conc
Autore: Morgain28
Titolo: Slow Me
Down
Genere: Romantico
Rating:
Giallo
Capitoli: 1
Avvertimenti:
One-shot
NdA: Una very important ficcy, signori miei. Almeno per me!
Slow Me
Down
[Rushing and racing
and running in
circles
Moving so fast, I'm forgetting my purpose
Blur of the
traffic is sending me spinning
Getting nowhere
My head and my heart are colliding,
chaotic
Pace of the world
I just wish I
could stop it
Try to appear like I've got it together
I'm falling
apart
Save
me
Somebody take my hand, and lead me
Slow me
down
Don't let love pass me by
Just show me
how
'Cause I'm ready to fall
Slow me
down
Don't let me live a lie
Before my life
flys by
I need you to slow me down.
Slow Me Down, Emmy Rossum]
Guidava da ore. Aveva perso il conto di
quanti bivi, scorciatoie, strade dimenticate da Dio, avesse imboccato sotto
quella cortina di pioggia
primaverile. Non che la stagione influisse molto sulla
variazione climatica della penisola di Olympia: pioggia in primavera, in estate,
in
autunno, in inverno e ancora in primavera... e lei era folle a percorrere
quelle strade sdrucciolevoli col suo macinino, alla massima velocità
consentita
dal motore poco potente. D'altra parte, aveva collezionato tanti altri motivi
per definirsi folle, e quel viaggio non era che l'ultimo
di una lunga serie. Ma,
come tutte le cose pazze, i colpi di testa della sua breve vita, non aveva potuto
farne a meno: quelle strade,
percorse col solo conforto di un thermos di caffè
ormai freddo e vuoto per tre quarti, l'avrebbero portata dove voleva – e allo
stesso
tempo, non voleva affatto – essere. Perciò, si era messa in macchina nel
bel mezzo della notte, impaziente e stanca da morire. Proprio
come lo era stata
un'altra notte, qualche tempo prima, quando non aveva la cicatrice sul braccio
sinistro e cellule celebrali inutilizzabili
perché non ancora in pieno
stordimento amoroso.
Sedeva
nell'officina, le mani sporche di grasso troppo ostinato per arrendersi persino
al sapone di sua madre. Le guardò: erano grandi
e dalle unghie nere - lo
svantaggio di fare il meccanico. Il suo udito affilato percepiva il rumore della
pioggia; il suo olfatto, ancora più
acuto, ne sentiva l'odore. Stava diventando
insopportabile, il rumore della pioggia. Perché ogni goccia che sentiva cadere,
ogni effluvio di
muschio bagnato che gli arrivava al naso gli ricordavano lei.
L'aveva vista per la prima volta in una notte simile quella, sebbene la pioggia
fosse stata meno fitta, sul ciglio della strada. Stava facendo una corsa – uno
dei suoi passatempi preferiti, persino da prima della
trasformazione – quando
aveva notato un'auto di piccola taglia ferma sulla strada, gli sportelli aperti,
la luce interna accesa. Quando era
uscito dal folto della foresta, seguendo
d'istinto la sua naturale impossibilità di farsi i fatti suoi, come gli veniva
spesso rimproverato, aveva
notato una figura piegata sul motore, " Forza,
bambina ", diceva una voce femminile bassa e implorante, con un forte
accento del sud, "
non mi abbandonare proprio adesso. " I suoi
occhi sensibili la osservarono affannarsi sul veicolo e poi rinunciare. Non
aveva potuto
resistere: i guasti risvegliavano il meccanico che era in lui. " Problemi con la macchina? ", aveva gridato, ed aveva visto con
un certo
divertimento la figura sussultare con violenza. I vantaggi di essere un
licantropo: c'era poco che poteva sfuggirti. Comunque, si era
avvicinato a
velocità umana – perché se avesse fatto altrimenti sapeva chi sarebbe fuggito a
gambe levate. La donna si era subito
spostata dietro la macchina, come a farsi
scudo, piegata in modo tale che era impossibile – persino per lui - vederle il
viso sotto il
cappuccio dell'impermeabile giallo: " Una mano mi farebbe
comodo. ", aveva affermato lei, circospetta, con quell'accento che
sembrava
masticare le sillabe una per una. Aveva percepito la sua insicurezza –
un'altra cosa da lupi: poteva sentire il suo respiro ed il battito
cardiaco
accelerare - ed aveva agito di conseguenza: si era accovacciato sul cofano
aperto, sfruttando il fascio di luce proveniente
dall'abitacolo per rendere il
fatto che riuscisse a distinguere i pezzi del motore nel bel mezzo della notte
lievemente più verosimile. " E' la
valvola di raffreddamento. E' andata. " La donna sospirò. " Pace all'anima sua. ", disse, con
esasperazione.
Si era alzato e aveva guardato dove pensava si
trovasse il suo viso, dato che nel frattempo si era rannicchiata ancora di più: " Da quanto
tempo non porti questa bambina dal dottore? Dovrebbero
chiamare i servizi sociali, davvero. ", aveva scherzato, scuotendo la
testa. " Da
circa quattro mesi. Quando si viaggia si fa quel che si può.
E poi ", aveva continuato con una certa irritazione, " cosa ti fa
pensare di essere
un esperto? " Lui aveva sorriso nel buio: " Non
saprei, ma potrebbe avere a che fare col fatto che sono un meccanico. "
Si era pulito le
mani sui pantaloncini corti che indossava - certo
l'abbigliamento adatto all'autunno inoltrato della fredda Forks – e le aveva
fatto la sua
proposta: " Questa piccola ha bisogno di una urgente
sistemata. Aspetta qui, e tra dieci minuti torno col carro-attrezzi. Il
riscaldamento
funziona, no? Non vorrei ritrovarti surgelata. " "
Ah. D'accordo, mio buon samaritano. Ma sappi che se tenti qualcosa di strano, ti
farò il
bagno con la mia scorta di spray al peperoncino. " Il suo
sorriso si era allargato: " L'unica a cui ho intenzione di fare qualcosa
è questa
piccina. Puoi stare tranquilla,
sono il più bravo meccanico della città ", aveva fatto
una pausa ad effetto, " oltre che l'unico. " Se ne era
andato verso il bosco, gettandosi a capofitto nella vegetazione con la
risata della ragazza che rimbombava nelle orecchie lupesche.
