13 Aprile 1987
La prima volta che ti ho
visto sapevo sarebbe stata anche l’ultima.
Sai, ne sento tante sul
mio conto – dicono sia gelida e calcolatrice, perfida e senza cuore, nata
quantomeno da una costola di Satana, e pronta a qualsiasi cosa pur di ottenere
quello che voglio. Modestamente, è tutto assolutamente vero.
Non credere invece a chi
ti potrà dire che quello che ciò che ho fatto sia stato per codardia. Che ci
sia stato egoismo da parte mia, non c’è dubbio - non potevo certo rischiare
di perdere tutto quello che ero riuscita a costruirmi – ma codardia, no, mai.
Anzi, è quasi superfluo notare come forse sia stato il più grande atto di
coraggio della mia vita.
Io ottengo sempre quello
che voglio. Volevo che mia figlia potesse avere una buona esistenza, avere
tutto quello che a me era mancato. E così ho pianificato tutto nei minimi
dettagli, ogni cosa.
A partire dal nome che ti
ho scelto.
***
Non aveva calcolato quanto
potesse essere forte, e fastidiosa, la luce solare da quelle parti. Dall’ultima
volta che era stata in Svizzera aveva conservato ricordi di aria fresca e sole
pallido, e invece quella mattina si ritrovava quasi accecata dai raggi solari
che stavano invadendo la stanza.
Tentò di girarsi dall’altra
parte per evitarli, ma senza molto successo. Allora allungò una mano verso il
comodino, cercando i suoi occhiali da sole. La gente banalmente pensava fossero
solo un vezzo, un modo di distinguersi dalla massa, tenendo lontano il proprio
sguardo. Vero, ma all’occorrenza avevano decisamente scopi molto più
pragmatici.
Tirò un sospiro di sollievo
quando finalmente li trovò, e poté avere una qualche difesa da quel maledetto
sole.
Esausta, si ributtò poi sul
guanciale. Non aveva immaginato potesse essere così stancante.. cioè, sapeva a
cosa poteva andare incontro, ma dieci ore di travaglio per qualcosa che nemmeno
le sarebbe rimasto erano state decisamente troppe.
(Qualcosa. Non si era mai permessa di associarci un pronome
personale, o peggio un nome).
Dieci ore, Dio. Non riusciva nemmeno a ricordare perché aveva
deciso di portare avanti la gravidanza.
Chiuse gli occhi, cercando di
riprendere sonno. Ma ancora una volta, aveva fatto male i suoi conti…
“Fey?”
Sospirò, mentre decideva se
rispondere a Wanda o fingere di dormire.
“Fey… sei sveglia?”
insistette Wanda.
Non se ne sarebbe andata
comunque, uh?
“Per la tua gioia sì, sono
sveglia” rispose alla fine, ancora con gli occhi chiusi.
“Come stai?” chiese
l’assistente entrando finalmente nella stanza (nella quale prima si era solo
affacciata).
Fey ridacchiò “Beh, diciamo
che starei molto meglio se quell’idiota di medico mi avesse dato gli
antidolorifici che doveva…”
“Ma non è stata colpa sua,
siamo arrivate tardi, eri già..”
“Bla bla bla” la interruppe Fey “Ricordami ugualmente di farlo licenziare”
“Certo, come vuoi.”
Fey la squadrò per qualche
instante. Come non sopportava lo sguardo sempre un po’ depresso di quella
ragazza. Era un’ottima assistente, senza dubbio, ma proprio non riusciva a
togliersi dalla faccia quello sguardo.
“Santo cielo Wanda, sorridi
un po’! Non lo so, pensa al tuo naso nuovo” L’assistente si portò una mano su
quello che ancora aveva “Pensa a tutto quello che potrai fare grazie a quello,
e a un bravo parrucchiere.” (Lo sguardo salì sulla prorompente capigliatura
afro della ragazza).
Poi tacque. Wanda però
continuava a fissarla.
“Che c’è? Puoi andare ora” la
avvertì Fey. Ma Wanda ancora la guardava “Si può sapere che hai?”
“E’ una bambina... è sana.”
rispose piano.
Già l’istante dopo aver
parlato, Wanda sentì che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di vedere lo sguardo
di Fey dietro quei suoi occhialacci scuri.
