Questa fic è nata nella
stazione di Paris Montparnasse, durante una lunga giornata d’attesa. Era pieno
luglio, ma nonostante ciò il tempo era nuvoloso, e faceva un freddo assurdo :P
io ho spostato la storia a settembre (almeno idealmente), e ho fatto qualche
altro cambiamento (da Montparnasse in teoria non partono treni per
l’Inghilterra, ehm). Le sensazioni provate quel giorno, però, le ho riportate in
modo quasi identico. Soprattutto l’idea dell’attesa senza fine, del tempo che
non passa, e che resta immobile, come se fosse rimasto imprigionato in un’altra
dimensione…
Credevo che non avrei
più scritto un’altra Viggorli, e invece… beh, mai dire mai ;) ma volendo si
potrebbe leggere questa storia anche come una semplice real person, non
necessariamente slash. Tutte le interpretazioni e le scelte sui punti di vista,
comunque, le lascio ai lettori ;P all’inizio doveva essere una specie di drabble,
davvero brevissima, ma per quanto mi sforzi se c’è una cosa che proprio non ho è
il dono della sintesi…
Ovviamente non ho idea
se Viggo e Orlando siano mai stati a Parigi e bla bla bla… ma ho cercato di
basarmi sui dati ricavati dalle biografie degli attori (nel 1995, a 18 anni,
Orlando *dovrebbe* aver vinto davvero la borsa di studio per British American
Drama Academy, e così via) e da alcune loro interviste.
Un grandissimo grazie a
Tao e Celebel che mi hanno illuminata sull’origine del nome di Orlando :D e per
ogni altro eventuale errore sfuggitomi, chiedo scusa. In particolare a proposito
di Maurice Maeterlinck: la spiegazione di Viggo sulla sua raccolta di poesie
“Serres Chaudes” l’ho ‘elaborata’ basandomi sulla prefazione di Ruggero Jacobbi
presente nel volume dedicato al poeta nella “Collezione Premi Nobel”, 1967,
Arnoldo Mondatori Editore. Non sono una studiosa di letteratura, per cui chiedo
venia per ogni castroneria che potrei aver affermato…
Ultime chiacchiere (più
o meno) inutili:
- non so bene perché, ma
nelle mie fic metto sempre in mezzo, in un modo o nell’altro, dei fenomeni
atmosferici… soprattutto la pioggia :P ma non lo faccio apposta, giuro! Mi sta
venendo pure la mezza idea di fare una trilogia sulla pioggia, composta da
Arizona Rain, questa fic e una terza storia, lol (la “trilogia bagnata” suona
molto male, vero?)
- al povero Stuart
Townsend, che fu scelto in un primo momento per interpretare Aragorn, chiedo
umilmente scusa! Non so in realtà se sia simpatico o antipatico, ma mi serviva
che fosse stato un po’ odioso per la riuscita del dialogo con Dom e per l’ultima
parte… e già che ci sono, mi scusi anche Christopher Lee!!
E infine,
dedico questa fic ad
Ewyn, perché è la mia fangirl preferita… ;)
Leia
~
Dreaming Tomorrow
~
Autunno 1995, Parigi
La pioggia scendeva fitta. Le
porte scorrevoli dell’uscita continuavano ad aprirsi e chiudersi con un sibilo,
attivate dalla fotocellula davanti alla quale era fermo. Lo investivano ventate
di aria fredda ad intervalli regolari, ma anche se sotto la t-shirt di cotone
rabbrividiva, rimase immobile a lungo.
Non sembrava sereno, ma sul
viso giovane e imberbe comparve più volte l’ombra di un lieve sorriso.
Malinconico, o forse no. La luce grigia che penetrava dalle vetrate opache gli
riempiva gli occhi nocciola, dolci, dalle lunghe ciglia scure. Guardavano
lontano.
Quando finalmente si mosse,
fu solo perché una coppia lo urtò. Captò un “pardon” mormorato con voce
annoiata, e quando abbassò lo sguardo fece appena in tempo a scorgere
un’esplicita occhiata d’apprezzamento nella sua direzione da parte di una bella
ragazza bionda. Il compagno, un uomo più grande di lei di almeno dieci anni, la
strinse a sé. Con tono indispettito le disse qualcosa in francese stretto, poi
la trascinò bruscamente sotto la pioggia. Un grande ombrello rosso si aprì sopra
le loro teste, e in un attimo scomparvero.
