Capitolo uno: il gentiluomo
Elosbrand[1], Yavios[2] 11, 370 ore 6
del mattino
«No, signore, non così! Potreste cader…».
Il giovane gentiluomo ruzzolò al suolo prima che il maestro potesse
terminare la frase.
Era snello, quasi esile, di altezza media e dell’apparente età di
vent’anni. Il volto era decisamente attraente, dai lineamenti delicati,
con due occhi grandi dal taglio vagamente a mandorla, vivaci, di un
profondo colore verde. Portava due baffi sottili, secondo la moda
diffusa fra i gentiluomini di allora. La folta chioma nera gli ricadeva
fin quasi sulle spalle. Vestiva semplicemente, con una camicia di seta
bianca, un paio di pantaloni di pelle nera e stivali dello stesso
colore. Indossava un giubbetto imbottito da allenamento per poter
tirare di scherma più tranquillamente. Pur sbilanciato, era riuscito a
correggere la sua caduta, riuscendo a sdraiarsi dolcemente al suolo e
dimostrando cosa potevano fare i suoi muscoli affusolati.
«Per gli Dei! Non riuscirò mai a maneggiare decentemente
quest’affare!».
Il giovane guardava tristemente lo stocco che, dopo essergli sfuggito
di mano, era rotolato giù dalla pedana.
«Sono certo di sì, milord, lo farete quando avrete compreso che l’arma
che avete in mano deve essere usata in un altro modo. Un modo,
peraltro, assai più consono alle vostre capacità».
Il maestro aiutò il gentiluomo a rialzarsi, sorridendo sotto i folti
baffi.
Era un uomo imponente, alto snello e muscoloso, a dispetto dei suoi
cinquantacinque anni e spiccioli, vestito semplicemente ma con gusto,
come si addiceva alla sua professione. I capelli, che portava corti,
erano spruzzati di grigio e cominciavano a rarefarsi sulla sommità del
capo. Il volto aperto e gioviale era incorniciato da una lunga e folta
barba, accuratamente intrecciata. La sua presa, ferma e vigorosa,
permise al giovane di rimettersi rapidamente in piedi. Le maniche
arrotolate scoprivano due braccia robuste, segnate da molte cicatrici
che tradivano un passato certamente più movimentato del presente.
«Lo stocco è un’arma gentile, leggera. Non può essere maneggiato come
un’ascia o uno spadone. Quest’arma è tutt’altra cosa. Come, d’altronde,
voi siete profondamente diverso dalla maggioranza degli uomini d’arme».
Il maestro, alto quasi una testa di più, guardava intensamente
l’allievo, mentre parlava. Il giovane gentiluomo scese dalla pedana per
recuperare la spada. Un sorriso divertito comparve sul volto
dell’esperto istruttore, mentre osservava i movimenti eleganti
dell’altro.
La stanza d’allenamento era ampia, rettangolare, rischiarata da alcuni
candelieri a più braccia posti vicino alle pareti. Al centro spiccava
la pedana rialzata sulla quale si svolgeva la maggior parte degli
allenamenti. L’unica porta della sala era su una delle pareti corte
mentre due alte finestre chiuse da preziose vetrate e parzialmente
coperte da pesanti tendaggi azzurri erano sul muro lungo, alla sinistra
dell’entrata. Addossate alla parete di fondo c’erano alcune
rastrelliere cariche di armi di vario tipo. Fra queste si potevano
contare possenti asce e affilate scimitarre, spade lunghe e corte,
stocchi e persino due enormi spadoni. Il muro dirimpetto alle finestre
era decorato con preziosi dipinti che ritraevano duelli e battaglie.
«Dovete imparare a conoscere e apprezzare le vostre doti, che sono
tante, e accettare e gestire i vostri limiti, che sono pochi, ma ci
sono».
Il maestro raggiunse il giovane, scendendo con movenze eleganti la
piccola scala di legno che portava al pavimento, un metro più in basso.