Come promesso, dopo appena dieci minuti si era
ritrovata al caldo. Avvolta completamente in una coperta di lana, sedeva da un
tempo
indefinito nella cucina di una casa sconosciuta, piccola e accogliente,
con mobili di legno scuro; aveva in mano una tazza di caffè fumante
che il suo
“samaritano” le aveva permesso di preparare per sé e per lui, dato che casa e
officina erano a circa dieci metri di distanza. "
Spero che tu non lo
faccia spesso. ", aveva commentato quando quello che si era rivelato un
altissimo ragazzo persino al buio le aveva
allungato le chiavi. " Sarebbe
come chiedere di essere derubato. " Lui si era fatto una grassa risata: " Questa è una riserva indiana. ",
aveva osservato come non fosse
stata un'ovvietà. " In una riserva indiana, gli abitanti conoscono
persino il colore delle tue mutande,
figuriamoci se hai aspirazioni criminose.
Oltre al fatto di essere controllato a vista. Mi pare che l'ultimo furto ci sia
stato prima che io
nascessi: una fetta di torta di mele ad opera del mio amico
Quil: sua nonna stava facendo un sonnellino. " Così, si era ritrovata a
girare per
una cucina molto ingombra e molto disordinata, tipica di un maschio
che viveva da solo. Le erano caduti gli occhi su delle foto, sparse qua
e là
senza ordine apparente: tre ragazzi alti che ridevano a crepapelle sullo sfondo
della foresta verde cupo; una donna dai capelli corti, il
viso duro aperto in un
sorriso mentre guardava un uomo pallido dai capelli castani sollevare un pesce
in segno di vittoria; un uomo su una
sedia a rotelle, il viso rugoso e aperto;
un gruppo più ampio di ragazzi e ragazze, tra cui, notò, una a cui delle
cicatrici deturpavano la metà
del viso, piegandole la bocca in un sorriso
storto. Tutti avevano tratti indiani, tranne l'uomo coi capelli castani e una
ragazza pallida e
bellissima, dai lunghi capelli rossi e enormi occhi castani
che abbracciava uno dei ragazzi più alti. Aveva fissato le foto, incantata da
quelle
scene di vita quotidiana; certo, non erano di alta qualità, ma avevano un
che di intimo e familiare che la catturava. Tali elucubrazioni erano
state
interrotte dal grido del ragazzo, proveniente da qualche parte aldilà della
porta di casa: " Ehi! E il mio caffè? "
L'aveva sentita avvicinarsi con circospezione; a
dire la verità, aveva sentito ogni suo passo da quando aveva aperto la porta di
casa. Si
sollevò dal motore, vittorioso: la macchina sarebbe tornata in vita in
un tempo ragionevole, ma non aveva l'aria di poter andare avanti
ancora per molto. " Grazie. " ,
aveva detto la ragazza dietro le sue spalle, " Se non fosse ripartita
sarebbe stato un casino di proporzioni
non
indifferenti. " Lui aveva riso come un matto " Mi chiamano “mani
di fata”. E aspetta a ringraziare: non ti ho ancora fatto il conto. "
Aveva riso anche lei: " Per ora, posso pagarti con il caffè. " Lui
aveva poggiato le mani sul cofano verde acqua, che si era chiuso con un
tonfo
sonoro sul motore, e si era voltato a ricevere il suo ben meritato premio, ma al
posto della tazza colorata che si aspettava, qualcosa di
altrettanto vivace era
entrato nel suo campo visivo: un paio di impressionanti occhi dello stesso
colore celeste della macchina dominavano
un viso pallido e lentigginoso,
circondato da capelli rossi che ricadevano, bagnati e pesanti, dietro le spalle.
Era successo all'improvviso, per
il semplice gesto di aver incontrato quegli
occhi: nella sua testa aveva sentito come un'esplosione. Era come se tutto il
suo mondo – sua
madre, sua sorella e i suoi fratelli, suo padre adottivo – fosse
stato sradicato dal suo posto e si fosse fatto più in là: c'era la sua vita, il
suo
mondo, e poi c'era lei. Non al centro del mondo, ma un universo a sé; si era
sentito marchiare a fuoco da quegli occhi che si stavano
allargando dalla
meraviglia sotto il suo sguardo sbalordito. Era durato un momento – ne era certo
– ma era come se l'avesse guardata per
anni. Aveva ripreso fiato – si era
sentito soffocare – e tutto era tornato a posto. Come se fosse sempre stato
così. Confusamente, si era
reso conto che era capitato anche a lui:
l'imprinting. E quello che era ancora più ironico era che sentiva di appartenere
in ogni sua parte ad
una ragazza di cui non conosceva neanche il nome. La
ragazza, il suo nuovo universo, l'unica ragazza del mondo, gli aveva porto la
sua tazza
di caffè. " Non... non ci siamo presentati. ", aveva
detto, ancora intontito dalla grandezza dell'esperienza; aveva improvvisamente
ritenuto
di importanza estrema conoscere il suo nome. La ragazza aveva sorriso,
con qualcosa di nervoso nell'espressione: " Mi chiamo Niamh –
Niamh
O'Flaherty. Piacere... ? "
" Seth. ", aveva detto come
suggellando un giuramento inespresso, " Seth Clearwater. ". Di che
tipo di contratto si sarebbe trattato,
l'avrebbe compreso solo più avanti.
Allora aveva visto solo un ragazzo altissimo dalla pelle color cotto, il viso
dai lineamenti indiani
somigliante a quello della donna della foto, e tuttavia
differente: non c'era durezza, solo un sorriso aperto e, per una frazione di
secondo che
le era parsa durare un'eternità, uno sguardo pieno di un sentimento
che non aveva indovinato. Forse... meraviglia. Aveva dei begli occhi
scuri,
aveva constatato, sentendo una curiosa sensazione alla bocca dello stomaco, la
stessa che provava, aveva pensato, appena prima di
ogni test scolastico. C'era
stato silenzio per qualche secondo, mentre il ragazzo – Seth – sorseggiava il
suo caffè con gli occhi incollati al suo
viso; poi erano cominciate le domande: " Allora, cosa ti porta nelle sperdute lande della deserta Forks? "
E da quel
momento era stata una strada in discesa. Niamh O'Flaherty si era rivelata una
ragazza per nulla timida, o riservata. Forse
perché, gli aveva detto, era più
facile parlare con estranei che con i conoscenti dei propri segreti più intimi.