Le porte si sigillarono per
l’ennesima volta. Lui, fissandole, sospirò, inalando l’ultimo soffio di aria
pungente nei polmoni. Spostò gli occhi sulle borse posate accanto a sé, sul
pavimento dove la polvere continuava a correre, poi sull’orologio al polso. Le
lancette segnavano le 20.45. Dubitava che avrebbe trovato una stanza d’albergo
prendendo a vagare a quell’ora per Parigi, ed in ogni caso dubitava anche che ne
valesse la pena.
Si voltò. I tanti treni
soppressi avevano creato una notevole confusione nella stazione di Montparnasse.
Centinaia di viaggiatori si trovavano nella sua stessa situazione. Per tutti si
prospettava una lunga notte, ed ogni sala d’attesa – come aveva avuto modo di
vedere curiosando tra i vari livelli – era strapiena di gente e bagagli. Aveva
rinunciato da tempo a sperare di trovare un sedile vuoto, puntando piuttosto a
sistemarsi in un angolo, per terra. In realtà, nonostante il freddo che filtrava
dall’ingresso, non voleva allontanarsi da lì. Voleva poter osservare la pioggia
da dietro i vetri, o almeno sentirla. Gli ricordava casa.
Assurdamente però, se glie
l’avessero chiesto in quel momento, non avrebbe saputo dire se più gli mancava o
più lo spaventava. Perché per la prima volta nella sua vita, lo sapeva,
l’adrenalina non gli sarebbe salita per un semplice salto da un elicottero a
cinquecento metri di quota. Questa volta sarebbe stato diverso, completamente
diverso.
*
No, non era un sogno.
Qualcuno gli stava parlando. In inglese. Aprì gli occhi.
« … emo qui?».
Una sagoma alta, davanti a
lui, contro il chiarore delle luci al neon.
«Co… ». La voce non gli
usciva. Se la schiarì. « … come?».
L’altro sembrò chinarsi un
po’.
«Allora avevo indovinato. Non
sei francese. Ti dispiace se mi sistemo qui? Non volevo disturbarti, ma questo
sembra l’unico posto vicino all’ingresso dal quale si possano tenere d’occhio i
tabelloni delle partenze. E dove i sorveglianti non fanno storie, se ci si siede
per terra».
Il ragazzo cercò di mettersi
seduto in un modo un po’ più composto. Era intontito dal sonno, e la voce
sembrava non voler tornare in modo convincente. La gola, in effetti, gli faceva
un male terribile. Forse lo stendersi sul pavimento senza tirar fuori dalle
valigie nemmeno una felpa da mettersi addosso non era stata una grande idea.
«Oh… uhm, certo. Accomodati»,
disse con difficoltà, allargando un braccio e sfregandosi gli occhi con l’altra
mano. «Scusa… scusami, ma a quanto pare ci vorrà un po’ prima che riesca a
tornare a parlare in modo normale».
Lo sconosciuto fece una breve
risata. Nonostante l’inusuale sfumatura roca che aveva nella voce, a differenza
di lui sembrava scoppiare di salute. Il giovane lo osservò con attenzione mentre
si sedeva, abbassandosi prima sulle ginocchia per buttare il borsone che aveva a
tracolla contro il muro. E mentre seguiva quei movimenti il suo sguardo si posò
sul singolare profilo del viaggiatore, dai lineamenti decisi e sorprendentemente
eleganti, ma soprattutto sui suoi grandi occhi chiari circondati da alcune,
lievi rughe d’espressione. Doveva avere all’incirca quarant’anni, ed era
decisamente un bell’uomo.
«Avresti dovuto metterti
qualcosa di più pesante addosso. Credo che stanotte, qui, si gelerà», proseguì
quest’ultimo, gettando un’occhiata alla t-shirt del ragazzo e chiudendo la zip
della propria maglia fino in cima.
«Oh, sì. Ora prenderò
qualcosa dalla borsa», rispose l’altro, sbattendo le ciglia più volte nel
tentativo di far cadere il velo sfocato che, nonostante tutto, aveva ancora
davanti. «Quando mi son seduto ho iniziato a guardare la pioggia che scendeva, e
mi sono addormentat… ».
Finì la frase con un filo di
voce. Gli occhi dell’uomo erano fermi sui suoi, magnetici, e sembravano volergli
passare attraverso. Non aveva mai visto uno sguardo così. Solitamente non si
sentiva a disagio se qualcuno prendeva a fissarlo con insistenza, ma questa
volta… non sapeva spiegarlo. Assomigliava alla sensazione di sentirsi
improvvisamente incapace di stare in mezzo alla gente. Senza più difese,
sicurezze, argomenti intelligenti da proporre. Come nei peggiori incubi che si
hanno da adolescenti.
