Titolo:
Rassegnato
è l'atto ultimo
Rating:
Giallo, ma solo per il contenuto di termini volgari
Conteggio parole:
7165
Note
dell'autrice:
La prima frase della fan fiction è tratta da una famosa
citazione di
George Bernard Shaw, «In battaglia, tutto ciò che
ti serve, è un
po' di sangue caldo e la consapevolezza che perdere è
più
pericoloso che vincere».
Non avevo intenzione di pubblicarla, in realtà, ma essendo
passato così tanto dall'ultimo aggiormento del Diario mi
sono sentita in colpa. :) Questa è l'unica fan fiction in
archivio di cui, al momento, dispongo.
È
stata scritta per la seconda prova del Torneo di Quidditch di HpQuiz.it,
al fantastico staff e agli iscritti del quale, fra l'altro, vorrei
dedicare questa storia.
A Piero, in particolare, che ne sa già il motivo.
“«C'è del buono
in questo mondo, padron Frodo.
È
giusto combattere
per questo».
Da
Il Signore degli
Anelli – Le due torri”
Se
è vero che per
resistere alla ferocia della guerra occorre avere una pari
quantità
di coraggio e fortuna, è altrettanto vero che si
è obbligati a
sapere che perderla, in effetti, ci sfregerebbe
molto più che
non vincerla.
Remus
ne era
consapevole dall'età di nove anni. Non era che un bambino
quando fu
costretto a comprendere la differenza fra ciò che era vittoria
e
ciò che era sconfitta. Qualcuno avrebbe
potuto alludere al
fatto che, in fondo, si vince quando si resta vivi
– ma,
così dicendo, non farebbe che dimostrare la propria
stoltezza. La
vita non era affatto una vittoria, e Remus, questo, lo sapeva
perfettamente: aveva dimenticato il numero di volte in cui era caduto
con le ginocchia nel fango, incapace di sopportare altri dolori e
ingiustizie, miseramente umiliato e sconfitto. Chi può osare
cingersi in capo con foglie d'alloro se sovente crolla sulle proprie
gambe e abbassa penosamente lo sguardo?
Con
un sospiro
spossato, Remus sollevò il capo al di là delle
belle trifore che
circondavano il cortile di Hogwarts e osservò colpito la
serenità
del cielo notturno. Mentre contemplava lo splendore delle sue stelle
incantate, cercò di immaginare cosa sarebbe accaduto se
avessero
perduto quell'ultima battaglia decisiva. Socchiuse gli occhi e vide
lunghe fila di Nati Babbani, sporchi e sciupati, violentemente
trascinati verso un ampio patibolo grondante di sangue.
Immaginò il
cielo di Londra tinto dello stesso colore, su cui le
grandiosità
degli edifici Babbani si sarebbero stagliate tetre, buie e deserte.
Focalizzò ogni conseguenza della vittoria di Lord Voldemort,
stringendo sempre di più i pugni e pregando
affinché potesse rimane
niente più di una sua tragica e nefasta fantasia. Se lo
figurò
decretare la morte di tutti i traditori del proprio
regime
e, tentando di figurarsi morto, si
scoprì molto più
tranquillo di quanto non lo fosse al pensiero delle orde bellicose
dei Mangiamorte che appiccavano fuoco alle dimore dei Babbani e dei
Sanguesporco – o agli stessi Babbani e Sanguesporco, nelle
più
macabre delle sue ipotesi. D'un tratto, fu duramente colpito
dall'immagine del corpo privo di vita della moglie, riverso nel
pavimento del soggiorno e contorno in angolature innaturali, con i
begli occhi scuri vacui e distanti e il ventre squarciato e
sanguinante. Non poté resistere alla visione di Fenrir
Grayback che
affondava i denti gialli e puntuti nella piccola e fragile gola di
Teddy e spalancò gli occhi, impietrito dall'orrore. Fece un
profondo
respiro e deglutì forzatamente, mentre tentava di ricacciare
indietro quei disgustosi pensieri.
“Non possiamo
perdere” si disse con angosciata determinazione. “Buon
Dio, non possiamo”.
«Remus»
lo chiamò la
voce profonda di Kingsley.
Colto
alla sprovvista,
Remus trasalì impercettibilmente e volse rapido il capo
verso il
compagno. Con apparente calma, gli rivolse un mesto sorriso.
«Buonasera,
Kingsley»
rispose roco, mentre appoggiava nuovamente la schiena ad una delle
colonne di marmo e appoggiava l'avambraccio destro al ginocchio.
Kingsley
lo studiò
dettagliatamente per qualche istante, prima di avvicinarsi e prendere
posto accanto a lui. Anch'egli, sovrappensiero, alzò gli
occhi al
cielo.
«Se
non altro, è una
bella serata» affermò con triste ironia.
Le
labbra di Remus
s'incrinarono lievemente verso l'alto.
«Non
hai idea di
quanto fossi preoccupato all'idea che potesse piovere»
scherzò. «Mi
avrebbe rovinato la giornata».
Kingsley
emise un breve
sbuffo divertito.
«Come
sta Tonks?»
s'informò dopo un attimo di silenzio.
Remus
annuì
fugacemente.
«È
a casa con Teddy».
«Sei
esasperante»
ridacchiò appena Kingsley. «Mai una volta che ti
si senta
rispondere con chiarezza ad una domanda».
«Ho
il timore di
annoiare i miei interlocutori» ribatté Remus.
«Soprattutto quando
mi chiedono di cose di cui sono già a
conoscenza».
Kingsley
rimase zitto
qualche secondo e gli rivolse un debole sorriso.
«Touché»
disse, volgendo nuovamente il viso verso di lui. «L'hai
costretta a
rimanere a casa, allora?».
Alla
franchezza di
quella domanda, Remus reagì nervosamente. Chinò
lesto la testa e
cercò di evitare lo sguardo indagatore dell'altro, mentre
sfregava
fra loro i polpastrelli della mano destra.
«Non
potevo
permetterle di venire» rispose laconico. «Non ora
che c'è Teddy».
«No,
infatti» ne
convenne Kingsley, con una punta di rimprovero. «Nemmeno lei
avrebbe
dovuto permetterti di venire. Non ora che sei padre,
Remus».
«È
per lui che
sono qui» affermò con estrema convinzione,
muovendo concitato il
capo. «Non posso rischiare che cresca in un
mondo...» ruotò
vagamente la mano, incerto sulle parole da usare. «Be', non
certo in
un mondo così. Non voglio pensare a
cosa potrebbe loro
accadere se questa dannata guerra dovesse concludersi con la nostra
sconfitta».
Kingsley
fece una
smorfia.
«E
hai pensato a cosa
potrebbe accadergli se tu dovessi...»
replicò, lasciando
volutamente cadere la frase nel vuoto.
Remus
strinse le labbra
e fece un profondo respiro.
«Sinceramente»
disse,
«non desidero pensarlo affatto».
«Professor
Lupin?»
l'interruppe una timorosa voce femminile.