Fatto stava che lei – l'unica
donna che esisteva, ormai – gli aveva raccontato
tutto. Tutto. Nonostante fosse visibilmente esausta e cerchi scuri le segnassero
gli occhi
appannati dal sonno, avevano passato la notte a chiacchierare del più
e del meno, e Seth aveva saputo, ascoltando ogni parola, come un
assetato nel
deserto. Aveva osservato il modo in cui la sua bocca rosa pastello si arcuava
all'insù anche quando era imbronciata; come
arricciava il naso sentendo alcune
parole; come si attorcigliava i capelli lisci e rossi come le foglie d'autunno
attorno all'indice quando si
concentrava. Tutto, ogni minimo gesto, sembrava
imprimersi nella memoria non appena raggiungeva la retina. Nel frattempo, aveva
anche ascoltato il suo racconto.
Era una fotografa. Texana di origini irlandesi. A
quanto pareva, era in viaggio da più di un anno su quella macchina scassata. Era
partita il
giorno del diploma, scegliendo di rinunciare, senza pensarci troppo,
all'opportunità del college severamente cattolico che i suoi genitori,
ferventi
credenti, le avevano riservato. Così, era saltata in macchina con due valige e i
soldi del suo college in borsa, ed aveva attraversato
gli Stati Uniti da sola,
vivendo di vari lavoretti. Aveva fatto di tutto, gli aveva raccontato, dalla
cameriera alla cantante di strada.
Qualunque cosa, pur di mangiare.
L'aveva guardata con tanto d'occhi, mentre narrava
la sua favola senza potersi frenare. Forse era davvero perché non lo conosceva,
aveva
pensato allora, ma ora ne sapeva di più. Seth era sembrato bersi ogni
parola, interloquendo qua e là con qualche battuta, facendola ridere
di gusto.
Ovviamente, Niamh aveva lasciato fuori le parti meno divertenti, come la
reazione dei suoi genitori alla fuga della loro unica figlia,
il centro del loro
mondo. Di sicuro, attendevano ancora invano di vederla scendere a colazione.
Erano tipi del genere. Ma quello che era
stato importante, allora, era vederlo
ridere. Per qualche motivo, il suono della sua risata le aveva fatto
attorcigliare le viscere.
Per quanto riguardava Seth, la sua parte della
storia era stata riservata al giorno seguente, seduti sotto il portico di un
piccolo motel poco
distante dalla riserva che le aveva consigliato lui. Era
venuta a sapere della sua infanzia perfetta nella riserva, dei suoi genitori e
di sua
sorella – una vera rompipalle, aveva ammesso con una risata affettuosa –
e dei suoi amici. Di suo padre, che era morto da qualche anno –
che ne sentiva
la mancanza ogni giorno, che all'inizio aveva creduto di non farcela, che sua
madre aveva tenuto duro per tutti loro. Che era
contento che avesse trovato un
brav'uomo, che lui rispettava come una padre. Solo in seguito era venuta a
sapere delle sue parti meno
divertenti.
" Quanto resterai? ", le aveva
chiesto con ansia trattenuta a stento ad un certo punto, qualche tempo dopo,
mentre camminavano nel folto
della foresta. Con una macchina fotografica
dall'aria vetusta alla mano, Niamh immortalava qualunque cosa si muovesse nella
vegetazione.
Alla sua domanda, aveva sollevato il capo dall'obbiettivo,
guardandolo con occhi gravi e reticenti, come faceva ormai da un po': da quando
aveva parlato di partire per la prima volta. Seth si era accontentato di poter
respirare la sua stessa aria per più di un mese, in cui l'aveva
pian piano
introdotta nella sua cerchia: Niamh aveva sopportato con ironia gli sguardi
inquisitori di sua madre e sua sorella, che si era
premurata di incenerirla con
un'occhiata non appena aveva registrato la sua presenza – occhiata alla quale
Niamh aveva replicato con un
sorriso storto dei suoi, un'arma pericolosa – e
quelli curiosi e consapevoli dei suoi fratelli, che l'avevano squadrata come
delle massaie dal
macellaio di fronte al tacchino da scegliere per il
Ringraziamento. Avevano capito subito che aveva avuto l'imprinting – non aveva
neanche
avuto bisogno di trasformarsi: aveva incrociato Sam ed Emily, allora
ormai larga quanto alta per il bambino in arrivo, a fare spese mentre
lasciava
il motel di Niamh; non c'era stato bisogno di parole. Gli avevano fatto le loro
congratulazioni e si erano riservati il diritto di
conoscerla. E così era stato:
l'aveva portata ad uno dei loro “raduni”. Avevano ascoltato vecchie leggende
attorno al fuoco, bevendo birra e
rimpinzandosi di patatine, come quando avevano
sedici anni. E ricordato chi non c'era più. Quando il nome di suo padre era
stato
pronunciato, aveva sentito la mano di Niamh scivolare nella sua, fredda e
asciutta. Si era voltato a guardarla e se ne era innamorato
un'altra volta.
Perché lo aveva capito: ormai era del tutto suo. Ed aveva la sensazione che lo
sarebbe stato anche se fosse stato un normale
meccanico di vent'anni e mezzo, e
non uno all'occorrenza provvisto di zanne e artigli. Aveva persino telefonato a
loro per informarli.
