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{Questa
non è l’ora di fumare sigarette.
Gli
piaceva da schifo, il modo con cui il sole scivolava sul cielo
quando arrivava l’ora del tramonto.
Non
era, come si sarebbe potuto pensare, roba da ragazzine beneducate
che andavano in chiesa la domenica solo per dimostrare la propria
purezza.
Era
qualcosa di diverso, come mettersi a sognare di prendere a calci
sul naso quel Faccia di Merda Liberale che si era sposato con sua
madre, e riuscire a sentire davvero lo schiocco del setto che si
spaccava e il sangue che inzuppava la sua camicia da uomo per bene.
Era
come ricevere tutti quei vinili jazz da quello stronzo e donarli
immediatamente ad Alex, per non sentirsi contagiato da quella
vomitevole e nauseabonda miscela di buone intenzioni e falsi sentimenti.
Era
– Cristo – non sentire più sua madre
che, quando ricordava di parlargli e di notare che lui – tu
guarda – esisteva, si lamentava perché non
mostrava un minimo di riconoscenza per le attenzioni di Faccia di Merda
Liberale. (Si lamentava, ma in realtà si vedeva benissimo
che non le fregava nulla di come cresceva lui, purché non le
desse troppi grattacapi che la distogliessero dal suo mondo perfetto).
Come
se non lo sapesse, lui, che quello gli passava un vinile jazz per
placare i sensi di colpa che si faceva venire tutto da solo, senza che
lui, Martino, muovesse un muscolo per provocarglieli.
Non
era interessamento sincero, quello che spingeva quel perbenista a
fargli qualche dono. In modo più semplice, il tipo non
voleva avere debiti con quanto lo circondava. Semmai, voleva che il
mondo gli fosse debitore.
Forse,
nella notte, quando non pensava ai propri affari e ai nuovi modi
per esibirsi in un pianeta di maschere di vernice, si ripeteva come una
filastrocca una frase fatta a puntino: “Un dono al giorno
toglie la colpa di torno”.
Gli
veniva quasi da ridere, a Martino, quando gli capitava di sentire
qualche cavolata sdolcinata sul crepuscolo, qualcosa come il sole che
diveniva l’amore che infiammava il cielo con la sua luce pura
e inappuntabile.
Non
c’azzeccava un cazzo, con robe del genere.
Era
più furioso, il tramonto. Il problema era che nessuno lo
capiva. Erano tutti teste dure troppo impegnate a fare le pecore per
accorgersi che anche il gruppo a volte sbagliava e attraversava con il
semaforo rosso.
Probabilmente,
però, Alex sarebbe riuscito ad afferrare
quello che lui intendeva.
Era
a posto, Alex, uno dei pochi ancora in grado di pensare per conto
proprio. Dentro aveva una sorta di rabbia, di ribellione, di voglia di
estraniarsi dalla folla, cose che Martino capiva benissimo.
E
un po’ di vita e speranza in più.
Se
lo vedeva, a scrivere con l’uniposca nero in un bagno
pubblico il nome di un qualche gruppo furibondo. Se lo vedeva anche
fermo in un angolo a sognare la sua Aidi.
Quando
faceva così gli sembrava un pulcino, totalmente
incapace di stare al mondo. Gli veniva bene anche
l’espressione da desolato-sconsolato, anche se dopo un
po’, con quell’aria da vittima, iniziava ad
infastidirlo.
Per
questo voleva fargli capire al più presto quella sua
logica di vita.
Basta
tentare di omologarsi in una società che non vuole
altro che mettere i suoi membri in fila indiana e dipingerli con facce
obbedienti e pronti ad annuire. Basta perdere tempo ad impegnarsi per
un futuro che forse non arriverà mai, che probabilmente
farà terribilmente schifo.
Il
presente è qui, il presente è adesso,
buttatici dentro e falla finita.
Arraffa
tutta la felicità che puoi, non sbatterle la porta
in faccia quando arriva a bussare, accoglila a braccia aperte, non
cacciare via le risate con un colpo di tosse.
Quando
arrivava il tramonto, a Martino dava l’impressione che
il sole si fosse rotto le scatole di sorvegliare un gruppo di gente che
non faceva altro che mordersi la coda, e se ne volesse andare al
più presto.