Remus
si voltò verso
la grande porta di legno di quercia che conduceva al Salone
d'Ingresso e vide la piccola ombra di Lavanda Brown stagliarsi nella
luce delle torce della stanza. La giovane fece un paio di passi in
avanti e li scrutò intimorita qualche istante. Remus le
rivolse un
sorriso disponibile.
«Buonasera,
Lavanda»
la salutò gentilmente.
Parve
stupita che si
ricordasse il suo nome dopo quasi quattro anni, perché
esitò un
attimo ancora prima di parlare.
«La
professoressa
McGranitt ha chiesto di lei e del signor Shacklebolt»
spiegò. «È
in Sala Grande, ora. Vi sta aspettando».
«Ti
ringrazio,
Lavanda. Puoi dirle che arriviamo fra un istante, per
favore?».
La
ragazza annuì
rapidamente e si diresse verso la porta. Sull'uscio, si
voltò per
rivolgere un debole sorriso in direzione di Remus. Kingsley
ridacchiò
leggermente.
«Quando
dici che sei
un professore discreto, Remus, mi verrebbe voglia
di prenderti
a sberle» commentò con schiettezza. «Al
contrario di quanto ti
ostini a ribadire, questi ragazzi sembrano ammirarti
parecchio».
Remus
si alzò in piedi
e finse di sistemare il polsino sdrucito della propria camicia,
incerto su come replicare.
«Non
è difficile
insegnare quando i propri studenti sono volenterosi di
imparare»
disse, mentre un lieve sorriso gli inarcava le labbra. «Un
po' come
vincere una guerra quando il cielo ci fa la cortesia di essere tanto
sereno».
Kingsley
inarcò un
sopracciglio, sarcastico.
«Inizia
a pregarlo,
allora, questo maledetto cielo» rispose, mentre si alzava a
sua
volta e si lisciava le pieghe del mantello con aria distratta.
«Dio
solo sa quanto ne avremmo bisogno».
Remus
gli rivolse
un'occhiata eloquente.
«Puoi
giurarci che lo
farò».
Plinio
il Vecchio
sosteneva che la nostra casa si erge in una terra assai più
distante
e inesplorata di quelle sulla quale abbiamo posato mattoni e
calcestruzzo. Egli era solito ribadire che la più riparata
ed intima
delle dimore non fosse quella sotto la quale dormiamo,
ma
quella nella quale riposa il nostro cuore.
Con
i palmi delle mani
sottili appoggiati al davanzale della finestra della sua vecchia
camera da letto, l'esile figura di Tonks si stagliava contro i
riflessi vagamente rossastri del cielo di Londra, inondato dalle luci
dei lampioni e dei grandi palazzi Babbani. Non andava osservando
nulla di particolare nel cortile che circondava la casa, ma le sue
sopracciglia erano corrugate in un'espressione estremamente
concentrata e le sue labbra erano tirate in una smorfia nervosa.
Nonostante indossasse solo una leggera canottiera di cotone, non
pareva curarsi dell'aria vagamente pungente della notte.
La
porta alle sue
spalle si aprì con un debole schiocco della maniglia. Per un
attimo,
un fascio di luce dorato invase la stanza, illuminando una variopinta
giostra di lune e stelline appesa alle staffe di sostegno di una
modesta culla di legno.
«Chiudi
la finestra,
Ninfadora» la ammonì con voce incerta Andromeda,
richiudendo la
porta alle spalle e scrutandola con trepidazione. «Non vorrai
fare
ammalare il bambino».
Tonks
ruotò
impercettibilmente il capo verso di lei, fece un passo indietro e
chiuse la vetrata con un gesto meccanico. Quando Andromeda
intuì che
la figlia non era intenzionata a spostarsi, si avvicinò alla
culla
del nipote e rimboccò la piccola trapunta celeste. Nel
vederlo
storcere il piccolo naso e stringere le manine paffute, non
poté
trattenere un sorriso lievemente amaro. Con un sospiro spossato,
sollevò di nuovo la testa verso Tonks.
«Non
serve a nulla
restarsene impalate lì» le disse mestamente.
«Non lo vedrai
tornare attraversando il nostro cortile».
“Tieni d'occhio il
cortile, mia cara”
risuonò
una voce dolorosamente
familiare nella sua testa. “È
l'unica strada che potrei
mai usare per tornare a casa”.
«Lo
so» mormorò
flebile Tonks, spostando faticosamente lo sguardo dalla finestra alla
volto magro e provato della madre. «Ma non posso farci
niente.
Continuo a immaginare che possa comparire davanti al cancello da un
momento all'altro».
«È
troppo presto,
Ninfadora» affermò con franchezza Andromeda.
«Non credo che la
battaglia sia ancora cominciata».
A
quell'affermazione,
Tonks trasalì e socchiuse angosciata gli occhi, trattenendo
il
respiro per un paio di istanti. Quando dischiuse di nuovo le
palpebre, osservò la madre con uno sguardo di folle
risolutezza.
«Devo
andare da lui».
Andromedà
sgranò gli
occhi e s'irrigidì, spaventata. Scosse febbrilmente la
testa,
incapace di credere a quanto aveva appena udito. Aveva l'impressione
che il proprio cuore avesse appena perso un paio di battiti.
«No»
le proibì con
un autorevole sospiro. «Non lo farai. Non
anche tu».
«Non
posso restare»
protestò con voce rotta. «Io sono un'Auror,
mamma».
«Tu
sei una madre,
Ninfadora!» esclamò concitata Andromeda,
avvicinandosi rapidamente
alla figlia e stringendole le mani. «Buon Dio, pensa al tuo
bambino.
Cosa mai potrei dirgli se tu dovessi... dovessi...»
si fermò,
incapace di concludere il pensiero dell'orribile eventualità
della
sua morte e scosse di nuovo il capo, fermamente. Strinse con violenza
gli occhi e gettò le braccia al collo della figlia con un
sommesso
singhiozzo.
«Tornerò»
le disse
piano Tonks, abbracciando la madre con energia e affondando il volto
rigato di lacrime fra i suoi bei capelli mori. «Te lo giuro,
mamma.
Te lo giuro».
«Non
dirmi questo...»
biascicò addolorata Andromeda. «Lo ha detto anche
tuo padre».
Tremante,
Tonks si
morse il labbro inferiore e cercò di ricacciare dalla mente
l'immagine del corpo scarno e straziato del padre, abbandonato ai
corvi e ai ratti fra le sterpaglie e il fango del bosco di Dean.
“Non fare domande
sciocche al tuo vecchio” eruppe
una distante risata
piacevole e rassicurante. “Sarò di
ritorno in tempo per
convincervi a chiamare il mio primo nipote come il suo fortissimo
nonno”.
Allontanò
stentatamente da sé la madre, ma non fu in grado di
sollevare la
testa e guardarla negli occhi.
«Non
rendere tutto
così difficile» la pregò.
