Titolo:
Valeva la
pena tentare
Fandom:
Inception
Personaggi:
Arthur/Arianna
Rating:
Verde
Conteggio
parole: 2118
Disclaimer:
I personaggi e i luoghi di questa storia appartengono a Christopher
Nolan.
Note
dell'autrice:
Questa
è definitivamente la prima fan fiction che scrivo su
Inception –
sono diventata un'incontrollabile maniaca della coppia Arthur/Arianna
non appena li ho visti insieme nella stessa scena – quindi
vogliate
perdonarmi se non sono riuscita a rendere i personaggi IC come avrei
dovuto. Migliorerò nelle prossime – sì,
sto diventando così
maniaca che sicuramente
ne
scriverò altre. Molte altre. Davvero molte, molte altre.
(Nel
caso in cui qualcuno non lo sappia, Halifax e Los Angeles sono
rispettivamente ed effettivamente i luoghi di nascita di Ellen Page e
Joseph Gordon-Levitt – aka Arianna e Arthur).
La citazione qui sotto è ovviamente
presa dal film.
:)
***
“«Presto,
dammi un bacio».
[Arianna
lo bacia]
«Ci
stanno ancora guardando».
«Valeva
la pena tentare».”
Arianna
non si era
sentita tanto disorientata nemmeno quando aveva messo piede per la
prima volta a Parigi. E dire che era sempre stata convinta che
sarebbe stato per sempre il periodo più allucinante della
sua intera
vita.
Senz'altra
esperienza
in materia di vita che quella fatta nella piccola cittadina di
Rishwoth, a quaranta chilometri da Halifax, Arianna si era sentita
catapultare in un mondo in cui non c'era abbastanza spazio per una
come lei. Se solo non avesse avuto la ferrea convinzione che a casa
sarebbe stata ancora più stretta, la frenesia parigina
l'avrebbe
probabilmente divorata.
Seduta
ad un tavolino
promozionale della Coca-Cola in uno dei bar dell'aeroporto di Los
Angeles, Arianna avvertiva lo stesso stato confusionale di quei suoi
primi giorni di soggiorno a Parigi. Aveva acquistato un gigantesco
bicchiere di caffè, ma erano bastati pochi sorsi a
nausearla.
Tutto
ciò che la
circondava, in realtà, sembrava nausearla; di certo le
sarebbe
presto scoppiata una terribile emicrania.
Si
passò una mano fra
i lunghi capelli mori e appoggiò i gomiti al tavolino,
sorreggendosi
la testa fra le mani. Per quanto si stesse sforzando con tutta se
stessa, e ben più di quanto non avesse mai fatto, non
riusciva a
tranquillizzarsi. Il suo cervello continuava febbrilmente a mescolare
sogno e realtà in un contorto labirinto di idee senza capo
né fine.
"Come
la scala di
Penrose: la scala infinita".
La
scala di Penrose.
Era stato Arthur a mostrargliela per la prima volta nella sua
paradossale concretezza – o nella sua inesistente
realtà, magari.
L'incredibile
esperienza che aveva appena vissuto (e che non era nemmeno certa di
avere vissuto) si era insinuata nella sua mente come un insistente e
maledetto parassita.
"Qual'è
il parassita più resistente?".
Le
mani sudate le
tremavano. Arianna chiuse gli occhi e inspirò nervosamente
più
volte.
"Un'idea".
«E
se stessi ancora
sognando?» soffiò appena a se stessa.
Estrasse
con
incontrollabile agitazione l'alfiere dorato che aveva personalmente
costruito e lo serrò saldamente nel pugno sinistro. Se lo
rigirò
fra le dita, ne controllò il peso e le dimensioni e se lo
appoggiò
alle labbra con sacralità.
«Arianna?».