Una
volta o l’altra, avrebbe trovato pure lui il coraggio di
balzare una volta per tutte oltre quel limite che la società
gli imponeva.
Una
sera, quando era con Valentina, l’aveva baciata mentre il
sole tramontava. E si era fermato ad ascoltare se succedeva qualcosa,
ma in realtà era stato come sempre.
Non
si era emozionato, non si era nemmeno sentito un po’
coinvolto, o interessato. Aveva solo prestato orecchio, indifferente,
per sentire se serviva qualcosa, a Valentina.
Probabilmente
no, non le serviva.
Il
tramonto, non si sarebbe mai stancato di ricordarselo, non
c’entrava un accidente con i drammi amorosi di adolescenti in
patetica crisi ormonale, che si facevano le seghe al buio e parlavano
di scopate mai successe alla luce del sole.
Ma
gli piaceva da schifo, forse anche perché suo padre non
usciva mai, dopo il tramonto.
Non
gli piaceva guidare con il buio, a lui. Non gli piaceva passeggiare
con la sera che avanzava, a lui.
Alla
sera, semplicemente, si spegneva.
Come
se una mano invisibile si abbassasse a sfiorare il pulsante che
doveva averci sulla schiena e che – clack –
stoppava quella dannata batteria che lo faceva muovere durante il
giorno come un automa.
Era
una burla, affidare qualche pensiero profondo ad un momento del
giorno. Non si poteva mai sapere quando lo avrebbe restituito.
Probabilmente mai, perché anche i minuti si erano fatti
egoisti.
Però,
diamine, era impagabile starsene davanti alla finestra
aperta mentre il sole tramontava.
Con
i capelli che si spettinavano come nei film – anche se
più che il vento lì c’entrava lo
sconvolgimento profondo in cui lo gettava la fine delle giornate di
scuola, quando si rendeva conto che, cazzo, ancora ventiquattrore e non
era successo un bel niente – e una mano sullo schienale di
una sedia, e i mozziconi di sigaretta che aveva fumato qualche quarto
prima che si afflosciavano nel portacenere.
E
poi uno sguardo di sbieco al pannello delle foto, dove tanti suoi
giorni passati gli restituivano l’occhiata, magari nascosti
nell’aria impacciata del bambino di un anno che era stato e
che cercava di finire lo yogurt mangiandosi anche il barattolo.
Dopo:
avvicinarsi allo stereo e mettere su un cd da ascoltare a pieno
volume, magari sentendo le casse vibrare per la potenza del suono, e
perdere tempo a non finire, tanto comunque nessuno sarebbe arrivato a
cercarlo. Oppure scendere e andare al locale più vicino, o a
cercare i compagni con cui fare un salto alla discoteca di turno, o
organizzare una serata etilica di quelle fatte per bene.
(Starsene
in camera, e farsi cordialmente i cazzi propri, mentre la
Signora Madre e il Messere Padre e il Signor Secondo Marito gli
ricambiavano gentilmente il favore).
Ma
di quali accidentali assurdità ciarlavano, le ragazzine
slavate che si raggruppavano durante gli intervalli?
Il
tramonto avrebbe avuto il sapore di una rosa, e il colore di un
amore appena sbocciato?
Lo
sapeva lui, che l’aria al tramonto puzzava come durante il
resto del giorno, di smog e di tutti quelle cappe probabilmente dannose
per la salute.
E
semmai, quelle venature – forse, d’accordo,
preferibili al blocco di ghisa che a volte il cielo diventava
– che screziavano il celeste malato della volta, ricordavano
le striature che restavano sulla pelle dopo che si era sporcata di
sangue. Per cancellarle del tutto ci voleva acqua e sapone,
perché quel liquido denso lì diventava rappreso
in fretta, e allora era difficile lavarlo via.
Il
tramonto a Martino piaceva da schifo, ma infondo sapeva che il
declino del sole non lo avrebbe mai liberato da niente.
Note:
Questa storia l’avevo scritta il 14 Aprile del 2010.
Ritrovandola nella cartella del computer ho deciso di pubblicarla. Va
detto che ho tentato di riprodurre al meglio lo stile usato da Brizzi
in “Jack Frusciante è uscito dal
gruppo”.