Le
narici di Andromeda
fremettero appena, mentre sgranava gli occhi dallo sgomento e
gonfiava indignata il petto.
«Come
puoi dirmi
questo?» mormorò minacciosa,
scrutando nervosamente il volto
pallido della figlia. «Come puoi farmi questo!?».
«Io
devo
andare, mamma!» gridò con veemenza Tonks,
liberandosi dalla sua
presa e scuotendo affranta il capo. «Ho il dovere
di farlo!».
«Finiscila
di parlare
di doveri, quando è evidente che non hai
ancora capito quali
siano i tuoi!».
Nella
sua culla, Teddy
emise un piccolo strillo di disapprovazione; nessuna delle due donne,
tuttavia, parve accorgersene. Rimasero un paio di istanti in
silenzio, occhieggiandosi con ardente rimprovero e respirando allo
stesso ritmo frenetico.
«Il
mio dovere di
Auror mi impone di raggiungere Hogwarts e combattere.
Il mio dovere di moglie mi impone di combattere al
fianco di
mio marito» scandì con durezza, mentre
si avvicinava alla culla
del figlio. «E il mio dovere di madre mi
impone di combattere
per mio figlio».
«E
il tuo dovere di
figlia, Ninfadora, non t'impone nulla?»
fremette appena
Andromeda, mentre la osservava sollevarlo con delicatezza e
dondolarlo piano fra le braccia.
«Di
tornare da te,
mamma» rispose mestamente Tonks, distogliendo con aria
colpevole lo
sguardo dal bambino per lanciarle un'occhiata penetrante. «E
farò
di tutto per rispettarlo».
Andromeda
continuò a
fissarla mentre tentava di calmare il pianto del neonato, cullandolo
appena e bisbigliando una filastrocca con voce debole.
«Bimbo
bello della
mamma, falla tutta la tua nanna. Bimbo bello del papà,
domattina
arriverà» canticchiò a bassa
voce. S'interruppe per carezzare
la guancia rosea di Teddy e cercò di reprimere le lacrime.
«Vado a
riportare a casa il tuo papà, cucciolo»
mormorò con un
sorriso tremulo. «E domani, quando sarà mattina,
ti racconterò di
quanto la tua mamma sia stata in gamba nell'acciuffarlo al volo prima
che potesse cadere. Perché io e te lo sappiamo che
è lui, in
realtà, quello che inciampa spesso».
La
piccola folla di
giovani combattenti si fermò davanti alla porta che
conduceva al
cortile esterno della scuola, tesi e silenziosi. In parecchi si erano
offerti di provvedere alla difesa degli ingressi di Hogwarts. Ritti
come prodi soldatini, osservavano con frenetica impazienza i tre
maghi che li stavano guidando, attendendo agitati di ricevere i loro
ordini.
Dopo
averli scrutati
con espressione marmorea per diversi istanti, Remus rivolse loro un
sorriso di gentile indulgenza.
«So
che avete paura»
disse. «L'abbiamo tutti».
«Non
abbiamo paura,
professor Lupin!» protestò una voce con un calcato
accento
irlandese. «Vogliamo combattere!».
Mentre
il sorriso gli
si allargava, Remus allungò il collo per scorgere il volto
tumefatto
e scarno di Seamus Finnigan fissarlo con aria indignata. Al suo
fianco, Dean Thomas annuì con estrema risoluzione.
«Conosco
il talento di
ognuno di voi, Seamus. Ricordo perfettamente quanto grande fosse la
vostra abilità» rispose con lo stesso tono posato
che usava durante
le proprie lezioni. «Ma non dovete credere che la paura sia
cosa di
cui vergognarsi. Anch'io ho molta paura».
Risentire
la voce del
loro insegnante preferito ebbe un effetto sanatorio sugli studenti.
Le gemelle Patil sfoggiarono un coraggioso sorriso; Lavanda Brown,
alla sinistra di Calì, mosse il capo un paio di volte con
aria
concentrata; dietro di loro, Anthony Goldstein e i suoi compagni di
Corvonero si scambiavano occhiate eloquenti; le spalle di Seamus
Finnigan e Dean Thomas si piegarono in una curva più
rilassata,
sebbene le loro dita continuassero a stringere con violenza le
impugnature delle proprie bacchette.
«Vi
avevo salutato
quando eravate dei ragazzini – in gamba, certo, ma pur sempre
dei
ragazzini. Oggi mi ritrovo davanti ad uomini e donne che hanno
dimostrato molto più valore della maggior parte degli
impiegati del
Ministero della Magia. Permettetemi di dirvi che sono estremamente
fiero di voi» Remus si fermò per fare un profondo
respiro.
«Tuttavia, ciò che vi chiederò di
affrontare questa notte è una
sfida ben più ardua di quelle che avete affrontato nel corso
di
quest'ultimo anno. Sarete costretti ad uccidere per
non essere
uccisi ed io vi prego con tutte le mie forze di non
sottovalutare la perfidia dei vostri avversari, poiché va al
di là
di qualunque perfidia abbiate mai incontrato» s'interruppe
ancora e
li scrutò gravemente. «Questa notte
cambierà la vostra vita.
Cambierà i vostri amici. Cambierà voi stessi.
Potreste anche
perdere, questa notte» aggiunse una smorfia di disappunto.
«Potreste
morire, questa notte, e potreste veder morire i vostri amici.
Potreste perdere ciò a cui tenete. Potreste perdere davvero
molto»
mormorò. «Ma ciò che vi ha convinto a
restare, quello è
immortale e niente – niente –
di questa notte potrà mai
portarvelo via. La vostra arma più potente non è
il coraggio dei
Grifondoro» disse, volgendo il capo verso Seamus e Dean.
«Non
l'arguzia dei Corvonero» riprese, scrutando le cravatte
argento e
blu delle ultime fila. «Non la generosità dei
Tassorosso» concluse
in direzione della testa ricciolina di Ernie MacMillan. «Ma
l'amore
che vi ha condotto qui. Il Preside Silente sosteneva che non esiste
forza al mondo in grado di sconfiggerlo» fece un'altra pausa
e
carezzò vagamente la propria bacchetta.
«Combattete per amore e
questa non sarà la nostra ultima notte,
ma l'ultima notte di
guerra. Combattete per amore, ragazzi, perché domani vedremo
un'alba
più bella».
Incurante
del fatto che
il suo corpo non si fosse ancora del tutto ripreso dalla gravidanza,
Tonks iniziò a correre lungo High Street non appena si fu
Materializzata nel villaggio di Hogsmeade. Superò
Scrivenshaft, il
negozio di piume e calamai, e si gettò in una stretta e
maleodorante
stradina alla sua sinistra. Oltrepassò un paio di case e
spalancò
senza alcuna cautela la porta sgangherata. Prima che potesse
rendersene conto, si ritrovò sotto il tiro della bacchetta
di
un'anziana signora dall'aspetto temibile. Indossava un lungo abito
verde e un cappello a punta sul quale svettava l'avvoltoio impagliato
più grosso che Tonks avesse mai visto. La strega
aggrottò le
sopracciglia mentre osservava la sua capigliatura rosa. Dopo un
attimo di riflessione, abbassò la bacchetta e scosse il capo
con
aria di disapprovazione.