Edward era stato al settimo cielo per lui. Il suo
improbabile amico sapeva cosa volesse dire trovare la propria metà, e sapeva
comprendere
la sorpresa, l'esaltazione, la paura profonda. Seth stava vivendo
qualcosa di simile. Per Edward era stata Bella, sua moglie e madre di sua
figlia; Seth sentiva chiaramente di aver trovato la sua, di metà, qualcosa che
gli era sempre sembrato del tutto improbabile. Almeno, in
quelle circostanze:
erano passati anni dalla trasformazione. Eppure, era accaduto anche a lui: era
stata lei a trovarlo, proprio come era
accaduto ad Edward. Con la differenza
che, nel suo caso, quella metà pareva ignorare la sua esistenza. Non come amico
– certo che no –
ma come uomo. Stranamente, la cosa non gli dava fastidio: per
lei poteva essere tutto. Il suo confidente, il suo amico fraterno, il suo
amante; persino uno sconosciuto. Quello che importava era che lei fosse
felice.
Niamh aveva
continuato a scrutarlo per un momento che le era parso eterno. L'aveva guardato,
e aveva visto il pericolo. Perché gli occhi
di Seth erano pieni di quella luce
che vi scorgeva spesso, quando pensava di non essere osservato. Sofferenza e
timore. E lei non voleva
farlo soffrire. Aveva trovato strano, sul momento,
pensare che avrebbe preferito morire piuttosto che lasciare qualcuno che
conosceva
neanche da due mesi, sentire che se lo avesse fatto si sarebbe
spaccata in due; e quello era pericoloso. Quei sentimenti impazziti violavano
una delle poche regole che si era imposta nel suo lungo viaggio: non
affezionarsi a nessuno. Ma non aveva potuto evitare di farlo con colui
che in un
battito di ciglia era diventato il suo confidente più intimo, con cui poteva
parlare come a se stessa. Col tempo, gli aveva rivelato
ogni cosa di sé, senza
eccezioni ; non aveva tralasciato neanche le parti meno divertenti: gli aveva
detto di quando aveva rivelato ai suoi la
sua vera aspirazione nella vita: non
voleva essere un avvocato in carriera, o un medico. Voleva essere una fotografa.
Cosa che non aveva
fatto loro molto piacere sapere. Gli aveva detto delle
occhiate incredule; degli sguardi delusi rivolti alla loro unica bambina, il centro del
loro mondo,
quella per cui avevano lavorato duramente per anni ed erano ingrigiti e
sbiaditi, che li aveva traditi in quel modo. E lui
aveva contraccambiato:
le aveva detto di suo padre, di quanto fosse stata dura dopo. Che senza la sua
famiglia e i suoi fratelli non ce
l'avrebbe fatta.
Seduti nel salotto
dell'appartamentino che aveva affittato, avevano visto l'autunno scorrere
veloce, le foglie degli alberi, dello stesso
colore dei suoi capelli che
danzavano nel vento aldilà della finestra. Veloce, troppo veloce, si era
ritrovata a pensare. Stava cominciando ad
accorgersi che non poteva più fare a
meno della sua compagnia. Era come una magia: il mondo, la vita attorno a lei
erano ancora le stesse:
il verde della foresta, la sfumatura indefinibile delle
nuvole, il sole pallido; ma bastava che Seth entrasse nel panorama per rendere
tutto
più vivace, più colorato: il giallo sbiadito della stanza pareva
brillante, il rosso delle sue guance più acceso. Era potente, potente e
pericoloso
come una droga. Un rischio che, le ululava la parte razionale della
sua mente, non poteva permettersi. Oltre che terribilmente spaventoso.
Si stava
accorgendo di non potergli stare lontano per più di un minimo lasso di tempo.
Non era una questione di volontà: non riusciva
fisicamente a fare a meno di lui.
Per questo, per quanto ci avesse provato, non era riuscita a dire basta: aveva
continuato a rimandare e
rimandare. Fino ad una mattina di pochi giorni prima.
Seth sedeva sul pavimento della stanza, circondato da una marea di foto. Le
aveva
prese in mano e commentate una per una, con una meticolosità che l'aveva
stupita. Non doveva essere così strano, in un meccanico, aveva
riflettuto poi -
ma allora lo aveva scrutato mentre le soppesava con meraviglia. Erano
testimonianze cartacee della sua vita prima di
Forks: scorci di città che aveva
visitato, luoghi che aveva visto, persone che aveva conosciuto, tutte datate e
catalogate con cura. Aveva
rimarcato la vicinanza tra una data e l'altra in
quelle di città diverse. Niamh aveva sorriso a disagio: non aveva avuto un buon
presentimento sulla piega che la conversazione era stata in procinto di
prendere. Aveva avuto ragione: " E' raro che io resti nello stesso
posto
per più di qualche mese. Al massimo una stagione. " Gli occhi di Seth
erano diventati enormi, al riflesso dello specchio. Enormi e
pieni di panico. " Così
poco? " " Già. Così è più facile per
tutti. " Seth aveva abbassato il viso, silenzioso. " Io non voglio che
tu te ne vada. ",
aveva detto, così piano che
aveva fatto fatica a sentire. " Così presto. ", aveva aggiunto
in fretta, la faccia arrossata sotto la pelle scura. I
suoi occhi neri, così sinceri e puri, l'avevano
osservata come un cucciolo che guarda il padrone che lo sta abbandonando. E
Niamh aveva
capito. Aveva compreso che non poteva permettere che quell'affetto
reciproco e improvviso crescesse più di quanto non avesse già fatto.
Se non
voleva distruggere entrambi. Così, aveva stabilito la data: " Per
l'inverno. Resterò per tutto l'inverno. "
L'inverno. Tre mesi. Tre mesi non erano abbastanza,
aveva pensato nel panico. Una vita intera non sarebbe stata abbastanza.
