cap 3 pium
Cap.
3
On
the road again
Un piccolo carro a due
ruote viaggiava a balzelloni lungo una strada di montagna. L'asino
che lo trainava procedeva pigro, sotto la sferza di un vecchio
contadino. L'incedere lento del carro, il rumore ritmico delle ruote
che pestavano la terra e i violenti scossoni non rendevano il mezzo
di trasporto confortevole. Affatto.
Eliza aveva già
sperimentato il mal di mare, il mal d'auto e la chinetosi in varie
forme; ora, per la prima volta, provava sulla pelle, o meglio, sullo
stomaco, il mal da somaro. Che fortuna...
Il carrettiere non aveva
pronunciato nemmeno una parola da quando erano partiti, limitandosi a
qualche “aaah”, “eeeeh” e “oooh” rivolti all'animale.
Scrutava il percorso da sotto le rughe che gli incorniciavano le
palpebre e di tanto in tanto agitava lo scudiscio. Quella mattina
aveva intascato i soldi di Van senza aprir bocca, ficcandoseli in una
saccoccia che teneva appesa al collo. Aveva fissato sospettoso Uthar
che salutava da lontano agitando la mano, e aveva continuato
strenuamente ad ignorare i due giovani passeggeri, dopo che questi si
erano accomodati alle sue spalle, sulle sconnesse assi di legno. Era
evidente che non si fidasse di loro per averli visti in compagnia di
un hobbit, ma i soldi, si sa, fan sempre comodo.
Lizzie era accoccolata
sul bordo del carretto, coi piedi a penzoloni, e Van, al suo fianco,
stava semisdraiato su pungenti sacchi di iuta. Si era chiuso in se
stesso e aveva preso a fissarsi le scarpe intento, senza vederle
realmente, perso in chissà quali elucubrazioni.
-Hey Van, dov'è che
vai?- domandò la ragazza per interrompere l'assordante silenzio
sceso fra loro.
-...Van?- chiese questi
aggrottando le sopracciglia.
- Beh, è l’unica parte
pronunciabile del tuo nome…- si giustificò Lizzie un po'
imbarazzata.
Lui non si offese e
scoppiò a ridere.
-Lo avranno pensato in
molti, però tu sei la prima che me lo dice in faccia-.
-Beh... i tuoi devono
essere parecchio spiritosi, comunque non mi hai risposto: dov’è
che stai andando?-
Lui girò gli occhi e
guardò l'orizzonte per qualche istante. Quando Eliza iniziò a
temere che non le avrebbe detto nulla, il ragazzo si fece serio:
-Sai, faresti meglio a
preoccuparti di dove stai andando tu...-
Quella era esattamente
l’unica cosa che turbava realmente la ragazza, ed era anche l’unica
a cui si rifiutava di pensare. Non sapeva fino a quando avrebbe
potuto continuare a ignorare l'angoscia che sentiva dentro, ma
avrebbe provato a pensare a tutt'altro fin quando fosse stato
possibile. Meditarci troppo sopra non avrebbe portato a nulla e non
aveva ancora bisogno di una crisi isterica: parlare del più e del
meno, chiacchierare di qualcosa di futile, distrarsi, le avrebbe
fatto bene.
Lei e Van dovevano
assolutamente mettersi a fare un discorso banale, uno qualunque,
anche uno stupido pur di smettere di ascoltare i respiri l'uno
dell'altra, pur di riempirsi le orecchie e svuotare la mente.
Ma una conversazione
bisogna iniziarla, ed è qui che stà il difficile.
Eliza ci aveva provato,
goffamente, ma con coraggio: per questo gli aveva fatto quella
domanda, la più innocente di tutte, la più logica e la prima che le
fosse venuta sulla punta della lingua. Non le importava nemmeno la
risposta, ma tutto quel silenzio interrotto solo dall' ipnotico
scalpiccio degli zoccoli dell'asino, con la cornice del bosco
tutt’attorno, si stava rivelando decisamente troppo adatto alle
riflessioni, perfetto per sprofondare nel baratro dell'ansia.
Lei lo aveva fatto per
entrambi! Anche Van si stava perdendo fra gli irraggiungibili meandri
della propria testa, e non erano riflessioni allegre: lo avrebbe
capito anche un cieco... o una persona distratta quanto lei.