«Sei
forse impazzita,
signorina Tonks?» la rimproverò. «Ti
sembrano questi i tempi per
sfondare una porta a calci?».
Tonks
strabuzzò gli
occhi un paio di volte, domandandosi se la donna che le stava di
fronte fosse la stessa a cui le stava pensando-
«Lei
è la signora
Paciock?» domandò incerta.
«Ovviamente»
rispose
quella, gonfiando il petto d'orgoglio. «Ed ora, se non ti
dispiace,
dovrei controllare che mio nipote non si sia cacciato nei pasticci
un'altra volta» aggiunse, mentre raddrizzava il cappello e si
voltava verso il ritratto della giovane fanciulla appeso al muro.
«Aspetti!»
la chiamò
con urgenza lei, rovesciando una sedia. «Devo sapere
dov'è
Aberforth. So che conosce un modo di entrare ad Hogwarts eludendo la
sorveglianza dei Mangiamorte!».
La
signora Paciock la
guardò con un sopracciglio educatamente inarcato.
«Mia
cara, Aberforth è
già ad Hogwarts».
Tonks
si sentì
mancare.
«Ma
io devo
andare ad Hogwarts».
«Oh,
non avevi dubbi a
riguardo. Tua madre lo ripete sempre che sei un'inguaribile
ritardataria» ribatté con leggerezza la donna.
«Chiudi la porta di
questa bettola, signorina Tonks».
Tonks
estrasse
lestamente la bacchetta e la puntò in direzione della
maniglia.
«Protego
Totalum».
Si
voltò appena in
tempo per scorgere la signora Paciock issarsi con sorprendente
agilità su una mensola. Laddove prima era attaccato il
quadro, ora
faceva mostra un grande passaggio oscuro. Tonks si avvicinò
a grandi
passi.
«È
una galleria!»
esclamò stupita.
«Una
galleria che
porta ad Hogwarts, cara» disse la donna, mentre ne varcava
l'entrata. «L'ha scoperta mio nipote» aggiunse con
fierezza.
Puntellandosi
con la
punta degli anfibi alla parete, Tonks si aggrappò alla
mensola e
saltò con un guizzo nel tunnel. Completamente distratta
dalla
visione delle lampade di ottone appese al muro, non vide il primo
gradino e rischiò di cadere in avanti.
«Mi
venisse un attacco
di Spruzzolosi!» sbottò la signora Paciock.
«Parola mia, sei più
goffa di un Troll di montagna. Fortuna che non puzzi
altrettanto».
Tonks
fissò la schiena
della donna con un'occhiata torva, ma preferì tacere. Per
diversi
minuti, l'unico rumore che si udì nella galleria fu il
ritmico
rimbombo dei loro passi.
«Perché
sei così in
ritardo, signorina Tonks?» le chiese d'un tratto la signora
Paciock,
schietta. «Credevo che voi Auror foste addestrati a correre
all'arrembaggio per primi».
«In
genere, è così,
ma io sono in congedo temporaneo» rispose Tonks.
Notò lo sguardo
interrogativo della donna e aggiunse brevemente: «Ho avuto un
bambino un paio di mesi fa».
La
signora Paciock
sgranò dapprima gli occhi, poi le rivolse un'occhiata
estremamente
grave.
«Credevo
fosse una
sciocchezza, quando me l'hanno riferito» disse.
«Hai davvero
sposato Remus Lupin, dunque».
Le
gote di Tonks
s'imporporarono d'indignazione e le dita scattarono leste
all'impugnatura della propria bacchetta.
«Qualche
motivo per il
quale non avrei dovuto farlo?» sibilò in tono
vagamente minaccioso.
Per
la prima volta, la
donna le rivolse un lieve sorriso.
«Affatto.
Remus Lupin
è stato l'insegnante migliore che mio nipote abbia mai
avuto»
ribatté. «Ma potrei trovarti almeno un centinaio
di motivi per i
quali non saresti dovuta venire».
«Mio
marito è ad
Hogwarts».
«E
vostro figlio è a
casa con tua madre, immagino».
Tonks
annuì
fugacemente.
«Il
tuo è un gesto
sconsideratamente precipitoso» la rimproverò.
«Essere madre
comporta sacrifici di natura ben diversa da quelli a cui andrai
incontro questa notte. Non è facendoti uccidere nel nome
della
giustizia che gli garantirai un futuro migliore».
«Si
sbaglia» la
corresse con forza Tonks. «Non è standomene a casa
che posso
sperare di garantirglielo».
La
signora Paciock fece
un profondo respiro.
«Sai
chi era mio
figlio?» le chiese debolmente, come se quella domanda
l'avesse
svuotata di tutta la sua altera energia.
«Sì,
signora
Paciock».
La
donna annuì, mentre
indicava vagamente una seconda rampa di scale in salita.
«Allora
non è
necessario che ti spieghi per quale motivo un bambino non dovrebbe
mai crescere senza genitori».
«Io
tornerò da
mio figlio» scandì con violenta determinazione.
«Non permetterò
che questo non accada».
«Fosse
l'ultima cosa
che fai?» replicò con uno sbuffo sdegnoso la
signora Paciock.
«Non
sono pronta per
immolarmi alla guerra. E nemmeno mio marito lo è»
ribatté Tonks.
«Non lo siamo più, perciò non
moriremo, questa notte».
Sbucarono
nella stanza
oltre il passaggio e Tonks si guardò intorno con aria
curiosa. Era
un ambiente dalle dimensioni imponenti. Le pareti erano decorati da
vivaci arazzi raffiguranti gli emblemi delle case di Hogwarts
(eccezion fatta per quello di Serpeverde, notò con una punta
di
soddisfazione Tonks) e qua e là erano appese diverse amache
colorate. Non ricordando l'esistenza di una simile aula, stava per
domandare alla signora Paciock se fosse certa che la galleria
conducesse realmente all'interno della scuola,
quando si sentì
chiamare da una flebile voce familiare.
«Tonks?»
chiamò Ginny, alzandosi da una sedia nascosta da una
traballante
libreria in un angolo. «Tonks, sei tu?».
«Ginny?»
esclamò
sorpresa lei, avvicinandosi alla ragazza.
Pallida
e con gli occhi
arrossati, la giovane le rivolse un'occhiata inquisitoria.
«Che
ci fai qui?».
«Potrei
chiederti la
stessa cosa» replicò Tonks, incrociando le braccia
al petto con un
sopracciglio inarcato.
Ginny
distolse lo
sguardo e iniziò a fissarsi la punta della scarpe.
«Mia
madre voleva che
restassi a casa» borbottò risentita. «E
quando sono arrivata, mi
ha costretto a rimanere qui».