«La vostra agilità è fuori del comune, credetemi, ma difettate in
potenza: d’altronde raramente queste caratteristiche riescono a
coesistere. Dovete fare affidamento sull’intelligenza, sulla velocità e
sulla precisione. Evitate di accettare uno scontro basato solo sulla
forza fisica perché non avreste molte speranze di cavarvela. Inoltre,
cercare di potenziare la vostra muscolatura andrebbe a scapito
dell’agilità. Forse eliminerebbe un punto debole ma sacrificherebbe la
vostra dote migliore. Se avrete la costanza di seguirmi, io credo che
abbiate le potenzialità per diventare un duellante straordinario».
Come per mostrare cosa intendeva dire, con un colpo preciso dello
stocco spense una candela del candeliere accanto a lui senza farla
nemmeno vacillare. L’allievo tentò di imitarlo col risultato di spedire
una candela dall’altro capo della stanza e spegnere le altre. I sottili
baffetti alla moda si torsero verso il basso, in una smorfia di
disappunto. Lentamente raggiunse la candela e la riportò al candeliere.
Quella parte della stanza era piombata in un’oscurità quasi totale ma
il giovane si muoveva come se fosse in piena luce. Pareva che avesse
mutuato dai gatti anche la vista, oltre alle movenze.
«Ahimè, sembra facile… ma se affronterò un avversario armato di spada,
mi farà a fette…».
Il gentiluomo, evidentemente avvilito, si grattò il capo e si aggiustò
il giubbetto imbottito. Il maestro riaccese le candele e si girò verso
di lui per guardarlo negli occhi.
«Dovrà prendervi, prima. E non sarà affatto facile, credetemi».
Si voltò sorridendo verso la pedana di allenamento e ci balzò agilmente
sopra. Poi indicò la scala al giovane allievo che la ignorò e saltò
accanto a lui con l’eleganza di un acrobata.
«Ora, se non vi dispiace, ricominciamo. In guardia!».
L’allievo, un po’ titubante, riprese posizione di fronte a lui, si
ravviò i capelli arruffati, guardò con espressione sospettosa
l’elegante impugnatura dello stocco, poi sollevò l’arma. Quel mattino
avrebbe fatto numerosi viaggi su e giù dalla pedana.
Un’ora dopo, mentre il primo chiarore dell’alba tingeva il cielo di
rosa e scacciava la foschia che, come ogni notte, aveva riempito le vie
della città, il giovane gentiluomo uscì furtivamente dalla porta
posteriore della scuola d’armi, avvolto in un mantello nero e con il
capo coperto da un cappello a tesa larga dello stesso colore del
mantello, ornato da una grande piuma nera. Sparì nell’ombra dei vicoli,
rapido e silenzioso come un gatto, seguito dallo sguardo sorridente del
maturo istruttore.
Douglas Fairblank era un uomo di non comune intelligenza, nonché il più
apprezzato maestro d’armi di Elosbrand. Era stato un avventuriero di
qualche fama, in gioventù, poi, dopo un increscioso scontro con uno
stormo di viverne dal quale si era salvato a stento (ma con un notevole
bottino in pietre preziose), aveva scelto di ritirarsi per
intraprendere la carriera, certamente più anonima e meno remunerativa
ma decisamente più salubre, di istruttore. Le sue maniere affabili e la
sua competenza lo resero rapidamente assai ricercato, soprattutto fra
le classi più abbienti della città, cosa che gli aveva permesso di
aumentare la sua già discreta agiatezza.
Quando l’abile istruttore si rese conto di essere oggetto di autentiche
contese fra i ricchi gentiluomini che ambivano di diventare suoi
allievi, decise di essere arrivato al punto di potersi permettere di
selezionare la propria clientela. Da allora scelse di addestrare solo
coloro che gli davano ampie garanzie di poter diventare formidabili
combattenti, indipendentemente da quanto potessero offrigli come
compenso. Questa scelta lo rese ancora più ricercato: essere suoi
allievi era diventato ormai garanzia di poter raggiungere i migliori
risultati dell’arte schermistica.
In quegli anni aveva addestrato fior di guerrieri e di mercenari, molti
dei quali si erano distinti in numerosi tornei. Così ora si chiedeva
come mai avesse accettato di istruire all’arte della spada quel Lord
Bailey Windström che pareva quanto di più lontano ci potesse essere
dall’idea comune di combattente.
