Angolino dell'autrice
Ari-salve! ^^
Come promesso ecco il sequel del breve "Il peso della corona". Anche
questa volta ho adottato il POV di re Romualdo (mi piace troppo quel
personaggio! *-*), e ho cercato di descriverne i pensieri durante l'epico
scontro con il Conte/Fantaghirò... non so se ci sono riuscita, ma vi giuro che
ho fatto del mio meglio... ^^"
Naturalmente i dialoghi e le scene riportate nella storia sono fedelmente
ripresi dal film, io ci ho aggiunto soltanto la parte introspettiva.
Inoltre, dato che la narrazione è (come già detto) dal POV di Romualdo, ho
omesso tutto ciò che non lo vede direttamente protagonista, come ad
esempio la scena in cui Fantaghirò chiede al soldato di salvarla dall'impiccio
del duello portando al fiume la (falsa) notizia che il re è gravemente
malato.
Un'ultima cosa: ho in mente di scrivere un sequel a questo capitolo,
terminando così la trilogia che mi ero proposta all'inizio. Tuttavia non l'ho
ancora nemmeno iniziato, quindi non so quando potrò postarlo... per ora
posso dirvi soltanto che sarà una what if, ma cosa sconvolgerà lo saprete
solo a tempo debito... xD
Naturalmente ringrazio di cuore tutti coloro che hanno letto "Il peso della corona" e quelli che leggeranno sia quella che questa storiella... ^^
Disclaimer: i personaggi e le scene citati in questo racconto
non mi appartengono e non ne detengo i diritti. La storia non è stata scritta
a scopo di lucro.
E con questo mi pare sia tutto...
Buona lettura a tutti! ^_^
Il duello
La luce rosata dell’alba ricopriva l’intero paesaggio, colorando
l’acqua del fiume di innumerevoli riflessi.
Romualdo era seduto su quella sponda, la spada tra le mani e la mente alla
sfida ormai prossima.
Erano arrivati alla resa dei conti.
Finalmente quella logorante attesa sarebbe finita, nel bene… o nel
male.
Il sole continuò il suo lento percorso e, adesso, anche i suoi fidati amici lo
avevano raggiunto. Non fecero il minimo cenno al dialogo del giorno prima,
né a quell’assurda promessa che aveva fatto loro. Stettero semplicemente
in silenzio alle sue spalle, ad aspettare con lui.
Infine, qualcosa cambiò in quell’immobilità forzata.
«Salute a voi, Re Romualdo.» Si annunciò cordiale la fonte delle sue notti
insonni.
«Ben arrivato, Conte di Valdoca. Avete accolto la sfida di buon grado.»
Rispose al saluto con un sorriso.
«Non c’era ragione che io rifiutassi.» Commentò con un ghigno.
Il re avvertì come una stretta al cuore a quella frase carica di
sottintesi.
No, sta mentendo, si disse poi. Voleva soltanto provocarlo. Sì.
«Il mio saggio amico Cataldo mi farà da secondo.» Annunciò, per zittire le
voci della sua mente confusa all’inverosimile.
«Il generale sarà il mio.» Disse a sua volta il conte, serio e altezzoso come si
conviene a un cavaliere.
Ma lui non era un cavaliere. Non poteva esserlo. Non
doveva esserlo.
«Quelle bandiere indicano il traguardo. Se per voi la distanza è troppa,
possiamo diminuirla.»
Ma bene, aveva un avvenire come buffone di corte, pensò sarcastico.
Il conte gli sorrise, rispondendo per le rime.
«Per quel che mi concerne, potete anche aumentarla, se la cosa può farvi
piacere.»
Romualdo incassò il colpo in silenzio, mentre un sorrisetto si faceva strada
su quel volto così giovane, e già così provato.
«Bene, a questo punto non ci rimane che… che spogliarci.»
E ora come la mettiamo, Conte di Valdoca?
Con sua grande soddisfazione vide il ragazzo inginocchiarsi di fronte al
fiume, chiaramente intenzionato a rimanere vestito.
«Conte, ho detto spogliarci. Cosa fate?» Lo provocò.
«Prima di ogni evento importante, noi rendiamo grazie agli déi.» Rispose
lui con un sorriso.