Nonostante
ciò, aveva sorriso. O meglio, si era sforzato di farlo, anche se
temeva che la sua espressione fosse somigliata di più a una smorfia. Quella
che
il suo viso prendeva ogni volta che si toccava l'argomento “primavera”. Non
aveva mai detestato particolarmente quella stagione, così
come non aveva mai
amato l'inverno – neppure allora, quando non ne sentiva più la morsa – eppure,
si ritrovava a desiderare che il
mondo congelasse nel pallore del periodo più
freddo dell'anno per l'eternità. Particolarmente pallida a Forks, la città più
piovosa e scialba
dello Stato di Washington. Ma ormai la sua mente funzionava
in modo diverso: i suoi desideri erano del tutto secondari rispetto a quelli di
Niamh, e Niamh, lo aveva capito, aveva bisogno dei colori brillanti del mondo
esterno, non dei verdi cupi della riserva. Tutto di lei lo
testimoniava: i suoi
abiti, le sue foto, persino il suo aspetto erano vivaci. Niamh non era per
Forks. Non era per lui, che aveva rifiutato di
allontanarsi dalla famiglia, ora
che aveva un ruolo di responsabilità in assenza di Jacob e Leah, di partire
come invece aveva fatto sua
sorella. Aveva sempre pensato che non l'avrebbe
voluto mai: per quanto semplice, Forks era stata la sua unica casa, ed aveva
amato le sue
tradizioni. Le amava ancora. Ma non poteva cambiare che Niamh fosse
l'unica che volesse, e allo stesso tempo, l'unica che ad ogni passo
avanti, ne
faceva due indietro, decisa a non avere legami; e quanto forte doveva essere la
sua volontà per opporsi all'inesorabilità
dell'imprinting. La ricerca della
ragione per cui vi riuscisse non l'aveva fatto dormire la notte, tanto che aveva
finito per fare l'impensabile:
aveva superato la timidezza e ne aveva parlato
con Emily, la ragazza che era sempre stata come una seconda sorella maggiore per
lui,
quella con cui poteva parlare di quelle cose senza sentirsi ritardato o una
femminuccia, o tutte e due – Leah era allergica a tutto ciò che
aveva a che fare
con l'imprinting. Anche a buon diritto, secondo il suo modesto parere. Emily
aveva sorriso comprensiva: " Si sta
opponendo, allora? " Seth
aveva annuito, abbattuto. Quel giorno aveva tentato di parlarle, di dirle che
non poteva più resistere
nell'incertezza. Le aveva passato le mani sul viso – il
contatto più intimo che avessero mai avuto – ed era stato come l'esplosione di
una
bomba nucleare sotto la pelle. Esaltante come quando si trasformava. Meglio.
Ma lei aveva voltato il viso, le guance in fiamme, gli occhi
ostinatamente
altrove. Perché? Perché capitava solo a lui? Tutti gli altri avevano avuto il
loro lieto fine. C'era forse qualcosa di sbagliato in
lui? "Ma no, Seth.
Non hai nulla che non funzioni. Non ci riuscirà ancora per molto. Lo so per
esperienza: è così bello e perfetto che finirà
per cedere. " Seth aveva
fissato la faccia deturpata di Emily. " Tu credi? ", aveva chiesto
ansioso. " Non potrà farne a meno, a prescindere
da cosa dovrà
sacrificare. ", aveva risposto lei, e Seth aveva creduto di sentire una
traccia di tristezza nella voce dolce.
Per qualche
ragione, la cosa che Niamh ricordava meglio dopo Seth era il viso di Emily.
Aldilà delle cicatrici, comunque indimenticabili,
c'era qualcosa in lei che non
poteva lasciarsi alle spalle. Era qualcosa che veniva da dentro di lei, una
sorta di consapevolezza, che l'aveva
impressionata molto. Emily, col suo
temperamento tranquillo e allo stesso tempo attivo nonostante la gravidanza
avanzata, così diversa da
lei, era quella con cui aveva legato di più. Quando
non era con Seth – ogni volta che lui spariva per le sue misteriose uscite – si
accampava
da Emily, che, forse per la sua indole materna, non sembrava mai
essere sola: c'era sempre una delle ragazze, la timida Kim, la vulcanica
Rachel,
la piccola Claire, la sospettosa Sue che tanto somigliava a sua figlia Leah.
Ricordava che una sera, quando i ragazzi erano fuori
chissà dove nella tormenta
a fare chissà che cosa, si erano sedute tutte nel suo salotto accogliente, con
delle birre in mano – eccezion fatta
per la padrona di casa, sia ben chiaro – a
parlare del più e del meno mentre Claire dormiva nella stanza accanto. Non
sapeva come, ma
ogni argomento finiva per cadere sui ragazzi. Niamh aveva notato
una cosa che allora non aveva avuto senso: la comunanza di sentimenti
che tutte
loro parevano provare per quegli assenti giustificati. Era stato come fare parte
di una sorellanza non ufficiale, come se tutte in
qualche modo sapessero. Cosa, non ne aveva idea. La conversazione era leggera e frizzante, ed in breve era
riuscita a scolarsi due o tre
bottiglie di birra senza neanche accorgersene, lei
che ne reggeva a malapena un sorso; fatto stava che, ad un certo punto della
serata, si
era ritrovata in piedi sul tavolo di cucina, una bottiglia in mano a
mo' di microfono, che cantava a squarciagola, memore dei suoi giorni di
gloria
in un pub di New York: “New York, I love you but you're bringing me down”,
mezzo cantava e mezzo singhiozzava, “ Like a rat in
a cage, pulling minimum
wage, New York, I love you but you're bringing me down”. Era andata avanti per
un po', tra gli applausi brilli
delle sue compagne, certa col senno di poi, di essere somigliata ad un gatto ubriaco. Poi, il vuoto. La mattina dopo l'aveva
sorpresa
allungata sul letto di Seth, con una coperta addosso, un'emicrania da
far paura e neanche un ricordo della fine della serata.
Quando glielo aveva chiesto, Seth aveva riempito il
vuoto come aveva potuto: le aveva detto di averla trovata barcollante e nel bel
mezzo
di una canzone ridicola in piedi sul tavolo di Emily; le aveva detto di
averla raccolta, nonostante le sue vive proteste, e di averla portata a
casa
sua, più vicina dell'appartamento di Niamh; le aveva detto di averla scaricata
sul letto – aggiungendo che pesava troppo, per i suoi
gusti, e che avrebbe fatto
meglio a mettersi a dieta – e di aver dormito sul divano come un sasso. Era
stanco, le aveva detto. E Niamh si
era accontentata di quella spiegazione.