Spaventata,
Arianna
sobbalzò ed emise un grido a mezza voce. Strinse l'alfiere
all'altezza del petto e sollevò gli occhi verso Arthur,
immobile
davanti a lei. Aveva un'espressione indecifrabile sul viso, ma
sembrava esaminarla con lieve preoccupazione. Arianna chinò
istintivamente il capo.
«Posso
sedermi?».
Lei
annuì fugacemente.
Con elegante delicatezza, Arthur appoggiò il proprio
bagaglio a mano
sulla sedia vuota alla sua sinistra, prima di prendere posto in
quella di fronte a lei. Intrecciò fra loro le lunghe dita e
le
rivolse uno sguardo pesantemente serio.
«Non
stiamo sognando»
dichiarò con implacabile schiettezza. «Lo sai,
vero?».
«Sì»
mormorò
Arianna, aprendo il palmo e mostrandogli il pezzo degli scacchi.
Arthur
assentì con
estrema professionalità.
«Molto
bene».
Rimasero
in silenzio
qualche istante. Arianna sentiva il peso dello sguardo di Arthur su
di sé, ma non trovava la forza di alzare gli occhi verso di
lui.
Si
sentiva dilaniata da
una valanga di tumultuose emozioni contrastanti delle quali sarebbe
difficilmente riuscita a parlare. Si sentiva sicura, con il proprio
totem ferocemente stretto nella mano, eppure tutto ciò che
la
circondava, tutte le sue certezze e i suoi punti fermi erano
improvvisamente diventati imprecisi e distanti, come se fossero stati
d'un tratto avvolti da una fumosa colte di nebbia. Ed era altrettanto
tranquilla sapendolo lì, vicino a lei, ma il suo nervosismo
si era
triplicato, da quando lui si era seduto. Non credeva nemmeno che
tutto quello si potesse provare contemporaneamente.
«Sto
impazzendo?» gli
domandò d'impulso. «Sto impazzendo, Arthur, non
è così? È questo
che succede quando ti risvegli e inizi a...».
Per
quanto stesse
tentando, non riusciva a trovare la parola giusta. Mosse vagamente
una mano a mezz'aria.
«...pensarci?»
completò lui.
Arianna
annuì di
nuovo, stupendosi di come sembrasse molto più semplice, ora
che
Arthur l'aveva pronunciata.
«Sì»
le rispose dopo
qualche secondo di riflessione. «Sì, sembra
davvero di impazzire.
Ci si sente incapaci di valutare la realtà con gli stessi
parametri
di prima, come se questi avessero perso efficacia una volta
risvegliati dal sogno o come se il sogno stesso, inverosimilmente, si
fosse portato con sé parte della nostra realtà.
Ciò che confonde è
soltanto l'apparente scambio fra la tangibile natura di ciò
che
sappiamo essere reale e fra la persistente
consapevolezza di
ciò che crediamo essere reale. Una
sorta di embrionale
sindrome di Capgras, se preferisci vederla in questo modo».
Lentamente
e stringendo
ancora di più l'alfiere, Arianna sollevò il capo
verso di lui e si
lasciò andare ad un fiacco sorriso.
«Non
ne sei capace,
vero?».
«Di
fare cosa?».
Arianna
inclinò
divertita il capo.
«Di
trasformare le
emozioni umane in qualcosa di diverso da una definizione da
enciclopedia».
Arthur
parve
sorprendersi per quella risposta inaspettata e rimase immobile.
Appoggiò pigramente il mento alla mano destra e si
coprì le labbra
con le dita in maniera casuale. Arianna, tuttavia, riuscì a
scorgervi una smorfia dignitosa.
«Non
puoi spiegare
ogni risultato con un'emozione».
«Non
saprei, Arthur»
ribatté beffardamente lei, avvicinando a sé la
tazza di caffè. «Ma
di certo non puoi spiegare tutte le emozioni con un
risultato».
Arthur
la scrutò
pensieroso per un attimo, poi abbassò lievemente la testa e
scoppiò
in una fragorosa risata.