Va bene, farò finta di crederci, si disse il giovane re.
Scivolò con lo sguardo lungo il profilo di quella figura minuta, eppure così
forte. Si soffermò sul suo viso, illuminato dai raggi del sole e dai riflessi
dell’acqua.
Da quella posizione non riusciva a vedere i suoi occhi.
Il che poteva essere solo un bene per la sua salute mentale, pensò,
cominciando a levarsi la camicia.
Non era sicuro di poter reggere il peso di quello sguardo e riuscire a
comportarsi ancora naturalmente.
Ora anche i pantaloni erano a terra e lui era rimasto praticamente
nudo.
Con la coda dell’occhio vide il conte voltare la testa di scatto verso il lago e il
suo cuore perse un battito nello scorgere il lieve rossore che colorava le sue
guance: se si sentiva in imbarazzo, allora…
«Perché non mi guardate? Non ditemi che per voi la vista di un altro uomo
senza vestiti è motivo di imbarazzo…» Insinuò malizioso: ora che aveva
scorto una falla nella sua difesa doveva approfittarne a tutti i costi.
«Quale imbarazzo? È che io… è solo che io… vi immaginavo più forte. Siete
gracilino.» Aveva avuto un momento di esitazione, prima di rispondere, e
Romualdo lo interpretò come il segnale che si stava avvicinando alla
soluzione dell’enigma. O quantomeno che era sulla strada giusta.
«Ah sì, davvero? Io non vedo l’ora di ammirare i vostri muscoli.»
Commentò quindi, con lo stesso tono di prima.
Lo aveva fatto soltanto per provocarlo, lo sapeva bene… ma non riuscì a
cancellare la sensazione che ci fosse del vero in quelle sue parole: del resto
non poteva negare a se stesso il senso di aspettativa che quella sfida
portava con sé… e che non aveva nulla a che vedere con il nuoto.
Aspettativa che crebbe in maniera esponenziale quando, finalmente, quelle
mani delicate iniziarono a sbottonare la casacca verde.
Erano mani lente, insicure… déi, quanto era frustrante stare fermo a
guardare.
«Vi serve una mano?» Lo disse per scherzo, mascherando un desiderio che
rischiava di diventare fin troppo evidente.
Il giovane non rispose a quella provocazione, concentrandosi invece sui
lacci e, poco dopo, la casacca si aprì del tutto… rivelandone una
seconda.
«Ecco qui.» Disse allargando le braccia, come se gli avesse concesso un
grande favore e non avesse intenzione di patteggiare oltre.
Il popolo, radunato per vedere la sfida, rise di gusto, e il suo re con lui.
Era una risata stizzita quella di Romualdo, ma nessuno ci fece caso.
«Ma quante casacche indossate?» Domandò, tra l’incredulo e il
divertito.
«Qui è molto più freddo che dalle mie parti, non ci sono abituato.» Si scusò
lui.
No, non gliel’avrebbe data vinta tanto facilmente.
«Non credevo foste tanto delicato.» Lo prese in giro il giovane.
«Avanti, levatevi uno strato ancora.» Insisté.
Era una fortuna che la brava gente del suo regno fosse troppo impegnata a
domandarsi perché quello stravagante straniero si facesse tanti problemi a
spogliarsi… altrimenti avrebbero potuto chiedersi perché mai il loro re
fosse così ansioso di vederlo senza l’impiccio dei vestiti…
Lui voleva soltanto risolvere il mistero che lo tormentava da giorni, vero…
ma si rendeva conto che la situazione sarebbe potuta sembrare alquanto…
equivoca, vista dall’esterno.
Quelle lunghe dita tornarono di nuovo sui lacci, questa volta tremando
appena, e, uno dopo l’altro, li sciolsero, facendo poi scivolare l’indumento a
terra.
Non è possibile, pensò il giovane re.
«Eccomi pronto, tuffiamoci.» Disse tranquillo il Conte di Valdoca,
avvicinandosi al fiume.
«Siete ancora vestito!» Esclamò Romualdo, il tono più vicino all’accusa che
alla sorpresa.