“Oh, bene... sì, perfetto.
Hai fatto bene a dirmelo... è un bene sia sana, in caso contrario magari Tanen
poteva fare storie... Una femmina uh?”
Anche senza vedere dietro
quegli occhiali, Wanda capì di aver colpito nel segno. Da quando lavorava per
quella donna, mai l’aveva percepita – oh, non pensava avrebbe mai usato quella
parola per lei – vulnerabile. Ma quel giorno, in quel momento, per la prima
volta sentiva l’armatura di ghiaccio incrinarsi… Ed era uno spettacolo da
godersi fino in fondo.
Quando avrebbe ceduto?
“Non sta lontano da qui,”
riprese l’assistente “si prende il corridoio di fronte a questo, e in fondo c’è
la nursery…”
“Cosa diavolo stai dicendo?”
la interruppe Fey.
“Pensavo…”
“Non m’interessa. Piuttosto,
procurami delle sigarette.”
“Sei sicura sia una buona
idea? Insomma, hai-”
“E’ dall’inizio di questa
follia che non fumo, direi che ormai non devo più nulla a, beh si insomma, alla
bambina.”
Oh perfetto, c’era cascata. Per
colpa di Wanda ora la cosa era personificata, tanto per rendere
più complicato il tutto.
“Vattene, sono stanca, voglio
restare sola” ordinò alla fine.
Wanda senza aggiungere altro
ubbidì. Uscendo però non poté fare a meno di lanciare un ultimo sguardo a Fey:
la vide immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, i pugni serrati.
Cedeva.
***
Quella buona a nulla di Wanda
non si era più ripresentata. Cosa c’era di tanto difficile nel rimediare un
pacchetto di sigarette? Un dannatissimo pacchetto di sigarette, diamine.
Furiosa per la mancata
consegna, Fey vagava ora per le corsie della clinica, probabilmente senza
nemmeno sapere bene dove andare, concentrata com’era su un’unica cosa: nicotina!
Dopo appena una decina di
minuti di peregrinazione disperata, però, sentì il bisogno di fermarsi da
qualche parte per riposare (le dieci ore pesavano ancora su quel corpo tutto
sommato troppo minuto per uno sforzo del genere). Poggiatasi a una parete,
cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di una qualsiasi superficie adatta
alla seduta. Vedeva porte, quadri, corridoi, ma nessuno a cui chiedere aiuto. Chiuse
gli occhi un attimo, tendendo le orecchie alla ricerca di voci umane, ma ben
preso si rese conto di non riuscire a percepire nient’altro che un irreale
silenzio. Fortuna che gli Svizzeri erano considerati tra i popoli più laboriosi
al mondo…
Allora fece un respiro
profondo, riaprì veloce gli occhi e risoluta riprese il cammino. Aveva fatto
solo qualche metro quando si ritrovò davanti l’ultimo posto dove avrebbe voluto
essere.
D’istinto, rivolse subito le
spalle alla grande vetrata della nursery. Come era finita lì? Boh, non
importava. Doveva solo andarsene al più presto, prima di fare cose di cui poi
si sarebbe sicuramente pentita.
Ma le gambe non ne volevano
sapere.
Probabilmente non aveva mai
desiderato una sigaretta quanto in quel momento.
Dove andarsene sì, ma non lo
aveva ancora fatto. Avrebbe potuto dare almeno un’occhiata però… no, non poteva
farlo.
Ora avrebbe decisamente
ucciso per una sigaretta.
Un istante dopo si voltò.
“E’ lei chi diavolo è?”
Si aspettava di vedere una
distesa di culle piene di mocciosi, si ritrovò invece all’ombra di qualcuno
molto più alto, imponente, e scuro di lei.
La squadrò meglio: gli abiti
che portava – un vestitino bianco striminzito, cuffietta e golfino giallino
tristezza – le diedero subito la certezza che quella che si trovava davanti doveva
essere un’infermiera. Certo, non aveva troppo l’aspetto della tipica svizzera…
“Piuttosto chi è lei?”
ribatté Fey “E non mi venga a raccontare che lavora qui.”