Arianna
rimase a
fissarlo completamente stupefatta. Nelle ultime settimane in cui
avevano lavorato insieme al progetto dell'innesto a Fisher Jr. non lo
aveva mai sentito ridere. Sapeva perfettamente che lui ne era in
grado – tutti ridono, dopotutto – ma si era
convinta che si
contenesse per chissà quale qualche inspiegabile abitudine.
Mentre
ascoltava il suono della sua risata, Arianna si ritrovò a
pensare a
quanto ora sembrasse un adolescente spensierato. La sua incurvabile
espressione di efficiente serietà era svanita; non gli era
mai
sembrato tanto vulnerabile. Si domandò se non fosse proprio
questo,
in realtà, il motivo per il quale si frenava così
rigidamente. Non
se ne sarebbe affatto stupita. Arthur odiava non avere tutto sotto
controllo: era questo che faceva di lui uno dei migliori Manovratori
in circolazione.
«Non
ne sei capace,
vero?» s'interruppe improvvisamente lui, scrutandola con una
luce di
estremo divertimento negli occhi scuri.
«Di
fare cosa?».
«Di
terminare una
conversazione senza impossessarti necessariamente dell'ultima
parola».
Lei
scosse il capo,
ridacchiando.
«Credo
di no».
Arthur
si appoggiò
compostamente allo scomodo schienale di plastica e posò le
mani in
grembo. Il suo sguardo era nuovamente impenetrabile, ma Arianna ebbe
l'impressione che lui stesse scegliendo con accuratezza le parole da
dirle.
«Puoi
garantirmi di
non credere che tutto questo sia un sogno?» le
domandò con
improvvisa schiettezza. «Devo saperlo, Arianna. Devo essere
sicuro
che sia realmente andato tutto bene. Sai di essere
sveglia?».
«Questo
non è un
sogno, Arthur» recitò con convinzione.
«Direi che puoi smetterla
di farti venire l'emicrania cercando di pianificare e manipolare
tutto quello che ti circonda».
«Io
non manipolo»
si lamentò con veemenza Arthur, alzando gli occhi al cielo.
«Io
manovro».
«Non
vedo alcuna
differenza».
«Non
vedi--?» ripeté
indignato. «Arianna, mi pare che la differenza sia
più che
evidente. Il termine “manipolatore” include nel
proprio
significato qualcosa di subdolo, di viscido e di equivoco. Al
contrario, io sono il Manovratore. Predispongo i più piccoli
dettagli in modo che combacino perfettamente gli uni con gli altri.
Ciò che faccio è un'arte raffinata e sottile
– ben lontana da
qualche ridicolo sotterfugio da prestigiatore».
«È
questo il motivo
per cui tu e Eames non riuscite ad andare d'accordo? Perché
entrambi
credete di essere migliori dell'altro?».
«Al
contrario, è
proprio il motivo per il quale riusciamo a sopportarci».
Quella
frase le fece
tornare in mente un quesito che si era posta più volte,
nelle
settimane precedenti.
«Come
avete fatto a
conoscervi? Tu e Eames, intendo».
Arthur
fece una strana
smorfia e si grattò distrattamente la tempia sinistra,
scrutandola
in tralice.
«È
una storia
piuttosto lunga, Arianna».
«Beh,
spero che tu non
abbia nessun volo da prendere, allora» affermò lei
con un sorriso
lievemente intimidatorio. «Non ti alzerai da questo orribile
tavolino prima di avermelo detto».
«L'ho
conosciuto
mentre studiavo Scienze Fisiche a Cambridge»
sospirò lui.
«Cambridge?»
ripeté
allibita Arianna. «Tu hai studiato a Cambridge? Mi avevi
detto di
essere cresciuto qui, a Los Angeles».
Arthur
le rivolse un
placido sorriso.
«Tu
non sei cresciuta
da qualche parte vicino a Halifax?».
«A
Rishwoth».