Ok, lo aveva fatto
sopratutto per se stessa, era un’egoista, ma in questo caso, benchè
per una mera coincidenza, ne avrebbe tratto qualche vantaggio anche
M.C. van S. di Imblee.
Il ragazzo però non
aveva apprezzato i suoi sforzi: non le aveva nemmeno risposto.
Alla sua domanda aveva
fatto quell'inopportuna considerazione, e questa volta a non parlare
era stata lei.
Lizzie tacque, un po'
ferita da quel tono astioso. Non avrebbe insistito, non avrebbe
costretto Van a parlare: non poteva, non voleva, farsi odiare
dall'unica persona che conoscesse.
Il ragazzo lasciò cadere
la sua affermazione nel vuoto e non insistè per avere una risposta:
lei lo avrebbe detestato, e lui non voleva niente di simile.
La fanciulla prese a
fissarsi i piedi. Ciondolavano dal carretto, avvolti in rudimentali
calzature da hobbit. Mentre li osservava, vedeva la terra del
sentiero e i ciottoli che il carro si lasciava indietro. Era scomodo
stare accovacciati sul legno duro e irregolare del carro, con la
schiena su un sacco bitorzoluto e che pungeva persino attraverso gli
abiti, ma era sempre meglio che andare a piedi.
Si mise a pensare a suo
nonno. Era quello della sua famiglia a cui pensare era più
sicuro: le mancava
sempre, da quando era morto, ma la nostalgia per un morto è ben
diversa da quella per i vivi. Per questo, in quel momento era quasi
confortevole, un'amica vecchia e conosciuta.
Suo nonno lo ricordava
come un vecchietto severo e arzillo, con un velo di barba sulle
guance. Si portava sempre appresso uno di quegli orologi di moda nel
secolo precedente, quelli che si attaccavano sotto agli abiti e
pendevano sulla camicia, a cui bisognava dare la carica ogni tanto o
si fermavano. Il nonno li aveva lasciati quando lei era poco più di
una bambina e ne conservava memorie piuttosto confuse. Le era
tornato in mente pensando al sacco di iuta, e ne aveva ricordato
l'odore di minestra e naftalina.
Nella lista delle qualità
che credeva di possedere aggiunse la memoria olfattiva. Un’altra
dote inutile, ma questa almeno le piaceva.
Poi suo nonno la prendeva
sempre sulle spalle e la portava in campagna a giocare...
- Se non hai un posto
dove andare puoi venire con me.-.
Eliza sbarrò gli occhi
incredula.
Sì
Ma non ebbe il coraggio
di guardare Van in faccia.
Ti prego Van, diventa
la mia nuova casa...
Sentì gli occhi
pizzicare e li strinse forte.
Grazie
Il ragazzo non la stava
guardando, ma colse l'annuire della testa di Lizzie ai limiti del
suo campo visivo. Piegò impercettibilmente gli angoli della bocca
nell’ombra di un sorriso.
Lei alzò di scatto la
testa, gli occhi a trapassare gli alberi che si lasciavano alle
spalle.
Non aveva mai guardato il
paesaggio che avano davanti da quando erano saliti su quel carro, non
aveva mai cercato di scoprire quello che li aspettava,
accontentandosi di riempirsi gli occhi con ciò che restava
indietro.
- Qual è il tuo colore
preferito?- trillò allegra.
A Van servì qualche
minuto buono per processare quella domanda senza senso e un pò
surreale in quel momento. Quando i neuroni si riattivarono quasi le
urlò addosso:
- Che razza di domanda
è??? E poi che c'entra adesso???-
- A me piace il blu.
Anche il verde, però il mio preferito è il blu.- sembrava che Eliza
non lo avesse nemmeno sentito.
-…Non ce l’ho un
colore preferito- sospirò rassegnato. Non capiva dove lei volesse
andare a parare, cosa cercava di ottenere con quell’assurdità?
- Io leggo un sacco.
Qualsiasi cosa. Anche la lista della spesa, o le pubblicità. Da
piccola una volta ho messo fuoco alle lenzuola con la lampada, sai...
per leggere di notte. E poi leggo in bagno…mi piace leggere in
bagno, e mi piace anche disegnare. E dipingere. Non in bagno però…-.
