Sai,
penso sia scorso un anno dalla nostra ultima serata e penso che questo
– questo
periodo così lungo inserito fra noi – rappresenti
un record di cui doverci
necessariamente gloriare. Penso. Mononeurone pensa. Ma tu, del resto,
sai che
Mononeurone pensa troppo.
Ho
parlato di te. Di nuovo. Pare che la mia bocca non sappia articolare
altri
suoni, se non quelli che compongono il tuo nome. Strano, non trovi? Le
labbra
si muovono, raccontano in che modo il tempo ci abbia ravvicinato e
distanziato
a suo piacimento, manovrandoci come inutili fantocci. Ho parlato di te;
le mie
labbra si muovevano celermente, hanno raccontato in che modo il mio
comportamento abbia influito sul nostro rapporto umano: avrei cambiato
regione
e abbandonato senza rimpianti quanto di buono ero riuscita a concretare
– così
ti avevo detto, giusto per mettere le cose in chiaro –.
Giusto per mettere le
cose in chiaro ancora una volta. Poi tu hai cercato conferme, io ho
convalidato
il mio addio e tu non hai replicato: ti sei limitato a guardarmi
diritto negli
occhi. A causa del freddo, i miei muscoli vibravano quasi intendessero
liberarsi dai tendini che anche allora li assicuravano alle ossa, e
nelle mie
orecchie echeggiava il tuo “davvero?”. Ho taciuto.
Ho taciuto poiché posso fare
innumerevoli cose, ma non sostenere il tuo sguardo e mentire allo
stesso tempo.
Mi
hanno interrogato; il dubbio che serpeggiava nella mente dei miei
interlocutori
era: “Lui sa che non sei partita?”. “No.
Come potrebbe?” ho risposto. E, in
effetti, tu non hai modo di sapermi talmente vicina che basterebbe
stendere un
braccio per avvertire il calore della mia presenza fisica.
Ho
parlato di te, narrato i passaggi che ci hanno consentito di ottenere
questo
intruglio di vissuto: piegata, le mani poggiate sulle ginocchia, ho
vomitato un
discorso mediamente fluente. Ne sentivo il bisogno: avevo raccontato
una serie
di menzogne tale da portare il mio spirito a saturazione. “Tu
sei pazza! Come
puoi desiderare che lui abbia un’altra?”. Le parole
sono morbidi sterpi che
conficcano le loro spine nelle mie carni. Ho sorriso. I miei
interlocutori non
comprendono pienamente, si fanno guidare dalla luce di un faro che, da
lontano,
offusca loro la vista e preclude l’opportunità di
seguire altre strade. Ho
sorriso poiché tu ed io, invece, abbiamo scelto tra
alternative.
“Non
una ragazza qualsiasi”, ho puntualizzato. “Una
ragazza migliore di me”. (Le
parole sono sterpi che incidono solchi sulla mia pelle troppo morbida.)
E
mi chiedi: “Perché non scordi queste sciocche
convinzioni e non tenti di
rintracciarmi?”.
Perché
meriti una ragazza migliore di me: una ragazza che non abbia timore di
riconoscere il tuo viso tra la folla; una ragazza che sia coerente e
sappia
dimostrarti la tangibilità del suo affetto.
Perché
non amo le relazioni stabili; perché in una relazione
stabile smarrisco la mia
individualità e divento parte di una coppia;
perché, quando divento parte di
una coppia, tutti mi si rivolgono utilizzando il plurale
(“Che dici, stasera sarete
liberi?”). Per la mia caparbietà
e leggerezza. Perché ti saresti dedicato con impegno a farci
funzionare ed io,
al contrario, avrei dato un trentesimo del mio impegno per farci
funzionare.
Perché il mio impegno non avrebbe mai eguagliato il tuo. Per
il mio encefalo,
Mononeurone, che non sviluppa attività cerebrale dal lontano
1991. Perché non
rifletto abbastanza prima di schiudere le labbra. Perché il
mio “non scegliere”
ti ha fatto sciupare mesi e stagioni.
Perché
quella sera ti ho detto che, per me, tu sei come chiunque altro.
Fondamentalmente,
per il tuo stesso bene.
Respiro la
nebbia,
penso a te
Premiata
Forneria Marconi – Impressioni Di Settembre
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