«Anche a me piace la
pioggia». Il viaggiatore appoggiò la schiena contro la borsa, e non sembrò
accorgersi dell’imbarazzo del suo interlocutore. «La trovo… ispirante».
Con grande sollievo del
giovane l’uomo proseguì voltandosi un attimo, per sistemare alla bell’e meglio
accanto a sé una specie di valigetta. C’erano anche due grosse custodie di
pelle.
«Quelle sono macchine
fotografiche?», gli domandò allora il ragazzo osservandole, improvvisamente
curioso. «Sei un fotografo? Un artista?».
L’altro si girò di nuovo
verso di lui, e per un attimo non disse nulla. Dopodichè le sue labbra si
allargarono in un grande sorriso. Era gentile, in perfetta armonia con le iride
limpide.
«Artista… mh. Forse potrei
definirmi così, e forse no», commentò con voce quasi bassa. «E sì, sono macchine
fotografiche. Sto girando la Francia in cerca di soggetti interessanti.
Domattina riparto verso sud». Fece una breve risata. «Ad essere sincero, non
sono capace di stare fermo troppo a lungo nello stesso posto».
Appoggiò un gomito sul
ginocchio piegato, tendendo invece il braccio destro. Mostrò lo stesso,
rassicurante sorriso di poco prima.
«Sono Viggo. Scusa, dovevo
presentarmi subito».
Il ragazzo dai capelli scuri
allungò istintivamente le labbra a sua volta. Il senso di disagio era ormai
completamente sparito. Strinse le dita affusolate dell’uomo, sentendole ruvide
ma salde intorno alle proprie, e pensò che Viggo era un nome decisamente
bizzarro. Ma non lo disse.
«Figurati, avrei dovuto fare
lo stesso. Io sono Orlando».
«Orlando? Come il
protagonista di quel poema cavalleresco italiano?».
Il giovane ridacchiò.
Effettivamente anche il proprio nome non era qualcosa che poteva esser definito
‘comune’. Tendeva spesso a scordarselo. Quando osservava le facce puntualmente
fra il divertito e lo stupito di chi gli stringeva la mano per la prima volta,
ci metteva sempre qualche secondo per capirne il motivo. Ma forse è così per
tutti quanti, si disse. Il tuo nome diventa parte di te, e per quanto curioso
sia si ha sempre la sensazione che soltanto quello, fra miliardi, avrebbe potuto
essere il modo in cui ti saresti chiamato…
«Sì, anche se… beh, la
letteratura non c’entra. Lo pensano sempre in molti, però. In realtà viene da
Orlando Gibbons, un compositore inglese del 1600. Sai, mia madre lo adorava».
Viggo inclinò un po’ la
testa, realmente colpito. Parlò ancora con quella sua strana intonazione, bassa
e calda.
«E’ un bellissimo nome.
Davvero… un bel nome».
Orlando attenuò di colpo il
sorriso. Non era il genere di commento che si sarebbe aspettato. E non era per
niente preparato a dover distogliere lo sguardo così, in un modo quasi
impacciato, mentre un calore del tutto nuovo gli saliva su per le guance. E poi…
lui imbarazzato per un banale complimento, fattogli da un uomo?
Si voltò verso la borsa
farfugliando un “grazie”, deciso a concentrarsi sulla ricerca della felpa.
Adesso aveva freddo sul serio. O meglio, adesso sentiva davvero il bisogno di
coprirsi. Con qualcosa, qualsiasi cosa. Un piccolo scudo contro gli occhi color
cielo terso di Viggo, che sentiva fissi sulla propria nuca. Era terribilmente
tentato di chiedergli qualcosa di più sul suo di nome, ma l’uomo lo anticipò.
«Anche il mio deve suonare
piuttosto strano, per un inglese».
Orlando udì un fruscio. Viggo
si doveva essere riappoggiato contro il muro.
«Beh… sì, un po’ sì. E’…
particolare».
«Il fatto è che sono danese.
Per metà. Mia madre invece è americana».
«Ah».
Purtroppo, la felpa spuntò
fuori molto presto. Il ragazzo fu costretto a rigirarsi.
«Adoro questa parte
dell’Europa», riprese l’altro. «Paesi come la Francia, la Spagna, l’Italia…
hanno un passato così ricco di storia. C’è talmente tanto da vedere. Qui si
respira un’aria nostalgica e decadente, che negli Stati Uniti non esiste. La
pioggia non è così bella, a New York».