Tonks
fece un sorriso
storto.
«Non
rimproverare tua
madre, Ginny. È comprensibile che voglia tenerti lontano
da... be',
qualunque schifezza stia accadendo là fuori».
«Senti
chi parla!»
sbottò irrequieta l'altra. «Il professor Lupin ha
detto che anche
tu saresti rimasta a casa!».
Trasalendo
appena,
Tonks si grattò nervosamente la nuca.
«Giusta
osservazione,
signorina Weasley» intervenne con voce stentorea la signora
Paciock,
sfilando la bacchetta da una tasca della veste e lisciandosi
distrattamente il cappello.
Ginny
la guardò con
espressione grave.
«Io
non posso restare
qui» affermò decisa, prima di spostare lo sguardo
dall'anziana
strega a Tonks. «Portami con te» la
implorò con gli occhi
brillanti. «Devo sapere dov'è la mia famiglia. Ti
prego,
Tonks».
«Se
ben ricordo, mia
cara, tu non sei ancora maggiorenne» s'intromise ancora la
signora
Paciock, scrutandola con evidente disappunto.
«Se
tua madre ti ha
ordinato di restare, io non ho l'autorità di
contraddirla» iniziò
vagamente Tonks. «Tuttavia, sono anche estremamente
sbadata»
aggiunse con un'occhiata eloquente. «E potrei... ecco,
dimenticare
accidentalmente di chiudere la porta».
Ginny
gridò la sua
gioia e le lanciò le braccia al collo, mentre la signora
Paciock
sbuffava contrariata e Tonks si lasciava andare ad una leggera
risatina.
«Mi
devi un centinaio
di Cioccorane, Ginny» scherzò.
«Domani
te ne darò un
migliaio, Tonks».
Per
quanto lui,
Kingsley e Arthur avessero abilmente tentato di fermare l'avanzata
delle truppe di Lord Voldemort, i Mangiamorte erano riusciti a
oltrepassare la soglia di Hogwarts. Quando avevano visto i violenti
giganti trascinarsi alle spalle del secondo gruppo di Mangiamorte,
Kingsley non aveva potuto far altro che ordinare la ritirata al
gruppo.
Mentre
correva verso le
scale che conducevano dalla parte opposta del castello – Bill
aveva
detto di avere dei problemi alla torre ovest - e si disse che se non
l'avesse conosciuta tanto bene, avrebbe stentato a riconoscere in
quel cumulo di macerie e marmi il Salone d'Ingresso di Hogwarts.
D'un
tratto, una
vecchia signora dai capelli rossi raffigurata in uno dei quadri
malamente appesi alla parete, lanciò uno strillo acuto.
«Alle
tue spalle,
giovanotto! Alle tue spalle!».
Remus
ruotò su se
stesso appena in tempo per schivare un fiotto di luce verde.
Sollevò
lo sguardo e individuò una ammantata figura nera con la
bacchetta
puntata verso di lui, con una lunga maschera dal sorriso perverso a
coprirgli il volto.
«Voldemort
non ti ha
insegnato che è maleducazione attaccare l'avversario alle
spalle?»
gli gridò Remus, sollevando la propria bacchetta in perfetta
posizione di guardia.
Il
Mangiamorte
s'irrigidì.
«Tu,
cane!»
gridò ferocemente, scagliandogli un potente Schiantesimo.
«Non
osare chiamare il mio Signore con la tua lurida bocca infetta!».
Remus
respinse
prontamente con un Sortilegio Scudo di notevole forza e rivolse
all'avversario una smorfia disgustata: aveva riconosciuto il timbro
aspro della sua voce.
«Sfila
quella
maschera, Dolohov» disse. «Non
combatto con chi è troppo
vigliacco per mostrare il viso al nemico».
«Fottiti,
animale!».
Il
braccio di Dolohov
si mosse con un guizzo estremamente rapido, ma Remus ebbe i riflessi
per gettarsi oltre la statua di Barnaba il Babbeo e rispondere con
altrettanta velocità. Il Mangiamorte ricacciò
indietro il suo
incantesimo con un movimento annoiato e iniziò a marciare ad
ampi
passi verso il proprio avversario. Accucciandosi ancora di
più oltre
la statua, Remus si rigirò la bacchetta fra le dita, in
nervosa
attesa.
«Ti
stai nascondendo,
Sanguelercio? Lo schifoso mannaro addomesticato di quel vecchio di
Silente se la sta già facendo sotto?» lo
schernì Dolohov, alzando
il braccio e puntandolo verso la statua.
Remus
arricciò
irritato il naso, ma rimase al proprio posto, immobile.
«Dimmi,
quella troia
Mezzosangue di tua moglie è a conoscenza dell'abominio da
cui si fa
fottere?».
«Idiota»
mormorò fra
sé Remus, muovendo con incredibile rapidità la
bacchetta.
Il
grande arazzo appeso
alla parete si staccò con uno fragoroso strappo e si
scagliò con
potenza contro Dolohov, che venne sommerso dalla stoffa e cadde a
terra. Remus tenne la bacchetta puntata contro il proprio avversario,
in modo che restasse schiacciato al pavimento dal ricamato ornamento.
«La
tua abilità come
duellante è scandalosamente peggiorata, Dolohov. E non
è che
l'ultima volta in cui abbiamo combattuto fosse un
granché» commentò
acido, calciando lontano la bacchetta del Mangiamorte.
«Dimmi,
quello schifoso del tuo padrone è a conoscenza
dell'incapacità
dell'imbecille che ha arruolato?».
Un
agitato mormorio
incomprensibile si levò dall'arazzo. Remus suppose che il
Mangiamorte stesse tentando di Appellare la propria bacchetta,
nonostante fosse un tentativo pressoché impossibile, dal
momento che
non poteva avere idea verso quale direzione indirizzare
l'incantesimo.
«La
mattina in cui
trovai i corpi di Gideon e Fabian Prewett fu uno dei più
brutti
della mia vita» sentenziò gelido Remus.
«Credo di non aver mai
assistito ad un esempio di così perversa infamia. Ricordo
chiaramente ogni ustione impressa sui loro corpi. Ricordo il modo in
cui hai disonorato i tuoi nemici. Vedere le loro carni bruciate e i
loro occhi mangiati dai corvi fu un oltraggio che giurai di
ricambiare, Dolohov» aggiunse con disprezzo. «Lacarnum
Inflamare».
Un
piccolo fuoco
s'appiccò improvvisamente ad uno degli angoli dell'arazzo.
Mentre
osservava il proprio incantesimo espandersi lentamente, Remus
lanciò
un'ultima occhiata glaciale al Mangiamorte, che aveva iniziato a
dimenarsi frenetico.
«Ci
rivediamo
all'inferno».
«Aberforth!»
gridò
Tonks, rincorrendo il manipolo di studenti guidato dal vecchio mago.