Ok...Quella pazza stava
facendo un monologo e non si curava nemmeno della sua faccia
perplessa o del fatto che lui non stava partecipando alla
conversazione. Non gli era parsa molto loquace prima, e adesso
parlava a mitraglietta, per giunta da sola! Sembrava quasi non
prendere fiato tra una parola e l’altra, troppo intenta a ciarlare.
All'improvviso capì. E
quando lei si interruppe un attimo per respirar,e fu lui finalmente a
riempire il vuoto e la quiete:
-Io odio disegnare!!! Mia
mamma da piccolo mi costringeva sempre. E poi non ne sono capace. Mi
obbligava anche a leggere per ore, e a suonare… Io però scappavo
appena si distraeva e andavo ad allenarmi.-
La ragazza sghignazzò
all'immagine del piccolo monello che van era stato
-Con la spada - aggiunse
a beneficio della sua interlocutrice. - Oppure andavo a dare fastidio
a mio padre o a Wolfang. E Wolfang si batteva sempre con me…-
Questi ultimi pensieri lo
stavano intristendo, e lei riprese a confessare:
- A me non piace la carne
alla brace. Beh la carne in generale non mi piace tantissimo…e
nemmeno il pesce. Però la carne di coniglio la mangio, e anche il
pollo. Dolci poco. Ah, non mi piace la cioccolata, preferisco il
miele.-.
- Come non ti
piace!?!?-saltò sù lui scandalizzato.
-No, non mi piace per
niente, e quando lo dico tutti mi guardano come se fossi scema,
esattamente come stai facendo tu- lo accusò ridendo.
- Per forza: sei scema se
non ti piace!-
-Maleducato!!!-
Continuarono così a
lungo.
***
Lentamente le ore erano
passate, alcune chiacchierando, altre ancora tenendosi compagnia in
silenzio. Uthar non aveva potuto offrire loro un letto e la notte
trascorsa sulle panche dell'hobbit li aveva lasciati con la schiena a
pezzi e le membra indolenzite. Ancora piuttosto stanchi si erano
appisolati più volte, senza però riuscire mai a rilassarsi
completamente.
Lo stagionato cocchiere
aveva continuato a confinare le parole alle vocali e ad ostinarsi in
un silenzio di superiorità e sospetto. Pian piano il sentiero era
divenuto una mulattiera, mentre il paesaggio mutava ed i boschi
lasciavano posto ai prati e a siepi basse. Non più alberi alti e
fitti, ma radi arbusti e frutice. Niente più marrone, giallo, ocra,
senape e rosso, ma rosa, azzurro, violetto a verde. Tanto verde. Gli
uccelli che si rincorrevano nel sole erano scomparsi, in compenso
tante pecore e qualche capra brucavano fra i cespugli bassi e
rugiadosi belando forte. Era cambiato anche il clima: prima sembrava
di essere agli inizi di un caldo autunno, adesso, a distanza di
qualche chilometro, tutto gridava forte “primavera”. Lo dicevano
gli agnellini, le farfalle ed anche i fiori. Non avevano visto né
Titiro nè Melibeo: non c’era nessuno a badare alle greggi e non
avevano incrociato esseri umani da quando avevano lasciato il
villaggio degli hobbit, alle prime luci dell'alba.
Alla fine era calata la
sera con il suo mantello di astri e di oscurità a celare lo
spettacolo della natura intorno a loro.
.
Eliza contemplava il
cielo stellato, uguale e diverso da quello cui era abituata, mentre
si beava del profumo dei fiori e dell’erba fresca.
Sentiva che quel ciuco e
quel villico maleducato la trascinavano lontano, verso l’ignoto.
In un’altra situazione
non avrebbe mai permesso a qualcuno di portarla via, senza sapere
dove esattamente la stesse conducendo. Ora non solo si era affidata
interamente a Van, ma non si sentiva nemmeno agitata e non si
preoccupava troppo di sapere dove stesse andando; del resto chiedere
la meta di quel viaggio sarebbe comunque stato inutile: un nome
altrettanto sconosciuto non l’avrebbe fatta certo sentire meglio.