All’ultima frase dell’uomo,
Orlando non poté fare a meno di risollevare la testa. Lo vide chiudere gli
occhi, e fare un profondo respiro mentre allungava una gamba sul pavimento
grigio della stazione. L’altra invece la piegò, facendo increspare la stoffa dei
jeans tra la coscia e il polpaccio. Sopra il ginocchio, la bella mano dalle dita
magre era abbandonata mollemente. Aveva però spalle larghe, solide. Ed un
profilo che, inspiegabilmente, era impossibile non restare ad osservare.
«Anche in Inghilterra la
pioggia è bella. Molti inglesi dicono di odiarla, ma io la amo».
Trascorse un attimo prima che
il ragazzo riconoscesse la propria voce.
«Questa le assomiglia molto.
O forse sono io che voglio che le somigli».
Viggo mosse lo sguardo dai
vetri, posandolo nuovamente sugli occhi liquidi di Orlando. Erano i suoi quelli
persi, adesso, nel cielo nuvoloso di Parigi.
«Stai tornando a casa?», gli
domandò, con un mezzo sorriso.
Il giovane raccolse le
ginocchia al petto. Sollevò un angolo della bocca, andando all’indietro fino a
risentire l’intonaco freddo contro le scapole.
«Sì… cioè, no. Sono di
Canterbury, ma vivo da due anni a Londra. E per me quella è casa».
«Capisco. Allora c’è qualcosa
di importante per te, laggiù». L’uomo tacque un attimo. «Una… ragazza?».
Orlando gli gettò una piccola
occhiata, e rise con lui.
«No… no. Anche se di ragazze
interessanti ce ne sono. Ce ne sono sempre tante, in effetti. Spesso troppe.
Spesso… beh, confondono».
Le vetrate richiamarono
un’altra volta la sua attenzione. Erano un po’ sporche, opache, a tratti coperte
di segni dovute al maltempo di anni. Ma anche per questo gli piacevano. Avevano
osservato il cielo di Parigi per tanto tempo, e l’avrebbero fatto in futuro. Sia
col sole, che con la pioggia, che con la neve. Sarebbero rimaste lì. E ogni
nuovo graffio sarebbe diventato un altro ricordo, un altro istante fuggente
catturato. In qualche modo.
«Un sogno». Continuava ad
ascoltare la propria voce vibrare nell’aria, senza capire esattamente perché
stesse dicendo certe cose ad un perfetto sconosciuto. Perché si stesse
confidando con quello strambo americano di origine nordica, che pareva più che
altro un romantico esploratore d’altri tempi piombato sulla terra nel secolo
sbagliato. «E’ un sogno, che mi aspetta a Londra. Lo inseguo da tanto. E domani…
beh, potrei farcela. A raggiungerlo. Un primo passo. Sì, potrei fare il primo
passo, domani».
Forse ne aveva bisogno, di
confidarsi con qualcuno. Forse ne aveva un disperato bisogno. Tutto era
lì, annidato in fondo al suo stomaco, e glielo serrava, glielo contorceva. Un
coltello nella pancia, di sicuro, sarebbe stato molto meno fastidioso.
«E’ da due anni che studio
per diventare attore. Al National Youth Theatre di Londra. Soltanto… solo cinque
ore fa ho saputo di aver vinto una borsa di studio per la British American Drama
Academy. E adesso… ». Rise, o almeno tentò di farlo. Per sdrammatizzare, perché
odiava sentirsi perso e perché solo in quel momento l’aveva capito. Il suono che
uscì dalla sua gola, però, risultò ben poco convincente. « … e adesso sono qui,
in questa stazione, dopo aver lasciato gli amici con cui ero in vacanza per…
precipitarmi a prendere un treno che non sapevo di dover prendere, e… e ora c’è
da aspettare un’intera notte, e io non so cosa pensare, come prepararmi, ci sarà
sicuramente un esame di recitazione preliminare e credo di aver… dimenticato
improvvisamente mesi di teatro, e sai, tutto finalmente è a portata di mano dopo
tanto tempo, io sono il più felice del mondo, ma finora era stato solo un gioco,
era più facile, quasi non ci speravo più, e questa attesa è così… così strana,
e… ».
Incontrò lo sguardo
rasserenante di Viggo, o più probabilmente lo cercò. Riprese fiato.
«… e credo anche… di avere
paura. Una fottuta… paura».
Restarono il silenzio. L’uomo
non stava sorridendo, ma la sua bocca era piegata in un modo indefinito.
Enigmatico, magari, sarebbe stato il termine perfetto. Ad Orlando però non dava
fastidio, anzi. Niente di quell’uomo sembrava capace di infastidirlo. Anche se a
volte quel senso di disagio tornava, come in quell’esatto istante, con i loro
occhi fermi alla stessa altezza. Gli uni negli altri.