Eppure, c'era tanto che non le aveva detto: ad esempio, aveva volutamente
tralasciato il particolare
che quella sera era stata una delle più belle della
sua vita. Quello che le aveva raccontato era vero, in tutta la sua ridicolezza:
il branco
aveva sentito il suo piccolo concerto da lontano. Quando avevano fatto
il loro ingresso in casa di Sam erano passati del tutto inosservati,
dato che
l'attenzione delle ragazze era totalmente concentrata su Niamh, che incitavano
con un tifo da stadio; era stata Niamh a notarli e ,
tra una strofa e l'altra,
aveva fatto un elegante inchino, suscitando l'ilarità di Paul. " Sarà il
caso che tu la faccia scendere. ", gli aveva
consigliato Emily, l'unica
donna adulta sobria della casa, con tatto. E lì erano iniziati i problemi: al
momento di scendere dal tavolo, la
ragazza era così traballante che Seth si era
domandato come aveva fatto a salire in primo luogo. Si era trovato in imbarazzo
come mai
prima, lui che l'imbarazzo lo conosceva solo di nome: mentre cercava un
modo conveniente di farla scendere senza toccare punti strategici
– cosa che
senza il suo permesso non avrebbe mai fatto – Niamh aveva riso per tutto il
tempo. Alla fine aveva avuto successo. Con un
ultimo “ciaaaooo” da parte di
Niamh, era riuscito ad imboccare la via di casa. " Vuoi che ti porti
all'appartamento? ", aveva domandato, con
poche speranze di ricevere una
risposta coerente. " Noo, sono troppo ubriaca. ", aveva affermato
lei, allegra. Seth aveva sollevato un
sopracciglio: " Ma si può sapere
quanto hai bevuto? " Niamh ci aveva pensato un po' su: " Mah. Due
o tre sorsi... da due o tre bottiglie. "
Seth aveva sospirato. Infine,
non senza un certo sforzo, erano approdati a casa sua. I suoi tentativi di
aprire la porta erano stati
accompagnati dalle risatine irrequiete della sua
bella. " Non cercherai di approfittare di me, no? ", aveva chiesto
ad un certo punto Niamh
con falsa preoccupazione. Si era guadagnata uno sguardo
severo: " Tu ci scherzi, ma sei fortunata: cosa sarebbe successo se fossi
stato
qualcun altro? " Negli occhi chiari di lei era apparso un barlume
di consapevolezza: gli era sembrata quasi sobria. " So che sono fortunata
ad averti. Grazie, Seth. Di tutto. ", gli aveva detto seria, appoggiando
la testa sul suo petto. " Sei così caldo... non c'è nessuno più caldo di
te.
" Seth aveva sentito il sangue bollire sotto la pelle. Quella notte
l'aveva passata sdraiato accanto a lei, guardandola dormire, un braccio
attorno
alle sue spalle esili. Non voleva sentisse freddo; se l'avesse lasciato fare,
non l'avrebbe sentito mai più.
Emily aveva
avuto ragione. Ogni giorno di quell'inverno che scivolava via andava peggio.
Ogni ora, ogni minuto, ogni secondo. Bastava che
Seth fosse nella stanza per
farla sentire disgustosamente felice. O disgustosamente triste, ogniqualvolta
vedeva un'ombra nei suoi occhi.
Occhi che, ormai aveva capito, potevano
strappare segreti alle anime più oscure. E in poco tempo, Seth era arrivato a
conoscerla più di
chiunque altro. Quello che era più sorprendente era che a lei
era capitato lo stesso: sapeva tutto. Tutto: che quando era caduto, a cinque
anni, aveva rischiato di tagliarsi la lingua; che quando era perplesso sollevava
il sopracciglio sinistro – solo quello; che suo padre faceva la
miglior frittura
della riserva; che era felice che sua madre avesse scelto il migliore amico di
suo padre per rifarsi una vita; che la persona
che ammirava di più era Jacob
Black, il ragazzo della foto in cucina; che avrebbe dato la vita per i suoi
amici; che voleva bene a sua sorella
nonostante fosse, a suo dire, la più grande
rompipalle sulla faccia del creato. Sapeva tutto questo, e non aveva avuto
bisogno di chiederlo.
Eppure, lo aveva sentito, c'era un pezzo mancante nel
puzzle verde muschio della vita di Seth Clearwater. Non aveva capito cosa, non
subito – e mai avrebbe potuto lontanamente immaginare la realtà. Ma, come tutte
le cose, la verità non rimaneva mai sepolta al lungo:
tendeva a saltare fuori ai
momenti meno opportuni. Per la precisione, nel suo caso, si era trattato di
un'apparentemente innocua gita nei
boschi attorno alla riserva. Niamh ricordava
di aver camminato per ore: i suoi poveri piedi gridavano di dolore, la sua
schiena era a pezzi.
Però aveva fatto delle foto spettacolari. Persino Seth, che
di solito osservava la sua macchina come fosse un congegno alieno, si era
improvvisato fotografo: l'aveva fatta mettere in posa e aveva premuto il tasto
“scatta” una quantità imprecisata di trilioni di volte. Chissà
se le aveva
finito il rullino, si chiedeva, seduta su una pietra mentre stiracchiava le dita
intirizzite. Sola. Si sentiva sempre tanto sola
quando Seth non c'era, anche se
era a pochi passi da lei, come in quel momento: era andato a prendere legna per
il fuoco. Sarebbero
rimasti lì ancora per un po'. Ancora per un po', aveva
pensato tristemente, prima di partire per il suo lungo viaggio. L'inverno era
agli
sgoccioli: presto sarebbe stato il momento di andare. Però non voleva
pensarci, non allora: quel giorno era tutto per loro. Lo schiocco secco
di una
ramo l'aveva distratta: quando aveva alzato gli occhi da terra ci aveva messo
qualche attimo a registrare la presenza dell'enorme
bestione che grugniva piano
con gli occhi fissi su di lei. Avrebbe ricordato quella sensazione per sempre:
il sangue che defluiva dal viso, il
panico che scorreva gelido giù per la spina
dorsale. Non aveva mosso un muscolo mentre l'orso, apparentemente svegliatosi in
anticipo dal
letargo, avanzava verso di lei, con un brontolio basso. Aveva
provato disperatamente a ricordare come doveva comportarsi, ma il suo
cervello
era sconvenientemente privo di nozioni al riguardo. Cerca di mantenere la
calma, si era detta, scivolando giù dalla pietra,
cominciando a indietreggiare.