Si era quindi affidata
completamente a Van, ed era davvero strano mettere in mano a qualcun
altro il proprio destino con così cieca fiducia, sopratutto se
l'altro era uno sconosciuto. Non le era mai successo prima, lei non
sopportava nemmeno le sorprese e non aveva mai autorizzato nessuno a
fargliene: preferiva tenere tutto sempre sotto controllo. Aveva
sempre esagerato nel voler gestire tutto e adesso eccedeva in senso
opposto, ma si sentiva bene, non aveva paura, non abbastanza almeno
da farsi sopraffare.
Van a due centimetri dal
suo braccio era meno tranquillo: non si era mai spinto così distante
e rimuginava sulle parole di Uthar,
borbottando qualcosa di inintelligibile.
Con il buio, sebbene si
vedesse pochissimo, si erano accorti che l'ambiente era cambiato
ancora una volta. L’erba si era fatta pian piano meno fitta ed il
paesaggio più brullo. Gli alberi ed i cespugli erano divenuti
un’eccezione e non erano più rigogliosi, ma secchi, nodosi e
scuri.
Era diventato molto più
difficile guardare le stelle e la volta celeste si era fatta
inspiegabilmente chiara.
Solo allora, finalmente,
Lizzie e Van avevano smesso di guardare indietro per girarsi verso
ciò che li aspettava.
Dietro il profilo di una
collina che si stagliava netto contro il cielo notturno, mentre alle
narici arrivava una sgradevole zaffata di fuliggine e benzina, si
era aperta una vallata enorme, illuminata quasi a giorno. Palazzi
scuri, alti e squadrati la riempivano tutta, ciminiere in lontananza
gettavano vampate di fumo scuro e denso verso la notte. Luci, tante,
tantissime luci, luci nelle strade e nelle case, luci a terra e luci
sospese nell’aria, la incendiavano di fuoco vivo. Talmente tante
luci da rischiarare la notte e da impedire alle stelle di fare
capolino nel cielo.
Non erano più nel luogo
ameno del villaggio degli hobbit, non era affatto bella la città che
stava loro di fronte, ma in qualche modo, agli occhi di Lizzie, era
comunque uno spettacolo.
Anche lei viveva in una
grande metropoli e nemmeno da lì riusciva a vedere le stelle nel
firmamento, in compenso al suolo sembravano esserne cadute a milioni.
Quelle nel cielo erano sempre state bellissime, e qualcuno diceva che
le accendevano i grandi eroi del passato per guidare i piccoli uomini
del presente, per questo erano così belle.
Ma le stelle sulla
terra le accendono i vivi, col sudore della fronte, e lo fanno sempre
per qualcuno, pensò la ragazza.
Da quella città non
proveniva nemmeno un suono. Era una perfetta città industriale, come
ne aveva viste a tante: questa però era immersa in un silenzio di
tomba.
Nemmeno un rumore
giungeva alle sue orecchie…nemmeno più quello del carro che dopo
l’ultimo “oooh” del vecchio si era arrestato.
I due ragazzi avevano
capito che quello era il momento di scendere e, preso ciascuno il
proprio bagaglio, avevano salutato il burbero conducente. Quello
aveva risposto con un’occhiata neutra, si era girato ed aveva
frustato l'asino, sparendo col suo corredo si vocali al seguito,
sempre più flebili con la distanza, ma chiare nella calma sepolcrale
ed inquietante che circondava la vallata.
Van ed Eliza non si erano
detti una parola e, rispettosi dell'urlo silenzioso di quel faro
abbagliante, si erano messi a camminare verso il centro della conca
quieti e veloci.
La strada era morbida e
liscia sotto i loro piedi: sembrava assorbire i passi, e le scarpe vi
affondavano leggermente, come fosse fatta di gomma sciolta. Eppure
l’attrito era minimo e scendere non risultava faticoso.
Alla base della collina
Van guardò negli occhi quella minuta ragazza che lo seguiva dal
giorno precedente e mormorò :-Hindàstria…-.
***
note
-
Il
nome Hindàstria l’ho preso dal cartone Conan, anche se non era
scritto così…
-
Il
pezzo sulle stelle è liberamente ispirato ad un aiku giapponese di
cui non ho potuto trovare una traduzione.
-
Il
titolo del cap. è una canzone di Willie Nelson, ma anche una
canzone di Bob Dylan, una canzone di Canned Heat,... scegliete pure
quella che preferite.
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