«Dalle mie parti, si nuota con tutta l’armatura.» Spiegò allora lui, come se
fosse una cosa naturale.
Accidenti a lui, ma come mai era tanto ostinato?
Non che il re fosse da meno, intendiamoci.
«I vestiti vi saranno d’impaccio nell’acqua, non posso accettare un simile
vantaggio.» Disse quindi, con un ghigno. «O vi mettete nudo come
me, o non se ne fa niente. Dite di non volervi spogliare per paura del
freddo. Comincio a pensare… non so…» fece una pausa effetto «che
nascondiate qualche orribile deformità.» Concluse, il ghigno ancora più
ampio.
Vide una smorfia strana attraversare il pallido volto del suo avversario, ma
forse fu solo l’immaginazione a indurlo a crederlo, perché, un battito di
ciglia dopo, lui aveva iniziato a slacciarsi la terza casacca, stavolta con
movimenti stizziti.
Non ci volle molto perché il conte si liberasse di quell’impedimento… e ci
volle ancor meno perché Romualdo, esasperato, si gettasse in acqua, senza
attendere oltre: quel moccioso, ammesso e non concesso che non
fosse una donna, era impossibile.
Se la sua intenzione era di farlo impazzire così da vincere la gara senza
sforzo… bhé, ci stava riuscendo molto bene: sotto la tunica, portava una
blusa leggera, di un bianco splendente. Ma quanti dannatissimi strati si era
messo quel giorno?
Si concesse alcune profonde bracciate nell’acqua pura, scaricando in quei
movimenti tutta la tensione che aveva accumulato.
«Che aspettate, tuffatevi.» Disse, quando fu certo di riuscire a mantenere
un tono di voce adatto all’occasione. «Nell’acqua si bolle.» Aggiunse con un
sorrisetto, per prevenire qualsiasi protesta. «Levatevi la blusa. Altrimenti
sarò costretto a pensare che…» Lasciò la frase in sospeso, curioso di vedere
la reazione dell’altro.
Reazione che non si fece attendere.
«Che cosa?» Chiese infatti lui, divertito e, soprattutto,
irritato.
«Che non sapete nuotare.» Lo provocò, emergendo dall’acqua ed
avvicinandosi alla riva… e al suo avversario.
«Io nuoto molto bene.» Fu la pronta risposta, arrogante e superba.
Iniziava a dargli sui nervi quel ragazzino. Se poi era davvero una donna,
bhé, era anche peggio: cominciava a credere che una moglie così gli
avrebbe creato un sacco di problemi.
La cosa che più lo insospettì, però, fu la rapida occhiata che il conte rivolse
ad un punto imprecisato dietro di lui. Non era la prima volta che accadeva,
e la cosa non gli piaceva affatto: che stesse tramando qualcosa?
«Cosa c’è, aspettate qualcuno?» Gli domandò a bruciapelo.
«No. Nessuno.» Rispose secco, distogliendo subito lo sguardo e portandolo
verso di lui.
Incrociare di nuovo quegli occhi, quegli stessi occhi che da molte notti
popolavano i suoi sogni, fu una difficile prova di resistenza per il giovane
re.
Si costrinse a non voltarsi, scegliendo invece le parole più adatte per quella
che poteva essere la sua grande occasione: il suo avversario era
preoccupato per qualcosa, era chiaro come il sole… e, se gli déi lo
assistevano, poteva essere quella stessa preoccupazione che lo avrebbe
salvato dalla pazzia… oltre che dalla morte per mano di se stesso.
Scelse una frase semplice e diretta.
«Se temete… qualcosa, sarà il caso che lo confessiate
chiaramente.» Gli disse, scandendo bene ogni sillaba e avvicinandosi a lui,
le mani sui fianchi e l’aria sicura.
Anche l’altro gli si avvicinò, con atteggiamento spavaldo.
«Io temo solo quello che non capisco.» Iniziò, fermandosi subito dopo. Si
concesse una piccola pausa, girandogli intorno come una fiera con la sua
preda. Poi riprese. «Sono venuto a battermi in duello, invece voi prima mi
invitate a caccia, e poi mi sfidate ad una stupida gara di nuoto. Cercate di
divertire il popolo, o di vincere questa guerra?» Ora gli era davanti, e lo
fronteggiava con la testa alta e lo sguardo scettico. «Non avrete paura di
battervi con me?» Insinuò, con un sorrisetto impertinente.