Non fare movimenti bruschi. Già. Aveva appena formulato quel pensiero che era
finita su un residuo di erba
innevata, cadendo immediatamente per terra con un
urlo strozzato. L'orso era parso non gradire: Niamh l'aveva visto muoversi verso
di
lei, ondeggiando, sempre più vicino, tanto vicino da sentirne il fiato;
l'aveva visto sollevare la zampa enorme su di lei; aveva sentito la
carne del
braccio che si lacerava senza rumore. Il dolore era stato devastante: un gemito
di sofferenza le era uscito dalle labbra. Un gemito
che si era mescolato ad uno
più lungo, animalesco, non suo: il verso di un animale.
Il verso di un
lupo enorme, aveva riconosciuto stordita, mentre sentiva colare via da sé il
sangue, lo sentiva scivolare sulla pelle,
impregnare la stoffa. L'enorme lupo
color sabbia, spuntato chissà da dove nella boscaglia si era lanciato contro
l'orso, di cui eguagliava la
mole, con un ringhio rabbioso. Niamh li aveva
guardati lottare, stranamente distaccata: sentiva tanto, tanto freddo. Quando
aveva avuto
una visione più chiara delle cose, l'orso non c'era più: c'era solo
il lupo enorme che la guardava, ed i suoi occhi avevano espresso un panico
e
una paura quasi umani. Quel lupo l'aveva guardata con gli occhi di Seth. Forse
stava delirando per il dolore, ma aveva visto chiaramente
il miracolo che si era
compiuto di fronte ai suoi occhi: il lupo che si contorceva, il pelo che si
ritirava nella pelle, il collo che rimpiccioliva; gli
artigli divenivano dita
umane, olivastre e sporche di grasso. Solo gli occhi erano rimasti gli stessi,
neri, neri e lucenti di lacrime. " Niamh!
Niamh, ti prego! " E poi
era diventato tutto buio.
Seth si passò
una mano tra i capelli corti: non avrebbe mai potuto dimenticare le ore passate
seduto nella sala d'aspetto. Da lupo aveva
chiamato Sam ed il suo branco, più
per conforto che per altro: erano venuti subito, con Emily alle calcagna. Non
avrebbe saputo descrivere
come si sentiva: era come se ad essere ferito fosse
stato lui; avrebbe voluto che fosse così. Tutto era meglio che veder soffrire
lei. Tutto.
Né avrebbe potuto esprimere a parole la sensazione
di calore che aveva provato quando aveva saputo che sarebbe stata bene. Era
entrato
subito nella piccola stanza asettica e si era sentito morire dentro alla
vista del bendaggio che le fasciava il braccio. La cicatrice sarebbe
rimasta per
sempre, aveva detto il dottore. Il suo viso era ancora pallido per la perdita di
sangue: le avevano fatto delle trasfusioni ed il
suo odore ne risentiva. L'aveva
vegliata per ore; poi, quando aveva visto che si stava svegliando, le ciglia
chiare che tremavano sulle
guance esangui, era uscito dalla stanza.
Non l'aveva trovato con lei, al suo risveglio. Al
suo posto, dove l'aveva visto nei vaghi attimi di lucidità, sedeva Emily, lo
sguardo
preoccupato fisso su di lei. " Non
dovresti stancarti tanto, sai? ", aveva biascicato, ancora intontita
dai sedativi. Per la prima volta aveva
visto la rabbia nei suoi occhi gentili: " E tu non dovresti farmi
prendere questi colpi. " Con uno sforzo sovrumano, Niamh si era guardata
intorno: " Seth? " Lo sguardo di Emily si era rattristato: " E' stato qui fino a poco tempo fa. " Niamh aveva sentito il
cocente schiaffo della
delusione: " Oh. " Erano rimaste in
silenzio a lungo: Emily non le aveva chiesto nulla. Si era limitata a guardarla
con i suoi occhi penetranti
e consapevoli. Il cervello di Niamh stava lentamente
processando i suoi ricordi dell'accaduto: l'orso, la ferita e... il lupo. Il
lupo enorme...
Seth era il lupo. Aveva sentito gli occhi farsi enormi, mentre
cercava di scattare a sedere, provocandosi un dolore lancinante al braccio nel
processo. Tra le braccia di Emily che l'aveva afferrata, si era ritrovata le
guance bagnate di lacrime: " Emily ", aveva sussurrato piano
incredula, " io... io credo di
essere diventata pazza, sai? " " Pazza? ", aveva incalzato lei
gentilmente. Così, Niamh aveva vuotato il sacco:
per sentirsi dire che non poteva essere vero o per avere
risposte, non lo sapeva. Ma Emily non l'aveva rassicurata, né l'aveva giudicata
fuori di senno. " Così l'hai
visto. ", si era limitata a dire. " Co...? Vuoi dire che era... vero? "
La ragazza più grande aveva annuito solenne. E
le aveva raccontato tutto. Tutto. Ogni cosa che ancora non
sapeva sul conto di Seth: la verità nelle antiche leggende, i vampiri e i
licantropi, guerre, lotte che le erano parse più una favola che la realtà. E poi
le aveva detto dell'imprinting. " Imprinting... cosa?! Mi... mi
stai
dicendo che, a causa di una legge non meglio identificata, io sono obbligata ad
adorare la terra su cui cammina e viceversa? ", le aveva
chiesto con
tanto d'occhi: Tutto quello che provava... tutto quell'affetto, quell'amore,
quel bisogno bruciante, lo sentiva solo a causa di una
mitica leggenda
miracolosamente diventata realtà? Non... non c'era nulla di vero, era solo una
costrizione? Emily aveva corrugato la
fronte: " Non sei costretta. Tu
puoi provare a negarlo. Forse che questi sentimenti ti sono sgraditi? Sa il
cielo quanto avrei voluto che lo
fossero, quando si è trattato di Sam e di me.
Questo mio amore, che ancora mi da felicità senza limiti, ha quasi distrutto una
delle persone
che amavo di più, sai? " aveva detto amara. No, aveva
pensato Niamh. Non le erano sgraditi, come avrebbero potuto? Seth era la cosa
più
bella che le fosse mai capitata, stare con lui era facile come respirare.