«E di cos’è, che hai paura?».
Sopra di loro, voci
metalliche e confuse iniziarono ad annunciare in francese delle comunicazioni ai
viaggiatori. Ormai nella stazione non c’era più molto movimento, e il tempo
sembrava stare rallentando, i suoni farsi attutiti, lontani, poco importanti.
Anche il ticchettio regolare della pioggia contro le vetrate era diventato un
semplice brusio di fondo, leggerissimo.
Orlando si morse l’interno
del labbro, poi l’inumidì con la lingua.
«Di sbagliare tutto. Di
buttare via degli anni, e di… stancarmi, di mollare. Al primo ostacolo. Di non
esser all’altezza. O al contrario, di diventare come tanti altri attori. Fino a
non riconoscermi più. Si, credo sia questo. Tutte queste cose».
Gli annunci terminarono e
nell’aria, per una manciata di secondi, aleggiò quella specie di eco che precede
il ritorno del silenzio. Sembrò il rumore più forte fra tutti quelli intorno a
loro, sempre meno nitidi.
«Uhm». Viggo abbassò lo
sguardo, distogliendolo da quello di Orlando. Fece aderire la schiena al
borsone, e alzando un braccio si passò le dita tra i lisci capelli castani. Li
portava un po’ lunghi, scompigliati. Quando posò nuovamente il braccio sulla
coscia, il viso era rivolto verso l’alto, ed i suoi pensieri fermi tra i vetri,
circondati dai rivoli di pioggia che continuavano a scorrervi sopra,
trasparenti, veloci e, dietro, la sera nera. «Sotto l’acqua del sogno che
zampilla, l’anima ha paura, l’anima ha paura. E la notte mi splende nel cuore,
tuffata nelle fonti del suo sogno*».
Recitò quella strofa piano,
con attenzione, come se stesse leggendo parole ricamate nell’aria. Il ragazzo
schiuse la bocca, e dopo aver incrociato le gambe si sporse verso l’americano.
Lo fissò, senza parole. Lui, allora, distese finalmente la linea delle labbra,
rimasta spezzata e ambigua fino a quel momento.
«Maeterlinck. Uno stralcio di
una sua poesia. Me l’hai fatta venire in mente», mormorò. La sua voce parlava
con gentilezza morbida, discreta, in piacevole contrasto coi toni freddi ed
impersonali della stazione, col metallo arrugginito delle strutture che
reggevano le vetrate, con le correnti d’aria che ogni tanto li sfioravano. «I
suoi versi nascevano spesso dall’immagine di un fiume. Un canale, forse, davanti
al quale lui si sedeva, e aspettava. E quell’attesa era sempre trasfigurata in
altre forme. Ampiezza d’orizzonte, stagnante calma, nervosismo segreto, sgomento
di fronte all’universo. Timore, ma anche sogno, e sete di esplorare».
Si appoggiò con la testa alla
parete, e muovendola di poco tornò ad incontrare il viso di Orlando, pallido
sotto le luci artificiali.
«A differenza di lui, tu stai
invece seduto in una stazione, e aspetti che sul tabellone delle partenze
compaia il tuo treno. Non sai esattamente dove ti porterà, temi e ami la
prospettiva del viaggio. Ti attira, ma una parte di te vorrebbe che questa
attesa non finisse mai. Questa notte, e la pioggia che scende. Una dimensione
quasi fuori dal tempo. Sembra fatta per proteggere i sogni, non è vero?».
A quell’ultimo tono
interrogativo, il ragazzo si scosse. Aveva quasi cominciato a credere - a
sperare - che Viggo non avrebbe mai smesso di parlare. Di poesia, di quel fiume,
di lui seduto lì per terra a contemplare desideri. Il suono della sua voce gli
piaceva. E quello che diceva non era scontato. No, decisamente non lo era.
«Già. Ma se non li vivo non
saprò mai come davvero andranno a finire, immagino», rispose. Subito dopo,
socchiuse le palpebre. D’un tratto si sentiva intorpidito, assonnato. Forse si
era fatto molto tardi. Per controllare l’ora avrebbe potuto dare una semplice
scorsa all’orologio della stazione, fisso sul tabellone delle partenze sopra di
loro, ma non volle farlo. Non si chiese perché.
Viggo scostò appena gli occhi
dal ragazzo, posandoli sulla vernice scrostata alle sue spalle.
«Sai… », disse. «Ho un amico…
che fa l’attore. Lo fa da tanto tempo. Non è conosciuto, ma è l’ultima cosa che
gli interessa. Nonostante la lunga gavetta, e le paghe basse, non si è mai
stancato. Dice che gli basta avere l’occasione di esprimere qualcosa in cui
crede, non importa se attraverso gli occhi e le idee di qualcun altro. E’ sempre
una conquista, una lezione».
