? Ok,
non sei
bella come me, né ricca e famosa come me, e non sei nemmeno
intelligente come
me… Ma sono un tipo accomodante, sai? Qualche volta mi so
accontentare, cosa
credi?”
Gli altri tre passeggeri che
condividevano il vagone con
loro stavano seguendo la scena con una certa curiosità. Se
non altro, si
rallegrò Tom, probabilmente non capivano granché
di quello che lui e Norja si
stavano dicendo.
E lei, ancora affondata nel suo
sedile, guardava in su verso
di lui. Tom credette ce lo avrebbe aggredito da un momento
all’altro. Quando
Norja si levò in piedi minacciosa, infatti,
arretrò istintivamente di un passo.
Lei lo fronteggiò, scura in volto, e lui aspettava uno
schiaffo, uno spintone,
qualcosa di violento e liberatorio, ma tutto ciò che
arrivò fu una strana
risata simile a un singhiozzo.
“Quanto sei
scemo.”
Tom non mosse un muscolo. Aveva paura
che qualunque suo
gesto avrebbe potuto infrangere quel delicatissimo filo di connessione
che si
era creato fra loro. L’istinto lo spingeva verso il contatto
fisico, ma non
fece niente, se non sforzarsi di apparire calmo e padrone dì
sé:
“Allora? Vuoi che me ne
vada o che resti?”
Norja scuoteva debolmente la testa
fissandosi i piedi, e Tom
aveva il terrore di sapere già cosa questo significasse.
“La mia testa mi sta
supplicando di dire ‘Vattene’.” La
udì
mormorare. Eppure…
“Ma…?”
C’era un
‘Ma’ che lei aveva taciuto. C’era. Ci
doveva
essere. Tom lo sentiva.
“Ma…”
Norja alzò lo sguardo. Era così bassa, rispetto a
lui,
che si ritrovò a fissargli il petto. “Porti ancora
questa orribile maglietta?”
A Tom venne da ridere. Per tutta
risposta, la costrinse a
sollevare ulteriormente il viso, finché non fu in grado di
guardarla negli
occhi. E allora le sorrise.
“E tu porti ancora questo orribile rossetto?”
Lei strinse automaticamente le labbra
tra loro.
“Starebbe male con
qualunque tua maglietta.” Rispose
tentennante. “Così vado sul sicuro.”
“Posso sempre togliermi la
maglietta.” Replicò lui,
scrollando le spalle.
“Bell’idea, a
metà febbraio, in luogo pubblico.”
“Allora potresti toglierti
tu il rossetto.”
Un semplice passo bastò ad
avvicinarlo a lei quel tanto da
permettergli di intrappolarla tra lui e il lato del sedile. Tom si
perse nei
suoi occhi. Per qualche motivo, aveva sempre pensato che gli occhi
chiari –
azzurri, verdi, grigi – fossero i più
affascinanti, ma questo era stato prima
che scoprisse quanto potessero essere belli e profondi degli occhi
così
straordinariamente neri.
“E se le mie labbra
avessero freddo, senza?” azzardò Norja,
la voce malferma, mentre lui le sfiorava la vita con le mani.
“A questo proposito,” le rispose, accostando le
labbra alle sue con esasperante
lentezza. “Ci sarebbe un’idea che vorrei
illustrarti.”
E quando si chinò e Norja
non si ritrasse, capì che l’idea –
assieme a tutto il resto – era stata approvata.
***
Resta.
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Note:
ebbene sì, è finita! ^^ Ringrazio di cuore tutti
voi per aver letto e
commentato questa storia, e avermi accompagnata lungo tutta la sua
(lunghissssssima! XD) pubblicazione. Spero che anche per
quest’ultimo capitolo
vogliate lasciami due parole di impressioni e giudizi. ;)
Sto scrivendo una oneshot, al momento,
e penso che la posterò
a breve, quindi occhi aperti, mi raccomando! ;)
Alla prossima!
P.S. la canzone citata è la bellissima Geh, von Tokio Hotel.
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