Fece
uno scatto
fulmineo per raggiungerlo e si adeguò al suo passo,
fiancheggiandolo. Lui le lanciò un'occhiata veloce, mentre
saltava
una testa di gargoyle di pietra in mezzo al corridoio.
«Ci
sono dei problemi
nella parte della torre nord!» le comunicò lui.
«Questi stronzi
hanno una cavalleria di giganti!».
«Merda!»
imprecò
Tonks, mentre sollevava la bacchetta e faceva esplodere una scala a
diversi metri di distanza, lungo la quale stavano per scendere un
paio di Mangiamorte incappucciati. «Io devo trovare Remus,
Aberforth!».
«Non
mi pare proprio
il momento di giocare a Giulietta e Romeo, ragazza!»
latrò lui,
mentre incantava delle armature un po' ammaccate affinché si
frapponessero alle loro spalle.
«Fanculo»
ribatté
lei, piccata.
Corsero
fino al
colonnato che portava nel cortile e trasalirono quando l'eco di un
potente ruggito si levò dalla parte opposta del muro esterno
del
castello. Si nascosero dietro un angolo e sbirciarono in direzione
dell'entrata principale del castello. Una folla di persone stava
combattendo davanti ai cancelli scardinati: Tonks riconobbe parecchie
divise da Auror, ma da quella distanza le era impossibile riconoscere
i propri colleghi.
«Che
cazzo stai
aspettando, Aberforth?».
«Hagrid»
rispose
brevemente lui. «Ha detto di avere una sorpresa per quei
bastardi ed
è sparito nella Foresta Nera».
Tonks
emise un gemito a
metà fra lo stupore e la preoccupazione.
«Adesso
sì che sono
davvero tranquilla» borbottò
sarcastica.
Il
suo viso si irrigidì
improvvisamente e la mano che impugnava la bacchetta si strinse con
tale forza che le nocche sbiancarono. Bellatrix Lestrange aveva
appena fatto la sua comparsa nella battaglia che infuriava ai pochi
piedi da loro e aveva già sfoderato il suo mortale arsenale
di
Maledizioni Senza Perdono. Un uomo si stava già contorcendo
implorante ai suoi piedi e Tonks scattò istintivamente in
avanti.
Aberforth la bloccò con violenza e la costrinse a tornare al
proprio
posto.
«Che
diavolo pensi di
fare, eh!?» la rimproverò aspro. «Sei
venuta per farti ammazzare o
per esserci utile?».
«Lasciami
andare!»
protestò rabbiosa Tonks, dimenandosi nel tentativo di
liberarsi
dalla sua stretta. «Voglio uccidere quella puttana!».
«No,
tu vuoi farti
uccidere, stupida! Non puoi competere con Bellatrix
Lestrange!».
Tonks
gli rivolse
un'occhiata assassina.
«Io
valgo dieci volte
quello che vale lei!».
«Lo
diceva anche
quell'irresponsabile di tuo cugino e guarda che bella fine ha
fatto!».
Con
furiosa energia,
Tonks riuscì a svincolare da lui.
«Vaffanculo,
Aberforth!» strillò, lanciandosi oltre il
colonnato e correndo
indiavolata in direzione dei cancelli. «Vaffanculo!»
strillò
di nuovo, lanciando una potente maledizione contro Bellatrix
Lestrange.
Il
colpo arrivò con
estrema brutalità, ma risultò non essere
altrettanto preciso.
S'infranse con un boato a pochi centimetri da Bellatrix, che dovette
gettarsi a terra per evitare di restare coinvolta nell'esplosione. Se
l'incantesimo l'avesse colpita, le sarebbe probabilmente stato
fatale. Quando rialzò lo sguardo furente e vide chi
l'aveva
scagliato, le sue labbra tremarono appena e si storsero in un ghigno
di inumana malvagità.
«Oh,
sì...»
mormorò con folle gioia, rialzandosi in piedi e allontanando
con un
calcio violento l'uomo accucciato ai suoi piedi.
«Sì, viscida
Mezzosangue. Sei tu che ero venuta a
cercare».
Con
il respiro
affannato, Tonks sollevò di nuovo la bacchetta, pronta a
colpire una
seconda volta.
«Ho
i saluti del tuo
sporco papà da recapitarti!» le gridò
con un ghigno Bellatrix,
inclinando la testa come una leonessa che fiuta la propria preda.
«Te
li manda dal regno dei Morti!» rise selvaggiamente.
Tonks
si sentì
invadere da una rabbia incontrollabile e smise di respirare, mentre i
capelli rosa viravano verso un tetro colore scuro.
«Muori,
puttana!»
urlò, scagliando un'Anatema Mortale verso la Mangiamorte.
Bellatrix
mosse la
bacchetta con rapidità e frappose fra lei e la maledizione
il corpo
svenuto dell'Auror che aveva torturato fino a qualche secondo prima.
Tonks trasalì quando si rese conto che il proprio
incantesimo lo
avrebbe colpito, ma era troppo tardi per modificarne la traiettoria.
Il corpo del mago rimase avvolto da una luce verde un labile istante
ancora, prima che Bellatrix lo scagliasse con foga verso la propria
avversaria. Tonks si gettò di lato per evitare l'impatto e
s'irrigidì nel sentire il chiaro schiocco delle ossa che si
frantumavano. Non riuscì a trattenersi dal guardare quale
dei suoi
colleghi avesse colpito. Di sfuggita, scorse una lunga chioma di
capelli corvini stretti in una coda.
“Williamson”
si disse, stringendo con un moto di ardente dolore gli occhi lucidi.
“Dio, dove cazzo sei finito?”.
Bellatrix
aveva appena
alzato il braccio per colpirla, quando le mura attorno a lei
crollarono con un assordante rumore, facendola scomparire dallo
sguardo di Tonks. Alle sue spalle, decine di gigantesche Acromantule
stavano artigliando con le loro zanne Mangiamorte e Auror, senza
alcuna distinzione di schieramenti. Prima di scappare in direzione
del Salone d'Ingresso, Tonks ebbe appena il tempo di sentire le urla
strazianti di un uomo incappucciato, intrappolato da una delle
creature, prima che questa addentasse la sua testa con un acuto verso
raggelante.
Si
diresse a perdifiato
verso la porta d'ingresso, controllando che nessuna delle Acromantule
la stesse seguendo. Mentre oltrepassava la soglia, qualcuno le
agguantò il braccio sinistro. Ruotò
istintivamente su se stessa,
alzando prontamente la bacchetta.
«Ferma,
Tonks!» la
rassicurò spaventato Charlie, tirandola verso il muro e
trascinandola attraverso l'affollato Salone d'Ingresso.
«Cosa
sta suscedondo là
fuori, Tònks?»
chiese una voce tremante alle sue spalle.
Tonks
si voltò per vedere il bel volto di Fleur, sporco e
insanguinato,
osservarla con incontenibile ansia. D'un tratto, i suoi grandi occhi
celesti si sgranarono dallo stupore.