“Come preferisce, non glielo
dico. Ora mi spiega cosa sta cercando o rimaniamo qua a discutere sulle nostre
identità per un’altra mezz’oretta?”
“Oh, io non ho fretta. A proposito,
sa dirmi dove posso trovare delle sigarette?”
L’infermiera la fissò
incredula per un attimo, cercando di convincersi che quanto aveva appena
chiesto quella donna fosse per effetto degli antidolorifici o qualcosa di
simile. Quando però si rese conto che diceva sul serio, scoppiò a ridere.
“Sta scherzando vero?” disse
ridendo “Non può essere seria!” e poi di colpo le afferrò il braccio destro per
leggere sul braccialetto che Fey portava.
Dopo, lasciandola (piuttosto
bruscamente) si fermò un attimo, e alla fine, come colta da una qualche
illuminazione, riprese la parola.
“Signora Summer…”
“Sommers”
“Qual che è… sicura di voler
proprio delle sigarette uh?”
“Certo, cos’altro?”
La tipica svizzera
sospirò profondamente, scuotendo il capo.
“Una puerpera di fronte alla
nursery… non ci vuole molto a capirlo.”
Fey sbuffò “Oh, ho capito
dove vuole arrivare. E’ inutile, non mi interessa, io ho già preso la mia
decisione”
Forse, se l’avesse ripetuto
qualche altra volta sempre ad alta voce, se ne sarebbe convinta davvero.
La faccia dell’infermiera
però (“Katherine”, riuscì finalmente a leggere sulla divisa) d’un tratto si
fece realmente seria.
“Non vuole nemmeno darle un
nome?”
Un nome! Oh, un nome! Ci
mancava questa adesso. Un nome, che assurdità. E poi cosa, magari tenerla per
giocare alla mammina?
“Non credo proprio…” rispose
infine, ma quella che doveva essere un’affermazione decisa risultò poco più di
un sussurro.
“Come vuole. Io comunque ora
vado a prendermi un caffè…”
“Sì sì… basta che si ricordi
le mie sigarette!” esclamò rivolta all’infermiera che se ne andava, in un tono
che dava prova di forza ritornando improvvisamente deciso.
Il corridoio tornò deserto e
assordantemente silenzioso.
Fey era ancora di fronte alla
nursery. Lentamente, riportò gli occhi alla vetrata. Là dietro, i neonati se ne
stavano tutti quieti – e dire che si era sempre immaginata i bambini come
costantemente urlanti!
Chissà se anche lei
dormiva.
Magari, se fosse stata
addormentata, avrebbe potuto darle un’occhiata… ma sì, uno sguardo veloce, senza
il pericolo di sentirsi osservata. O forse era troppo pericoloso? Oh, al
diavolo, con tutta la fatica che ci aveva messo nel farla…
Naturalmente non
poteva andare così. Dio non poteva di certo permettere una cosa rapida e
indolore, figurarsi.
La vide quasi subito, appena
fu entrata. Non dormiva.
Fey si sentì subito gli occhi
di quella creatura addosso. Grandi, verdi, vivaci, dolcissimi.
“Per Dio...”
D’istinto si tolse gli
occhiali, lasciando che cadessero a terra. Ora che era lì, voleva vederla bene,
la creatura. Per Dio, a guardarla negli occhi era come guardare in uno
specchio, come fatta con lo stampino.
Che stava facendo? Per nove
mesi si era riferita a lei come quella cosa, appena nata si era
rifiutata perfino di ascoltare il suo pianto, ma ora ecco, rompendo tutte le
regole che si era data, se ne stava lì, a guadare due occhi uguali ai suoi.
“Beh.. visto che ormai ci
siamo.. Salve”
La bambina agitò una manina.
Salutava? Probabilmente la stava solo agitando a caso, ma per un secondo a Fey
piacque pensare che stesse ricambiando il saluto.
Si avvicinò un altro po’,
tentata di provare ad accarezzarla. Beh, più che altro voleva stringerla,
quella zampetta.. ci si stringe la mano quando ci si saluta, no?
Poi improvvisamente,
irrazionalmente, se la ritrovò tra le braccia.
Dapprima ebbe paura. Anzi,
era terrorizzata. Dalle conseguenze di quel gesto, e da quegli occhi
troppo grandi e troppo brillanti.. o magari solo di tenerla nel modo sbagliato.