«E
perché ora studi
Architettura a Parigi?».
«Touché,
monsieur»
disse. «Continua».
«L'ho
conosciuto una
decina di anni fa. Il mio docente di Statistica, il professor Brice,
svolgeva... beh, ciò che potremmo definire due differenti
attività».
«Lavorava
con i sogni?
È questo che intendi?».
«Aveva
lavorato nei
sogni, questo è sicuro. All'epoca, tuttavia, aveva smesso da
tempo e
si limitava a insegnare».
«Non
si è limitato a
insegnarti solo le regole della statistica, vero?»
domandò Arianna
con un mezzo sorriso d'intesa.
Un
guizzo brillante
attraversò gli occhi di Arthur.
«Diceva
di non aver
mai avuto uno studente tanto ossessionato dai dettagli»
ridacchiò.
«Non avevo ancora compiuto vent'anni quando mi
presentò a Cobb. Gli
serviva un Manovratore e il professor Brice gli aveva suggerito di
fare un tentativo con me. Cobb non era molto convinto della scelta:
il lavoro del Manovratore è molto delicato e io ero davvero
troppo
giovane e inesperto».
«Cosa
avreste dovuto
fare?».
«Assicurare
ad un
potente esponente del Ministero tedesco che il suo Sottosegretario
non stava complottando nessun rovesciamento del governo».
«Ci
riusciste?».
«Sì,
ma fummo
completamente costretti ad improvvisare. Immagino ti sia già
resa
conto che nel nostro lavoro esistono solo due casi in cui si
è
costretti a improvvisare: o sopraggiunge un imprevisto o il tuo
Manovratore è stato fregato».
«Chi
ti aveva
fregato?».
«Cosa
ti fa pensare
che non fosse semplicemente un imprevisto?».
«Lo
era?».
Arthur
fece un mezzo
sogghigno sghembo.
«No.
Eames era stato
assunto dall'uomo al quale avremmo dovuto estrarre l'informazione e i
suoi maledetti giochi di prestigio mi fecero completamente
impazzire».
Lei
rise.
«Sebbene
Eames non
fosse riuscito ad evitare che Mal estraesse l'informazione dalla
mente del nostro bersaglio, le sue abilità come Falsario
impressionarono moltissimo Cobb, così finimmo per lavorare
insieme»
continuò Arthur.
«È
assurdo pensare
che tu e Eames possiate lavorare insieme per un periodo così
lungo
senza cercare di uccidervi a vicenda».
«Sì,
lo è» rispose
Arthur con uno sbuffo divertito. «Ma è stato
piuttosto utile, in
realtà. Collaborare con un bastardo così
fastidiosamente
imprevedibile è un ottimo allenamento per un
Manovratore».
Arianna
gli sorrise,
posando il capo al dorso della mano.
«Hai
sempre una
risposta per ogni cosa?».
«È
il mio mestiere».
«Ottimo.
Avevo giusto
una domanda tecnica per te, Arthur» gli disse con tono
sibillino.
«In un sogno, come posso evitare che il subconscio del mio
bersaglio
si accorga della mia presenza?».
«Non
puoi evitarlo»
chiarì lui con aria estremamente competente.
«Davvero?»
riprese
lei innocentemente. «Non si può... che ne so, distrarlo,
magari?».
«Assolutamente
no. È
probabilmente una delle prime cose che imparerai».
Una
strana espressione
furbesca si dipinse sul volto di Arianna.
«Perché
nel sogno mi
hai baciato, allora?».
Arthur
parve realmente
spiazzato. Chinò lesto la testa, tentando di nascondere un
sorriso
di vago imbarazzo.
«Ne
valeva la pena».
Lei
lo guardò
esasperata.
«Valeva
la pena
tentare, intendi?».
«No»
negò lui
fermamente, alzando nuovamente lo sguardo e rivolgendole un sorriso
malizioso. «Ne valeva semplicemente la pena, Arianna».
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