E, prima di capire che lo stava soltanto provocando, prima di capire che era
solo uno stratagemma per duellare, rinunciando alla gara senza rimetterci
la faccia, Romualdo rispose per le rime.
«Io non ho paura di nulla.» Sibilò, avvicinandosi appena al suo
volto, per dare più enfasi a quella dichiarazione.
Fu solo quando lo vide scattare a prendere la spada che si rese conto di
essere caduto in pieno nella trappola, come il più ingenuo degli
scudieri.
«Provatelo.» Gli disse infatti il conte. «In guardia.»
Si diede dell’idiota, ma ormai non poteva tirarsi indietro: era una questione
d’onore.
Così, quando Cataldo corse verso di lui e gli lanciò l’arma, la impugnò
deciso, fronteggiando l’avversario con determinazione.
I fendenti si susseguivano rapidi: affondo, parata, scatto, difesa, ancora
affondo.
Combattevano muovendosi per tutto lo spiazzo, poi, con un’abile mossa, il
conte riuscì a privare l’altro della spada.
Romualdo indietreggiò, schivando agile i colpi.
Si trovarono infine sugli scogli e, all’improvviso, il re lanciò in acqua
l’avversario.
«Finalmente nell’acqua.» Commentò soddisfatto, riprendendo fiato. «Siete
annegato? Era vero allora: non sapete nuotare!» Lo prese in giro, ma fu
smentito all’istante dalla figura che riemerse di scatto, ferendolo al
petto.
«Oh mio Dio, mi dispiace.» Disse il giovane d’istinto, osservando il rivolo di
sangue che scorreva dalla ferita. Evidentemente pensava fosse più
distante.
E, ovviamente, il re ne approfittò per lanciargli un’altra frecciatina, affatto
preoccupato per quello che, in fondo, era soltanto un graffio.
«Cosa c’è, non sopportate la vista del sangue?» Domandò ironico.
L’altro allora emerse completamente dall’acqua, avvicinandosi a lui, la
lama puntata di nuovo al suo torace.
«Mi dispiace di non avervi ucciso.» Replicò, l’espressione spavalda tornata
di nuovo a deformare quei lineamenti tanto delicati.
Ma ormai si era scoperto troppo, la maschera si era incrinata… e Romualdo
tornò a colpire su quello stesso punto, per allargare la frattura e riuscire
finalmente a vederlo davvero.
«Avanti, riprovate: potreste riuscirci. Più convinzione.» Lo provocò,
andando a raccogliere la spada per riprendere il duello.
Combatterono ancora, con più foga di prima… tanto che, nell’ennesimo
corpo a corpo, persero entrambi l’equilibrio, cadendo a terra.
Uno sull’altro.
Sentire quel corpo caldo che premeva sul suo, avvertire il respiro affannoso
sul viso, sostenere lo sguardo di quegli occhi ardenti… tutto questo fu per
Romualdo la più piacevole delle torture.
Se non ci fossero state quelle spade incrociate a dividerli, forse… forse
avrebbe fatto una pazzia. Fu solo la sua ferrea volontà a impedirgli
di avvicinarsi ancora e assaggiare quelle labbra tanto impertinenti.
Non ancora. Si disse. Non prima di averlo
smascherato.
«Non così vicino...» sussurrò, senza sapere se si rivolgeva all’altro o a se
stesso «e se vi macchiate di sangue?»
Il conte esitò appena, scivolando con lo sguardo sulla sua ferita.
Quando tornò a concentrarsi sulla lama con in volto una strana espressione
sofferente, Romualdo sorrise, vedendo quella frattura allargarsi ancora di
più.
Manca poco. Si fece coraggio il re. Ancora un piccolo sforzo, e la
maschera sarebbe caduta.
«Il vostro sangue non mi impressiona.» Disse piano il suo avversario, come se volesse auto
convincersi di quell’affermazione.
Tuttavia, poco dopo, allentò la presa sulla spada e si alzò, allontanandosi da
lui.