Ma Douglas Fairblank sapeva non farsi ingannare dalle apparenze. Aveva
sempre avuto l’abitudine di conversare molto con i suoi allievi e negli
ultimi anni aveva accentuato la sua ricerca del dialogo perché sapeva
bene che le doti fisiche non erano la caratteristica più importante per
un vero spadaccino. Occorreva molto di più.
Aveva già rifiutato dozzine di aspiranti allievi simili a quello. Non
aveva grande simpatia per chi appariva troppo damerino e ricercato nei
modi. Secondo lui, un tipo con quelle movenze da perfetto gentiluomo e
quel fisico esile era più adatto alla danza che alle armi. E poi quel
ragazzo aveva alcuni gravi difetti d’impostazione. Chi l’aveva istruito
alla scherma doveva essere abituato all’uso di spade lunghe e asce,
armi che soprattutto richiedevano forza fisica per essere adoperate al
meglio, dunque inadatte per quel mingherlino. C’era tanto da fare per
correggere quei difetti che potevano essere veramente pericolosi.
Ma qualcosa lo aveva incuriosito in quel giovane. Appariva pigro e
sofisticato quando si trovava in un salotto ma sulla pedana pareva
trasformarsi. Una formidabile determinazione lo portava a eseguire
esercizi massacranti e ripetizioni di movimenti che avrebbero stancato
chiunque non avesse avuto ottimi motivi per diventare un perfetto
spadaccino. E Douglas Fairblank sapeva benissimo come la volontà fosse
il requisito essenziale per imparare.
Ma non era solo questo.
C’era, attorno a quel gentiluomo, un’aura di mistero, qualcosa che lo
rendeva particolare e incuriosiva oltremodo il maestro d’armi. Non
tanto l’assoluta segretezza con la quale si recava a prendere lezione
da lui a quell’ora antelucana: non era la prima volta né sarebbe stata
l’ultima che un gentiluomo tentasse di non fare sapere che cercava di
diventare un provetto spadaccino. Era qualcos’altro. Qualcosa di
indefinibile che però gli faceva sospettare che ci fossero molte cose
interessanti nel passato di quel giovane.
Era, o diceva di essere, l’erede di un ramo cadetto di una potente
famiglia di Aglargond[3] ma non pareva disporre di ricchezze adeguate
alla sua casata, nonostante tentasse di mostrare il contrario. Invece,
quel gentiluomo colto e apparentemente vissuto nella bambagia pareva
ben conscio del valore del denaro e di come fosse difficile
procurarselo. La sua bravura con l’arco era notevole ma la confidenza
con l’arma e la rapidità di tiro erano più quelle di un cacciatore di
professione che di un nobile appassionato d’arte venatoria. Tutto ciò
aveva rapidamente cambiato la prima impressione del maestro d’armi.
Ma c’erano altri aspetti che lo incuriosivano, anche se cominciava a
intravedere qualche barlume di verità. L’aspetto di un ragazzo appena
uscito dalla pubertà e la maturità di un uomo che aveva vissuto molto e
molto sofferto. Modi perfettamente controllati ma un fuoco ardente
negli occhi. L’educazione di un nobiluomo ma un’assoluta assenza di
alterigia, come chi sa che la nobiltà non si acquisisce per nascita.
Un’agilità da pantera ed una resistenza alla fatica insospettabili in
un corpo quasi esile. Una voce melodiosa, avvezza al canto, ma ferma e
decisa, capace di farsi obbedire con un semplice mutamento di tono. Una
lingua sciolta e loquace che riusciva benissimo a parlare per ore senza
far trapelare nulla di sé.
Quasi nulla, pensò l’esperto
avventuriero.
[1] Capitale della repubblica di Elos, uno dei principali porti
di Ainamar, la grande isola dove sono ambientate queste storie
[2] Nono mese dell’anno, il primo d’autunno
[3] La capitale dell’impero di Ardor, lo stato più potente di Ainamar
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