Però, non aveva potuto evitare di percepire il sapore amaro di un
legame per cui
lei non aveva possibilità di scelta. Legami, legami legami: allora le era parso
di trovarsi in una gabbia. La più bella
immaginabile, vero, ma pur sempre una
gabbia. E lei, lo sapeva per esperienza, non era brava a gestire le gabbie: era
un uccello
viaggiatore, e distruggeva il cuore di coloro che lasciava per la sua
sete di libertà. No, si era detta, sdraiata su quel letto d'ospedale. Le
gabbie
non facevano per lei. E adesso non doveva più pensare solo a se
stessa.
Glielo aveva
detto sulla spiaggia della riserva, appena era uscita dall'ospedale. Seth aveva
mangiato con gli occhi la sua immagine: sapeva
che l'addio era vicino. Tutto di
lei glielo diceva: lo sguardo sofferente, la bocca piegata all'ingiù, il viso
cereo. La macchina parcheggiata,
carica di bagagli " Stai partendo. ", aveva osservato. Non era una domanda. " Sì. ", si era
limitata a dire. " E' per quello che sono? " Niamh
ci aveva
pensato un momento: " No. ", aveva decretato infine. " No.
E' perché tutto questo è... decisamente troppo grande per me.
Guardami: sono
qui, di fronte ad un meccanico che si trasforma in un lupo enorme e non faccio
una piega. A condizioni normali, sarei già in
viaggio da molto. ", aveva
tentato di scherzare. Il suo sorriso era curiosamente simile ad una smorfia di
dolore. " Ti sembrerà ipocrita e
crudele da parte mia, ma credimi se ti
dico che lo faccio per noi. Fammi parlare. " Aveva teso una mano tra di
loro. " Io ti conosco, Seth. Ti
conosco meglio di quanto conosca me
stessa, e so che tu non potresti mai venire via con me. Tu... ami la tua vita,
ed io non ti chiedo di
lasciarla. Non posso. " " Io lo farei. Lo
farei, per te! ", aveva esclamato accorato. Il suo labbro inferiore
aveva tremato pericolosamente: "
Lo so. E so che te ne pentiresti per il
resto della vita. Mi odieresti. Io non posso restare e tu non puoi partire: non
c'è soluzione. "
L'aveva baciato.
Aveva voluto solo un ultimo ricordo da custodire, per il resto della vita. E lo
avrebbe fatto: non avrebbe mai potuto
dimenticare, né descrivere il senso di
completezza, di unione perfetta che aveva percepito. Per la prima volta da
quando era saltata in
macchina, due anni prima, abbandonando la sua casa, aveva
pianto fino a prosciugarsi. Se ne era andata, e se ne era pentita ogni secondo,
minuto, ora, giorno di quel mese di lontananza. Aveva visto il vuoto, come se il
braccio sinistro fosse staccato dal corpo invece che ferito.
Aveva sentito la
disperazione mentre pregava con ogni fibra del suo essere che Seth non stesse
allo stesso modo, pur senza troppa
speranza. Una sera, aveva preso in mano il
telefono dell'hotel. Per la prima volta dopo due anni, aveva composto il numero
di casa:
"Pronto? ", aveva chiesto incerta la voce di sua madre,
così come la ricordava. " Ho una domanda per te, mamma. " Il
silenzio si era
protratto a lungo dall'altro lato della cornetta : "
Dimmi. " " Cosa fanno gli uccelli migratori alla fine
dell'inverno? " " Tesoro mio, ma è
ovvio: tornano al loro nido. ", le aveva risposto con un singhiozzo nella voce. Già. Gli uccelli
tornavano al nido. E lei, lo vedeva alla luce dei
fari del suo macinino
scassato, era appena arrivata al suo.
Quante volte
ancora avrebbe creduto di sentire il motore della macchina di Niamh, si chiese
Seth sull'orlo della disperazione? Aveva fatto
come gli aveva detto: non l'aveva
cercata. Se era quello che voleva lo avrebbe avuto, a costo di morire. Ma allora
perché, perché non
poteva almeno dimenticare? Era sempre a pezzi, ogni giorno
era uguale all'altro. Cliente, dopo cliente, dopo cliente: anche a quell'ora
tarda
ne stava arrivando uno, a giudicare dai passi che sentiva. La porta si
aprì con il solito cigolio: un odore umano invase l'aria. Il suo odore.
Seth non
voleva voltarsi: sentiva che se lo avesse fatto, tutto sarebbe scomparso.
Eppure, il desiderio era troppo irrefrenabile. E la trovò lì,
la sua Niamh, i
capelli raccolti in una treccia sfatta, il viso stanco, gli occhi cerchiati da
occhiaie scure. La donna dei suoi sogni era lì, di
fronte ai suoi occhi e
l'unica cosa che gli uscì dalla bocca fu un incerto : " Problemi con la
macchina? " Niamh - o il suo ologramma: non era
del tutto sicuro –
sorrise . " Una mano mi farebbe comodo. " Si avvicinò a lei, senza
osare toccarla. Non poteva essere reale. " Sei...? " "
Una
povera stupida, già. ", disse, poggiandogli la testa sul petto. "
Sono così irresistibile? ", le domandò, ora che sapeva di non essere del
tutto partito di testa. " Ovvio. Il tuo charme è quello che più apprezzo
di te. " " Perché sei tornata? ", incalzò, seriamente
stavolta. Niamh
rispose col suo famigerato sorriso storto: " Sai cosa
fanno gli uccelli migratori alla fine dell'inverno? " Seth scosse la
testa, confuso: che
c'entravano gli uccelli? " Tornano al nido. In
effetti, ho finalmente capito che la libertà non conta niente, se non hai un
nido dove tornare. E
mi dispiace per te, ma sembra che tu sia il mio.",
concluse, " Se c'è ancora spazio per me. " Seth l'abbracciò
strettamente, come se potesse
scivolare via di nuovo: " Non è che abbia
molta scelta ", mormorò tra i suoi capelli, " la qual cosa non mi
dispiace affatto. "
Fin
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