Orlando raddrizzò la schiena.
Nonostante il sonno, era deciso a non perdere nemmeno una parola dell’uomo. Si
strinse nelle braccia, infreddolito, e notò che Viggo stava ancora sorridendo.
«Non recita soltanto. Adora
cambiare, per vedere le cose attraverso prospettive diverse. Mi dice sempre che
chi si stanca di guardare, smette di amare. E credimi, se lui adesso fosse qui,
penso che ti direbbe di non preoccuparti per il tuo futuro. Sia che tu debba
impiegare anni per conquistare una parte importante, o che diventi di colpo
famoso».
L’inglese, dopo un attimo di
sorpresa, ridacchiò.
«Il tuo amico deve aver
conosciuto parecchi giovani aspiranti attori. Ma io non credo proprio che… ».
«Non è questo». Il fotografo accompagnò quelle
parole con un movimento dolce della testa.
«Te l'ho detto, tu sembri
quel poeta. Temi ciò che ancora non puoi vedere, quello che sta al di là il
fiume, ma allo stesso tempo ti affascina. E ti spinge alla ricerca. Lo so,
praticamente non so nulla di te... ma di una cosa sono certo. Non importa quanti
saranno i tuoi dubbi, perchè nei tuoi occhi c'è voglia di guardare. Chi ti
conosce, certamente già lo sa. Non passerà molto prima che te ne renda conto tu
stesso, e chiunque incontrerai».
Viggo concluse la frase
con un altro sorriso, ed una lunga occhiata. Il ragazzo riuscì a ricambiare
solamente il primo, accennandolo appena con le labbra sottili. Questa volta,
però, l'imbarazzo non c'entrava. Semplicemente, adesso, per Orlando la figura
dell'americano era diventata un'immagine dai contorni confusi, offuscati, e
sempre più buia. Con fatica lo vide voltarsi verso le custodie di pelle,
dandogli le spalle.
Aprì la bocca,
schiudendola di poco.
«Grazie… ».
Lo stato di torpore in cui
era caduto gli rendeva impossibile, ormai, continuare a tenere gli occhi aperti.
Sentiva il sonno sempre più vicino, e sempre più invitante. Ma non avrebbe
voluto addormentarsi…
«… di’ al tuo amico che
spero… di poterlo conoscere… ».
Avrebbe voluto continuare
a parlare con Viggo, per ascoltare la sua voce ancora per un po'… e poi…
«… magari… sullo stesso
set… ».
… poi capire perchè,
improvvisamente, avesse avuto la netta sensazione di averlo già visto, prima di
quella sera…
«… un giorno… ».
… forse domani avrebbe
potuto chiederglielo, forse…
L'uomo finì di sistemare il nuovo rullino. Chiuse con attenzione lo sportello
posto sul retro della grossa Nikon nera che teneva tra le mani, e dopo aver
controllato l'obbiettivo si girò nuovamente verso il ragazzo.
«Penso che sarebbe davvero
felice di… ».
Si bloccò. Accanto a lui,
Orlando dormiva. Accoccolato tra le borse, aveva la testa reclinata da un lato,
le braccia incrociate sul petto. Una gamba era piegata sotto quella destra,
raccolta invece contro lo stomaco. In quella posizione sembrava quasi un
bambino, caduto in uno stato di sonno profondo nel giro di pochi secondi.
Viggo sollevò gli angoli
della bocca, divertito ed intenerito al tempo stesso.
«… conoscerti. Ma, in un
certo senso, è come se l'avesse già fatto… ».
Rimase un istante fermo a
guardarlo dormire, in pensieroso silenzio. Alla fine scosse piano la testa,
quindi accostò la macchina fotografica al proprio volto. Si premurò di togliere
il flash per non disturbare il dormiente, e scattò.
L'apparecchio emise un
breve ronzio. L'uomo lo riabbassò sulle ginocchia, ma senza mai staccare gli
occhi azzurri dall'espressione serena di Orlando. Li socchiuse, con dolcezza.
«Non preoccuparti,
young dreamer», sussurrò. «Sono sicuro che ci rivedremo, prima o poi».
Autunno 1999,
Wellington
«Quindi è già arrivato?».
«A quanto pare sì. Elijah
mi ha detto che l’ha visto parlare con PJ».
«Mh, son proprio curioso
di conoscerlo… oddio, spero sia più simpatico di Stuart».
«Billy, non credo ci
voglia molto per essere più simpatici di Stuart».