Chi l’aveva mai tenuto in braccio un neonato?
Dopo un po’ forse capì che
doveva averlo fatto bene, perché lei continuava a sorriderle, e
continuava a guardarla quieta quieta.
“Complimenti per lo sguardo
ipnotico cara…” ancora non riusciva a prenderle la manina “Davvero, con quegli
occhioni conquisterai il mondo, lo sai? Oh, certo che lo sai…”.
Le prese la mano, e tacque,
perché non sapeva più cosa dirle. Cosa voleva? Considerato che fino a qualche
minuto fa non era nei piani nemmeno il guardarla, e ora era lì a concederle il
privilegio di essere tenuta in braccio e tutto…
Poco dopo però riprese “Sì
certo, conquisterai il mondo. Stai solo attenta agli uomini… come i Meade” e rise,
pensando a quanta poca fiducia già le infondevano già le nuove generazione nella
persona di quei due mocciosi - specie il piccolo - a cui B. permetteva
decisamente troppo spesso di infestare gli uffici.
D’un colpo le vennero in
mente le parole dell’infermiera. Un nome..?
La strinse al seno, d’impeto,
perché anche solo per un secondo sua figlia sapesse che le apparteneva. Nel
farlo, seppe anche il suo nome.
***
13 Aprile 1987
Sera
Credo ancora che con quegli occhi conquisterai il mondo. Crescendo sono
diventati ancora più vivaci.
***
La palla le era sfuggita
appena fuori dalla sua camera, ed era rotolata veloce lungo il corridoio.
Subito le corse dietro, sperando di riuscire ad acchiapparla prima che finisse
di nuovo nello studio di suo padre. L’ultima volta che era successo lui si era
arrabbiato parecchio, e le aveva nascosto la palla per tutto il resto della
giornata.
Quando pensò che poteva
raggiungerla, quella andò a finire la sua corsa proprio nello studio. Le si
lanciò lo stesso dietro, pensando che magari il suo papà poteva essere uscito
alla ricerca di un po’ di fresco, in quella giornata troppo calda per essere
solo primaverile.
Stringendo la palla a sé per
un attimo credette di averla scampata, perché nessuno le aveva urlato niente.
Ma alzando gli occhi le sue speranze furono immediatamente deluse.
Dritta davanti a lei stava
una signora molto elegante, con un paio di grandi occhiali neri che le
nascondevano buona parte della faccia. D’istinto indietreggiò, perché quello
sguardo nero le faceva paura. (Avrebbe voluto che se li togliesse, era curiosa
di sapere di che colore avesse gli occhi).
La bella signora sorrise
“Cosa c’è? Hai paura di me?”
La bambina annuì
candidamente.
“Oh, e perché?”
“Non sei arrabbiata per la palla?”
“No.”
“Davvero? Il mio papà si arrabbia sempre quando mi scappa qui.”
“E io no.”
“Sei una brava signora
allora. Come ti chiami?” chiese alla fine, rialzandosi anche se quegli occhiali
neri le facevano ancora paura.
La signora si sedette (forse
per abbassarsi un po’ al suo livello, pensò la bambina) e sospirò.
“Io mi chiamo Fey. E tu?”
“Amanda. Ho appena compiuto cinque anni, lo sai? La mia mamma dice che ormai
sto diventando una signorina.”
La signora che si chiamava
Fey fece una smorfia, poi le rispose che la sua mamma aveva ragione, e che era
davvero una signorina ormai, e che più di tutto aveva un nome molto bello.
“Tu lo sai cosa vuol dire Amanda?”
le chiese alla fine.
Amanda scossa la testa: no,
non lo sapeva, lei invece sì?
“E’ latino, una lingua
parlata dagli uomini tanto tempo fa, lontano da qui. Vuol dire ‘colei che
deve essere amata’ ”
“Oh.. forte!”
“Ti piace?”
“Sì, è forte.”
“E dimmi, credi sia vero?”
“Beh sì. Il mio papà mi vuole
bene.”
“E la tua mamma?”
“Anche la mia mamma.”
La signora allora si fece
tutta seria.
“Sì, la tua mamma ti vuole tanto
bene.”