Rimase a guardarlo senza fare nulla, e Romualdo approfittò di quell’attimo
di smarrimento per lacerargli la stoffa dei pantaloni, scoprendo le gambe
fino alle cosce.
« Finalmente! Almeno le gambe sono nude, adesso. Sono magre, e senza
muscoli.» Commentò divertito: quelle non potevano essere le
gambe di un uomo. Al massimo di un ragazzo giovanissimo, ma il conte
aveva troppa esperienza per rientrare in quella categoria.
Rimaneva dunque soltanto una possibilità…
Si alzò da terra e riprese a combattere.
Forse fu l’euforia per quella scoperta a distrarlo, o forse fu soltanto la
giusta punizione per la sua superbia, fatto sta che il Conte di Valdoca riuscì
a disarmarlo di nuovo, bloccandolo a terra con la spada puntata alla
gola.
Aveva perso.
Fu una strana sensazione quella che invase la mente e il cuore del giovane
re. Incredibile a dirsi, l’amarezza della sconfitta non lo toccava affatto. Non
era importante, se paragonata alla consapevolezza che, finalmente aveva
raggiunto: il suo avversario era un uomo. O meglio, un
ragazzo.
Lo capiva chiaramente, adesso, mentre lo guardava troneggiare su di lui,
pronto a infliggergli il colpo di grazia.
E si accorse che andava bene così. Era contento che le cose non fossero
andate diversamente: in fondo, a quel modo, almeno lui avrebbe
continuato a vivere.
«Dicevate, Romualdo?» Domandò ironico il conte, un sorrisetto di vittoria
che illuminava il suo bel volto.
«Hai vinto, finiscimi.» Disse in un soffio il giovane re.
Sì, era giusto così: era giusto che fosse lui a prendersi la sua vita… la morte
sarebbe stata quasi piacevole se fosse giunta per mezzo della sua
mano, ne era certo.
Lo vide esitare, il braccio che teneva l’arma non più saldo, ma
tremante.
Si fissarono in silenzio, entrambi immobili, come in trance.
Fu la voce del generale a risvegliarli.
«Uccidetelo! Che aspettate? Uccidetelo!» Urlò al campione del suo re,
eccitato all’idea della vittoria e seccato per quell’assurda attesa che lo
separava da essa.
Ancora il conte esitava, la presa sempre meno salda, tanto che dovette
aiutarsi con entrambe le mani.
Allora anche Ivaldo si avvicinò ai due.
«Non puoi lasciarlo vivere, senza onore.» Disse semplicemente, fissandoli
con la morte nel cuore, ma con lo sguardo sicuro.
Buon vecchio Ivaldo. Uno dei suoi più cari amici. Uno che lo
conosceva forse meglio di se stesso.
Lo aveva capito come sempre, un’altra volta… un’ultima
volta.
Sorrise, Romualdo. Un sorriso spontaneo, luminoso.
«Hai vinto. Finiscimi, ora.» Ripeté, aspettando sereno.
Niente al mondo gli avrebbe impedito di distogliere lo sguardo da quegli
occhi, incatenati ai suoi: dovevano essere l’ultima immagine che avrebbe
visto.
Ma quegli occhi, quegli stessi occhi che tanto amava, sì, perché quello era
amore, si riempirono di lacrime.
Lacrime di rabbia e di dolore, che lo costrinsero a rompere quel legame,
voltando la testa di scatto.
«Non riesco a ucciderlo!» Esclamò con voce rotta, gettando la spada a terra
e allontanandosi da lui.
Il generale era a dir poco furioso.
«Vigliacco! Traditore! Il vostro comportamento disonora la nostra gente!
Sarà mia cura informare Sua Maestà il Re, statene certo, Conte di
Valdoca.»
Né gli insulti né le minacce fermarono il conte che, come se fosse inseguito
dal diavolo in persona, corse fino al suo cavallo, salì in sella e lo spronò.
Cavalcò senza voltarsi indietro.
Verso il suo re, verso la sua vergogna… verso la sua punizione.
Romualdo non poté far altro che guardare la sua schiena allontanarsi
sempre di più, fino a sparire all’orizzonte. |