«In effetti…».
«Di che si parla,
hobbit?».
A quella domanda i tre
ragazzi si girarono all’unisono, posando momentaneamente sul tavolo della mensa
forchette, tovaglioli e bicchieri. Un giovane alto, vestito con una bella
casacca dai colori del sottobosco, stava avanzando velocemente verso di loro.
Aveva lunghi capelli biondi, raccolti in una bandana verde, e curiose orecchie a
punta. Quando giunse accanto alle panche, fece loro un grande sorriso. Quello
dei tre più in carne, dai folti capelli castano chiaro, sollevò allora una mano
in segno di saluto.
«Ehilà, Orli. Ti unisci a
noi?».
«Grazie, Sean, ma ho già
mangiato prima. E tra un po’ devo tornare dai truccatori. Voi? Scommetto che
state ancora prendendo in giro il povero Townsend, eh Dom?».
Il giovane seduto sul lato
esterno del tavolo fissò il nuovo arrivato con espressione seria, fintamente
offeso.
«Noooii? Ma quando mai!».
«No, no… cioè, più o
meno», continuò uno degli amici, alzando le spalle. Prese a grattarsi con
impegno il mento appuntito. «E’ che finalmente è arrivato quello nuovo. Sai, il
nuovo Aragorn. Ci stavamo chiedendo che tipo possa essere. Tu l’hai già visto,
per caso? Ho sentito dire da Philippa che l’avrebbero messo con te e Beanie… ».
Orlando Bloom sollevò le
sopracciglia, sorpreso.
«Sul serio? Non mi hanno
detto niente. Comunque è da stamattina che non torno al trailer… ».
«Uhm, magari si è già
trasferito là con tutte le valigie». Dominic Monaghan si portò alla bocca
l’ultimo pezzo di bistecca rimastogli nel piatto, poi puntò la forchetta contro
lo stomaco del ragazzo. «Se fossi in te, mio caro elfo, correrei a controllare
che non si prenda troppo spazio o che sposti qualcosa. Ha un nome assurdo,
questo tipo… non riesco proprio a ricordarmelo. Ma ho letto che ha fatto un
sacco di film. E sai le pretese che hanno certe star… un po’ come il vecchio
Christopher!».
Gli altri risero. Orlando
fece solo una breve, debole risata.
«Esagerato. Vedrai, sarà
soltanto molto più serio di noi… », commentò, guardando i tre. Gettò un’occhiata
all’uscita della mensa. «Ma vado lo stesso a vedere. Meglio conoscersi prima
fuori dal set che in scena. E almeno così preparo Beanie».
*
Il ragazzo avanzò nella
roulotte. All’apparenza, il trailer sembrava esattamente come sempre, ed era
deserto. Passò accanto al letto di Sean Bean, praticamente immacolato, poi
arrivò al proprio, ancora sfatto da quella mattina.
«Forse dovrei mettere un
po’ in ordine», si disse. Affondò le mani tra le coperte, recuperando calze e
camicie rimaste imprigionate sotto il groviglio di lenzuola. «Giusto per non
fare troppo una cattiva impressione con il neocollega… ».
Raccolse da terra una
ventina di cd, mettendoli uno sopra l’altro in una precaria pila. Scorse un paio
di jeans abbandonati oltre l’angolo formato dalla parete del bagno, ma
voltandosi per tornare indietro si trovò costretto a fermarsi. Sotto la finestra
era infatti comparsa una branda, ed un nuovo materasso. Ai piedi del letto,
un’infinità di borse. Sul tavolino poco distante, quaderni e libri. Oggetti
rettangolari che sembravano tele. Portapennelli, due cofanetti in legno.
Macchine fotografiche, chiuse in belle custodie di pelle scura.
Orlando percorse con lo
sguardo quella lunga sequenza di oggetti, attratto senza sapere come da ogni
loro, singolo dettaglio. E alla fine, con lentezza, alzò la testa.
Tutt’intorno allo specchio
che troneggiava un paio di metri più avanti, spesso utilizzato sia da lui che da
Sean per le prime fasi di trucco, decine e decine di foto erano state attaccate
con meticolosa cura. Il giovane si avvicinò per osservarle meglio, incuriosito.
Certe rappresentavano
semplici paesaggi, altre dettagli che non riusciva a decifrare, altre ancora
persone, ma immortalate dalle angolazioni più strane. Anche se non le capiva
completamente, così come alcune particolari scelte di luci, contrasti, colori,
gli sembrarono tutte ugualmente bellissime.
