Rolek era appena entrato nel corpo
di Alessandro. Una procedura rischiosa, normalmente proibita, tuttavia
necessaria per fuggire.
Rolek era conscio del rischio a cui si stava esponendo, conosceva bene la difficoltà dell’
azione: Comportarsi come un parassita, entrare in un corpo già provvisto di una
sua anima ed impadronirsene. In tutta la sua vita di nefandezze non aveva mai
provato una tale sensazione di degrado e di umiliazione. Non lo faceva
volentieri, di certo avrebbe preferito non possedere un volgare e fragile
involucro umano. Nonostante il suo orgoglio fosse restio a chiudere gli occhi
dinanzi ad un simile atto, la sete di vendetta e di rivalsa spinsero
l’ animo di Rolek a
riversarsi nel corpo del ragazzo con l’ irruenza di un fiume in piena.
Il trasferimento era ormai a metà, però qualcosa non stava
andando per il verso giusto: L’ essenza del parassita
avrebbe dovuto svolgere un procedimento simile alla fagocitazione nei confronti
dell’ anima già presente. Invece, nel suo caso, l’ anima
che avrebbe dovuto lasciarsi divorare stava opponendo una strenua resistenza.
“Perché?” sembrò dire Rolek quando
il flusso della sua essenza sembrò rallentare.
All’ esterno, il corpo di
Alessandro fu scosso da tremende convulsioni, come se al suo interno si stesse
disputando una terribile battaglia e, metaforicamente parlando, nessuna
impressione sarebbe stata più realistica di questa.
Rolek aveva sempre più difficoltà
a prendere possesso del corpo: l’ anima di Alessandro,
dando prova di un’ enorme determinazione, stava reagendo all’ invasione
perpetuata dal parassita, tenendogli testa.
“Cosa sta succedendo? Perché
incontro tutta questa resistenza?” disse Rolek, ed intanto la battaglia continuava ad infuriare senza sosta.
Improvvisamente il corpo di Alessandro si arrestò. Le
terribili convulsioni cessarono. Il corpo era svenuto, ma quale delle due
coscienze aveva riportato una vittoria? Qual’ era
adesso l’ effettiva identità di quel corpo svenuto in mezzo all’ immondizia?
Passarono ore, l’ alba era ormai
giunta, il sole iniziò a sorgere, accarezzando con i suoi raggi il viso del
ragazzo svenuto nella discarica.
Nell’ aria iniziò a diffondersi una
canzone, una canzone soffocata, dalle parole poco chiare, come se la fonte del
suono fosse tenuta sotto un cuscino. Il ragazzo aprì gli occhi sentendo questa
canzone. Era la suoneria del suo cellulare.
Andando a tentoni, quasi istintivamente, il ragazzo si tastò
la tasca dei pantaloni, dalla quale estrasse l’ apparecchio.
Sul display c’ era scritto “Mamma”, ma in quel momento
il ragazzo non ricordava nemmeno chi fosse.
Sondando la memoria cercò di cercare
informazioni su se stesso e su “Mamma”.
…
………..
……………Vuoto.
Non aveva più un singolo ricordo, la sua memoria era
assente. Gli occhi si sgranarono di colpo a causa dello shock.
“C-chi sono io?”
Come in risposta al suo richiamo,
un pensiero veloce, un’ immagine sfuggevole gli mostrò per un attimo la sua
identità
“Ale..”
balbettò, ma subito in quell’ immagine si venne a creare una sorta di
interferenza, come se un altro pensiero si volesse sovrapporre al primo, per
completarlo o sostituirlo.
“Leck… io sono Alek”
Il telefono squillava insistentemente, la voce del cantante
era energica, selvaggia ma composta allo stesso tempo, il frenetico ritornello
destò Alek dal suo torpore.
“Pronto?” rispose. Dall’ altro
capo, una voce femminile sull’ orlo di una crisi isterica urlò parole che
difficilmente Alek avrebbe potuto comprendere nello
stato in cui si trovava.
“M- mamma?” disse dubbioso “Calmati, ti
prego… sono molto confuso, puoi venirmi a prendere? Sono..” si guardò intorno “Sono in una discarica. Ti spiegherò tutto dopo.”
La madre disse qualcosa che Alek
non comprese, dopodiché riattaccò.
Mentre aspettava la donna, il ragazzo cercò di inventarsi
una scusa credibile, non riuscendo ad inventarsi nulla
di coerente. (Ricordo come si parla, come ci si
comporta nelle varie occasioni e molto altro, ma non ricordo nulla di me.. cosa
diavolo mi è successo?) pensò.
Ad un certo punto gli venne un’
idea. Controllò i suoi documenti e cercò nel cellulare foto,
contatti e video utili alla memoria. Scoprì quindi di chiamarsi
Alessandro Borromini, vent’ anni.
Nella foto del documento si intravedeva un volto
serio, severo, più simile al viso di un generale dell’ esercito piuttosto che
ad un ragazzo di vent’ anni. I capelli sembravano biondi, ma la foto era venuta
male e non si riusciva a capire. Nel cellulare, invece, non vi era nessuna
informazione utile.
Passarono all’ incirca cinquanta
minuti prima che la madre di Alessandro arrivasse. Era una donna di circa quarant’ anni, non molto alta con i capelli lunghi raccolti
in una coda di cavallo. Gli occhi erano marroni, a
mandorla. Oggettivamente era proprio una bella donna, sebbene una cicatrice
sulla guancia destra deturpasse, seppur minimamente, la sua bellezza.