«Tònks?»
ripeté. «Che sci fai
qui!? Remùs ha detto
che eri a casa con tua mamàn e
il piccolo Teddì!».
Tonks
scosse il capo
con veemenza.
«Non
ce la facevo a
restarmene a casa» rispose laconica. «Hai visto
Remus?» domandò
impaziente a Charlie.
«Sì»
annuì il
ragazzo. «L'ho visto mentre aiutava Kingsley a respingere uno
o due
di quei dannati giganti. Cosa c'è là fuori che fa
tutto questo
casino?».
«Acromantule»
spiegò
francamente Tonks.
Charlie
e Fleur
spalancarono gli occhi.
«Roba
di Hagrid,
vero?» domandò lui con un'inappropriata smorfia
divertita.
«Naturalmente»
lo
liquidò Tonks, guardandosi febbrilmente intorno.
«Da che parte è
andato Remus?».
«Non
ne ho idea, ma
l'ho sentito urlare a Kingsley qualcosa riguardo ad un paio di
gargoyle di pietra. Forse, si stavano dirigendo verso l'ufficio del
Preside».
Con
un breve cenno di
assenso, Tonks fece per voltar loro le spalle, ma Charlie le
bloccò
per la seconda volta il braccio.
«Ehi»
le disse con un
sorriso storto. «Mi devi ancora dieci galeoni. I Cannoni di
Chudley
hanno stracciato le Holyhead, nella scorsa partita».
Tonks
lo fissò in
silenzio qualche secondo, prima di rivolgergli uno sguardo grato.
«Domani
salderò il
debito, bastardo» concluse con una smorfia, prima di
salutarli con
un movimento della testa e scattare in direzione del secondo piano.
«Ci
conto, Tonks!»
gridò la voce tuonante di Charlie. «Tienilo a
mente, svampita di
una Tassorosso: voglio che tu ci sia,
domani!».
Remus
era tristemente
consapevole di come fosse già piuttosto provato: l'ultimo
duello con
Rabastan Lestrange gli era costato parecchio. Aveva cercato di
medicare un'orribile ferita al fianco sinistro con una fasciatura
approssimativa, ma questa continuava a sanguinare e a provocargli
massacranti spasimi. Strinse i denti per soffocare un lamento di
dolore e serrò la presa sulla bacchetta, combattivo.
«Incarcerarmus!»
gridò, puntando la bacchetta verso il piede destro di un
Mangiamorte.
Attorno
alla sua
caviglia comparve una resistente fune, che frenò la sua
corsa e lo
fece cadere al suolo. Un paio di giovani studenti di Grifondoro
piombarono improvvisamente alle sue spalle, circondandolo con le
bacchette levate. Una ragazza dai folti riccioli scuri e dalla
carnagione scura, che Remus riconobbe come Angelina Johnson, gli
rivolse un occhiolino grato. Remus le rispose con un breve sorriso,
prima di lanciarsi verso una delle rampe di scale che conduceva al
piano inferiore.
Non
aveva ancora
raggiunto il pianerottolo, quando fu colpito alla spalla da una
potente maledizione. Riuscì a stento a rimanere in piedi e,
barcollando e portando la mano sinistra al braccio dolente, si
voltò
indietro, sollevando la bacchetta. Non riuscì a trattenere
un'espressione di puro sgomento nel trovarsi di fronte il lungo e
pallido viso di Dolohov. La parte destra del suo viso era
irriconoscibile: il suo incantesimo gli aveva bruciato una notevole
porzione di pelle, che ora brillava sanguigna alla luce tremante
delle torce.
«Torna
qui,
mannaro!» urlò faticosamente il Mangiamorte,
fissandolo con occhi
alienati e scattando verso di lui. «Torna qui, figlio di
puttana!».
Con
una smorfia
indispettita, Remus puntò la propria bacchetta contro
l'ultimo
gradino della scalinata.
«Dominusterra!»
scandì con forza.
Le
pietre del pavimento
iniziarono a tremare con impeto crescente: Dolohov fu costretto a
sostenersi al corrimano di marmo, ma non fu sufficiente ad arrestare
la sua avanzata.
«Reducto!»
gridò
Dolohov, facendo esplodere la parete alla sinistra di Remus e
saltando gli ultimi gradini tremanti.
Remus
dovette
abbassarsi per evitare di essere colpito dalle pietre vaganti e
Dolohov ebbe la prontezza di sfruttare quel suo istante di
vulnerabilità, centrandolo in pieno con uno Schiantesimo.
Viste le
condizioni del Mangiamorte, il colpo fu sorprendentemente potente:
Remus fu sbalzato indietro di parecchi metri e atterrò sulla
schiena
con un tonfo sordo. Tentò di rialzarsi il più
rapidamente
possibile, ma prima che potesse riuscire a sollevare completamente la
schiena, Dolohov lo stava già sovrastando.
Ghignando
vittorioso,
sollevò la scarpa e lo schiacciò con inaudita
violenza al
pavimento. Remus si lasciò sfuggire un gemito di dolore e le
labbra
di Dolohov – o ciò che di esse le fiamme avevano
risparmiato –
si arricciarono malignamente, storcendo innaturalmente la carne viva
ricoperta di sangue e piaghe.
«Il
tuo posto è ai
miei piedi, mannaro» gli sibilò sprezzante con
voce
irriconoscibile, mentre alzava nuovamente la gamba e lo colpiva con
forza. «Tu» riprese con un
secondo calcio, «sei»
aggiunse con una terza pedata, «feccia»
concluse con
folle impeto.
«E
tu sei morto,
stronzo!» strillò una voce
trillante alle sua spalle.
«Stupeficium!».
Un
getto di scintille
rosse colpì la schiena di Dolohov, che venne scaraventato
lontano
dal corpo di Remus e si afflosciò a terra con un mormorio
gutturale.
«Remus!»
gridò
Tonks, saltando un paio di gradini e rischiando di inciampare nel
tentativo di raggiungerlo.
Gli
si gettò accanto e
avvicinò la mano tremante alla sua spalla, terrorizzata dal
pallore
provato del suo volto. Lo aiutò a sollevarsi a sedere,
sorreggendolo
cauta, mentre lui gemeva piano e apriva faticosamente la palpebre.
«N-Ninfadora...»
cercò di biascicare, ma si piegò in avanti con
una fitta lancinante
e tossì diverse gocce sangue.
«Remus!»
urlò lei,
spaventata.
«C-che
ci fai qui?»
domandò dopo qualche secondo, scrutandola intensamente e
stringendole febbrile la mano.
Tonks
gli rivolse un
sorriso tirato e gli scostò un ciuffo di capelli dal volto.
«Non
mi attira l'idea
della vedovanza» mormorò con dolcezza.
«Non prima di aver
festeggiato il mio centesimo compleanno, perlomeno».
Remus
scosse risoluto
il capo.
«Sei
impazzita?»
sussurrò con rimprovero. «Torna immediatamente a
casa».
Lei
inarcò con aria
ironica un sopracciglio.