Fece quindi per tornare
verso l’ingresso, deciso ad andare a cercare il nuovo, eccentrico ospite del
trailer direttamente sui set, ma all’ultimo momento la sua attenzione fu
catturata da una foto relegata in alto, sul lato destro dello specchio. Si
accostò al muro, prendendo a fissarla con addosso una sensazione strana, di
inspiegabile familiarità. Poi, d’un tratto, un brivido gli percorse la schiena.
Si allontanò di colpo dalla parete.
L’immagine era in bianco e
nero, e al centro c’era un ragazzo. Dormiva, raggomitolato su se stesso colme un
gatto. Era circondato da alcune borse, lo scenario sembrava quello di una
stazione, ma a parte questo non c’era nient’altro di rilevante. Una striscia
bianca di forse un centimetro circondava la foto, a mo’ di cornice. E nello
spazio in basso si notava una piccola scritta, tracciata in penna nera:
Dreaming Tomorrow.
Orlando si portò una mano
alla bocca. La aprì, ma dalla sua gola non uscì alcun suono. Un rumore, invece,
venne dalle sue spalle.
«Peter mi ha mostrato
tutte le vostre foto, e un po’ di girato… ».
Il giovane accompagnò con
le dita un ciuffo di capelli biondi dietro l’orecchio, deglutendo. Una voce
calda, rasserenante, dalla strana sfumatura roca…
«Sai, ho capito subito che
eri tu».
Silenzio. Per un solo,
lunghissimo secondo.
«Quegli occhi. No, non
potevo sbagliarmi… ».
L’attore inglese si voltò,
piano. A pochi passi dallo specchio, il nuovo collega lo stava osservando. I
capelli lunghi, appena mossi, erano di un lucido castano scuro. Una leggera
barba incolta gli copriva metà del viso, confondendosi coi baffi radi. Addosso
aveva il costume completo di Grampasso, e ad Orlando bastò quell’unica occhiata
per capire che Aragorn avrebbe potuto essere soltanto lui e che PJ, questa
volta, aveva fatto un centro impeccabile.
Gli bastò uno sguardo, per
capirlo. E solo poche parole per rendersi conto che da quella sera, a Parigi,
niente era cambiato. O forse tutto. O forse, entrambe le cose.
«Alla fine, allora, quel
fiume l’hai attraversato».
Viggo Mortensen inclinò la
testa, appoggiandola al muro insieme al braccio sollevato. Sorrise, e anche
quell’esatta immagine sembrò provenire direttamente da una strana, lunga notte
di pioggia, fredda ma infinitamente più confortante di qualsiasi giornata
estiva. Il giovane vestito da elfo, invece, strinse un labbro tra i denti, senza
riuscire a non allungare a sua volta la linea della bocca. Mando giù un piccolo
nodo alla gola, inaspettato.
«Già», disse, e gli occhi
risero con lui. «L’ho attraversato».
- the end –
(e poi, beh, il resto è
storia… ;P)
[* dalla poesia
“Riflessi”, dalla raccolta “Serres Chaudes”, di Maurice Maeterlinck]
Piccola nota finale: non
ho avuto la possibilità di inserirla nella storia, ma se potete ascoltatevi la
meravigliosa “Holes” dei Mercury Rev durante un’eventuale rilettura. E' a a dir
poco perfetta per l’atmosfera, gli ambienti e i temi della fic. Mentre scrivevo
l’ho ascoltata fino allo sfinimento, e adesso la associo così tanto a questo
primo, ideale incontro fra Viggo & Orlando che sempre, quando la risento, mi
viene un magone assurdo… (ma credo che la reale, principale causa di tutto ciò
sia in realtà il mio fragile equilibrio emotivo dell’ultimo periodo, lol :P).
Comunque, qui sotto ecco riportate le lyrics di questo piccolo grande
capolavoro, a mio parere unico nel suo onirico, incredibile genere… (parole non
totalmente comprensibili ;P ma la musica è in primo piano, per me)
HOLES
by Mercury Rev
(from
Deserter’s Songs, 1998)
Time, all the
long red lines, that take
Control, of all th smoke like streams that flow into yr
Dreams, that big blue open sea, that can't be
Crossed, that can't be climbed, just born
Between, oh th' two white lines, distant gods an' faded
Signs, of all those blinking lites, you had t' pick the one tonite…
Holes, dug by little moles, angry jealous
Spies, got telephones for eyes, come t' you as
Friends, all those endless ends, that can't be
Tied, oh they make me laugh, an' always make me
Cry, til they drop like flies, an' sink like polished
Stones, of all th' stones i throw, how does that ol' song go
how does that ol' song go…
Bands, those funny little plans, that never work quite right… |