Alek era intanto risalito fino al
ciglio della strada dove si era seduto a gambe
incrociate a rimirare i suoi abiti. Giacca e soprabito erano lerci, mentre il
cappello, con grande sollievo per il proprietario, si era salvato. Aleck sentiva di avere un legame speciale con quel
cappello, un borsalino di pregiata fattura
appartenuto al padre di Alessandro, ormai passato a miglior vita. Ma questo non poteva sapere.
La madre di Alessandro scese dalla macchina. Rimase immobile
a contemplare il ragazzo sporco davanti a lei, con aria quasi impassibile. Si
accese una sigaretta e si limitò a dire:
“Di nuovo nei guai teppista?”
La voce era forzatamente calma, un lucchetto arrugginito in procinto
di cedere da lì a poco.
Il ragazzo non osò alzare lo sguardo, più che altro perché
non sapeva cosa dirle.
“Andiamo a casa…” disse la madre
Il viaggio di ritorno a casa fu silenzioso, né la madre né
il figlio si erano più rivolti la parola. Aleck non
sapeva ancora formulare pensieri completamente lucidi, il suo cervello doveva
fare pratica con un nuovo essere.
Sua madre, invece, era fin troppo abituata alle scorribande
del figlio per fare domande che non risultassero
scontate, dopo tutte le nottate passate a medicarlo dopo le sue risse.
Altri cinquanta minuti. La casa che fu di Alessandro era una
piccola villetta a due piani. Il piano terra era occupato dalla cucina, il
soggiorno e la sala da pranzo, mentre il secondo piano ospitava le camere dei
suoi inquilini. La madre, di nome Lucile, si sedette in sala da pranzo tenendo
gli occhi fermi sul ragazzo sporco che era seduto davanti a lei.
“Che è successo stavolta? Hanno di nuovo insultato il tuo cappello?” disse con fare quasi
annoiato.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio: si chiese se un cappello giustificasse l’ improvviso risveglio in una discarica fuori
città.
“O magari hai avuto una discussione con qualche vecchia
conoscenza… “
“Non lo so.. Mamma”
“Mamma? E’ da cinque anni che non
mi chiami più così.. devi essere proprio rincoglionito
oggi”
“C-come?”
“Di solito mi chiami Lucy, come la canzone “Lucy in the Sky with diamonds” dei Beatles”
“Ah giusto..” rispose poco convinto
“Devi aver preso una bella botta se non ricordi nemmeno le
tue strambe abitudini, e i Beatles.”
La discussione terminò pochi minuti dopo, lo stato confusionale
in cui si trovava Alek non facilitava di certo la
conversazione.
Ormai esausto, il corpo del ragazzo si diresse per inerzia
verso la sua camera da letto, di cui aveva dedotto l’
ubicazione dalla scritta “Stanza di Alessandro” in caratteri occidentali e
cubitali sulla porta.
Entrò.
La stanza era immersa nel buio, tralasciando il pallido
chiarore lunare che creava dei chiaroscuri nell’ ambiente,
distorcendo la realtà secondo la fantasia umana. Cos’ era dunque quell’ orco appoggiato alla parete, o quel piccolo essere
dalle larghe spalle vicino al letto? Alek era troppo
stanco e mentalmente confuso. Cercò a tentoni il letto e, una volta raggiunto,
si abbandonò ad un sonno profondo.
Si svegliò verso mezzogiorno e mezza,
aprì gli occhi di colpo, iniziandosi a tastare il corpo: non sapeva ancora come
era fatto. Andò in direzione dell’ orco, in realtà un grosso pendolo d’ epoca e si
mise davanti allo specchio posto lì vicino.
Era piuttosto alto, circa un
metro e novanta, la costituzione era robusta e la muscolatura molto sviluppata,
forse anche troppo. Le spalle erano esageratamente larghe, le gambe dritte e
possenti. (Sono un armadio a due ante..) pensò, senza
nascondere la fierezza di avere un corpo così potente, da guerriero. Dopo
essersi osservato il corpo con fare narcisista, Alek
iniziò a scrutarsi il viso. Lineamenti duri, scavati, un volto di marmo adatto ad un generale o ad un killer. Occhi verdi senza luce,
vitrei, privi di qualsivoglia scintilla vitale In contrasto con quel volto scolpito nell’
assenza di vita, i capelli erano corti e ben pettinati all’ indietro, di colore
biondo cenere, sebbene qualche ciocca qua e là tendesse misteriosamente al blu.
Stranamente la sua espressione
gli risultò ambigua, ottenebrata da una nota di
perfidia, nonostante faticasse a capirne il motivo.
(Sarò
fatto così) concluse.
Indossato un paio di pantaloni
poggiati sullo schienale di una sedia, Alek si
diresse curioso verso la vita, non privo di una certa ansia.
Al piano di sotto, in cucina,
sua madre gli aveva lasciato un biglietto attaccato al frigorifero in cui gli
intimava di fare la spesa.
(Brutta
storia, non so minimamente com’ è fatta ‘sta città.. andrò a tentativi) pensò.
Dopo una doccia ristoratrice Aleck indossò dei vestiti puliti e si diresse fuori, nel
mondo.