«Certo.
Non appena il
Nottetempo passerà da queste parti».
«Ninfadora...».
«Non
chiamarmi
Ninfadora!» sbottò scocciata lei, aiutandolo a
sorreggersi e ad
alzarsi sulle gambe. «È il minimo che tu possa
fare per
ringraziarmi».
Remus
la fissò con
sguardo impenetrabile per un paio di secondi. Tonks sbuffò
contrariata e ruotò gli occhi verso il cielo.
«Che
altro hai ancora
da rimproverarmi?» esclamò veemente.
Lui
le rivolse un
debole sorriso e scosse il capo.
«Non
ti ricordavo così
bella» mormorò flebile, carezzandole piano la
guancia.
Sorridendo
a sua volta,
lei gli lanciò un'occhiata divertita.
«Adulatore»
lo
schernì.
«Avada
Kedrava!»
ruggì una voce acuta.
«Giù!»
gridò Remus,
afferrandola per le spalle e lanciandosi a terra.
La
maledizione
s'infranse nel punto esatto in cui loro erano qualche istante prima.
Tonks si voltò rapida sulla schiena, alzando prontamente la
bacchetta. Dall'altra parte del lungo corridoio, Bellatrix la fissava
con sguardo infuocato. Dietro di lei, Dolohov barcollava instabile,
tentando di rialzarsi.
Le
due streghe decisero
di colpire nel medesimo istante. I loro incantesimi cozzarono uno
contro l'altro, schiantandosi contro il soffitto e le pareti, che
iniziarono a frantumarsi come fossero fatti di ghiaia. Bellatrix era
notevolmente più abile di Tonks, ma questa aveva dalla sua
parte un
corpo ancora giovane e decisamente più agile. Laddove la
prontezza
della prima riusciva ad eludere le difese della seconda, la
rapidità
di Tonks si rivelava fondamentale. Duellavano con la medesima rabbia
e con lo stesso desiderio di uccidere l'avversaria;
tale era
la loro foga che i loro volti si erano distorti in un'espressione di
furiosa grinta. Mai come in quel momento il viso a forma di cuore di
Tonks aveva ricordato i lineamenti perduti della nobile casata dei
Black.
«Non
puoi battermi,
Mezzosangue!» le gridò con sprezzo Bellatrix,
scagliandole un
potente incantesimo. «Nessuno
può battermi! Io sono
una vera Black!».
«Non
dirlo troppo in
giro, vecchia» replicò con
duro sarcasmo Tonks, schivando
abilmente il suo colpo. «Non è che sia motivo di
gran vanto!».
«Non
osare!».
Tonks
sfoggiò un
ghigno irriverente e le mostrò il dito medio.
«Fanculo»
disse. «Io
oso fare quel cazzo che mi pare».
Le
maledizioni di Tonks
si facevano sempre più letali; prima ancora di rendersene
conto,
Bellatrix iniziò ad arretrare, sopraffatta dall'energia
molto più
scattante della giovane. Euforica per la consapevolezza di essere in
netto vantaggio, Tonks si lasciò sfuggire un sogghigno
esaltato.
«Expelliarmus!»
strillò trionfante, muovendo con un gesto lesto il braccio.
Bellatrix
sgranò gli
occhi mentre la propria bacchetta veniva catapultata a parecchi piedi
di distanza. Paralizzata dallo sgomento, sollevò lo sguardo
sula
propria avversaria. Nel leggere la paura sul volto cereo della donna,
Tonks non poté trattenere un sorriso di pura estasi.
«Io
sono una
Mezzosangue. Io sono figlia di una rinnegata. Io
ho
sposato un licantropo» scandì con orgoglio.
«E io ti ho
battuto».
Le
narici di Bellatrix
fremettero di indignato terrore, mentre la sua attenzione non
riusciva ad allontanarsi dalla punta scintillante della bacchetta
dinanzi a sé.
«Tasvidania,
zia» mormorò Tonks con un sorriso di perversa
soddisfazione. «Avada
Ked-!».
«Abbassa
la bacchetta
o il cuore di tuo marito sarà la mia prossima cena, sporca
Mezzosangue!».
La
formula dell'Anatema
Che Uccide le morì sulla punta della lingua. Raggelata,
Tonks si
voltò indietro, rendendosi conto troppo tardi dell'errore
commesso:
si era lasciata coinvolgere con tale ardore dal suo duello con
Bellatrix, che aveva dimenticato dell'incredibile velocità
con cui
Dolohov si stava riprendendo dal suo Schiantesimo. Con la bacchetta
puntata a sua volta contro il petto di Remus, il Mangiamorte
osservava con malsana avidità la reazione di Tonks.
«Facciamo
un gioco,
ragazzina» la prese in giro con voce cantilenante,
ridacchiando fra
sé. «Chi vuoi buttare dalla torre ovest? Il marito
o la zia?».
Alle
spalle di Tonks,
Bellatrix emise una roca risatina divertita.
«Butta
la zietta
cattiva!» rise anche lei. «E guarda come
cadrà veloce il tuo
animale da compagnia!».
Boccheggiando
a stento,
Remus sollevò gli occhi brillanti verso la moglie e le
rivolse
un'occhiata colma di mesta preoccupazione.
“Uccidila”
sillabò muta la sua bocca. “O
ucciderà te”.
Con
l'impressione di
aver smesso di respirare ormai da ore, Tonks sbirciò di
sottecchi
verso Bellatrix, disarmata di fronte a lei, e poi verso Dolohov,
saldamente rigido davanti a Remus. Mentre l'amara certezza di aver
perduto ogni cosa le faceva bruciare gli occhi, guardò lui
per un
istante di eloquente silenzio, si morse il labbro inferiore e scosse
affranta il capo, prima di abbassare miseramente la bacchetta. Remus
chiuse le palpebre con un'espressione sconfitta, appoggiò la
testa
al muro e ruotò lentamente il viso verso Tonks. Dietro di
lei,
Bellatrix aveva già Appellato la propria bacchetta e la
puntava alla
schiena inerme della giovane.
«Remus?»
sussurrò
appena Tonks, voltandosi sul fianco sinistro e appoggiando il viso al
palmo della mano. «Tu credi esisti qualcosa dopo la
morte?».
Sgranando
appena gli
occhi per lo stupore, Remus girò la testa sul cuscino e le
rivolse
un'occhiata perplessa.
«Posso
domandare il
perché di questa domanda tanto insolita?».
Lei
sollevò
distrattamente le spalle, con un mezzo sorriso.
«Non
lo so»
rispose con sincerità. «Forse, mi sentirei
più tranquilla nel
sentirti dire che c'è qualcosa, in fin dei conti».
Remus
la fissò
intensamente qualche secondo, stringendole con ardore la mano fra le
lenzuola candide.
«Non
importa» le
disse, baciando le sue dita sottili con solenne delicatezza.
«Ti
amo. E tanto mi basta».
«Ti
amo».
«Avada
Kedavra!».
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