La
Donatrice
La stanza era luminosa, piena di mobili e suppellettili dall'aspetto
costoso e inutile. Tutto era ordinato e pulito, dava una sensazione
quasi... asettica.
Sanna si affacciò alla grande finestra ovale. La
città
si estendeva sotto di lei in un mare di luci colorate; oltre i suoi
confini, il nulla inviolabile. Già dalla sua abitazione,
poteva
scorgere la cupola che circondava l'immenso centro urbano e i campi
coltivabili: quella struttura trasparente era visibile solo di notte,
perché solo con il buio completo le luci vi si riflettevano.
Non c'erano stelle o lune a violare quell'oscurità: l'eterna
nube scura non lo permetteva. A dire il vero, anche il sole faticava a
superare quella barriera, diffondendo sugli abitanti una luce
grigiastra. Sanna non sapeva cosa ci fosse dietro, non era mai uscita
dai confini della città: secondo i Generali, nulla era
rimasto a
ricordare la loro civiltà se non pochi centri abitati,
perché tutto era stato spazzato via da quella guerra atomica
che
aveva decimato la popolazione mondiale...
Sanna abbassò gli occhi e vide la strada parecchi piani
più sotto. Quante volte aveva desiderato aprire quella
finestra
e farla finita? Ma i Generali avevano pensato anche a quello,
sigillando quel vetro antisfondamento; il ricambio d'aria era delegato
a qualche bocchetta sparsa per la stanza, i cui filtri erano cambiati
sin troppo spesso. Come venivano pedissequamente controllati il cibo,
l'acqua... A lei non era concesso tenere nulla di tagliente, la carne
era già sminuzzata in piccoli pezzi prima che arrivasse a
lei.
“Per la vostra sicurezza!” sostenevano i Generali.
Per lei uscire da quella stanza da sola era impossibile; inconcepibile,
poi, era che lei lasciasse il palazzo, sia anche accompagnata da un
plotone. Da quando aveva quattordici anni, Sanna non conosceva altro
che quelle quattro mura, e pochi locali che condivideva con altre sue
pari.
“Per la vostra sicurezza!” ribadivano a gran voce i
Generali.
Sanna si chiese quante donne fossero riuscite a lasciarsi morire prima
che i Generali mettessero in atto questi provvedimenti. E se all'inizio
Sanna le aveva odiate, perché le avevano tolto ogni minima
libertà, ora non riusciva più a provare rancore.
Dopo
quindici anni, aveva capito ciò che le aveva spinte a farlo.
Sanna non mise di fissare la strada sottostante; il suo occhio fu
attirato dal grande cartello luminoso posto a metà percorso
tra
lei e l'asfalto: Figlie
di Demetra, urlavano quei caratteri cubitali.
Era così che la chiamavano: Figlia di Demetra, o Donatrice
di
Vita, o anche Madre. Mai nessuno la chiamava Sanna. A quattordici anni,
oltre alla libertà erano riuscite a toglierle il suo nome.
Demetra... la dea greca della fertilità.
Dopo quella guerra atomica, poche donne erano rimaste fertili. Poche
donne tra cui lei, Sanna. E quello era il premio per questa fortuna, la
prigionia.
Qualcuno bussò.
“Avanti” rispose Sanna con voce sottile e
guardò la porta aprirsi piano.
Una ragazza bionda entrò di un solo passo, con uno sguardo
freddo che riservava solo a lei.
“Il tuo cliente è arrivato”
annunciò.
Avanzò nella stanza a passi affrettati e posò sul
comodino un vassoio che conteneva un bicchiere d'acqua e una pillola.
Sanna osservò i due oggetti con repulsione; la pillola della
vita, la chiamavano.
La ragazza bionda la guardò attentamente inghiottire la
pastiglia, senza nascondere il rancore, e Sanna, come sempre, la
ignorò.
“Grazie, Becky” mormorò poi, rimettendo
al suo posto il bicchiere vuoto.
La servetta non parlò. Per quanto Sanna avesse cercato di
essere
gentile con lei, non era riuscita a smorzare l'odio che la ragazza le
rivolgeva.
Sanna sapeva qual'era il motivo della sua invidia. Becky era figlia di
un generale, aveva vissuto nel lusso fino all'età di
quattordici
anni quando il referto medico aveva svelato la cruda realtà:
era
sterile, non poteva avere bambini. Quella società non
conosceva
pietà per donne come Becky, e ora eccola lì, la
principessina divenuta serva.
Serva, tra l'altro, di una Donatrice di vita, lo stato sociale
più alto a cui una donna potesse aspirare.
Sanna avrebbe fatto volentieri a cambio con lei. Meglio sgobbare come
un mulo dalla mattina alla sera piuttosto che la sua vita. Avrebbe
voluto gridarglielo in faccia: se non altro Becky poteva uscire da
lì, non quando voleva lei, certo, ma Sanna aveva sentito
qualcuno spedirla a fare commissioni.
Avrebbe voluto dirle che almeno lei non viveva in una prigione dorata
senza poterne mai uscire.
Ma sapeva che Becky non avrebbe mai capito.
“Fai accomodare il cliente” ordinò
Sanna, più
dura di quanto volesse. La serva le lanciò un'occhiata
maligna,
poi si voltò e si dileguò.
Rimasta sola, Sanna fece un respiro profondo e si passò le
mani
tra i lunghi capelli neri, chiudendo per un attimo gli occhi. Quando li
riaprì, si diresse allo specchio vicino al letto, che le
consentiva di vedere la sua sua intera figura: non era una bella donna,
aveva i lineamenti troppo marcati, ma quel pomeriggio un equipe di
estetisti aveva fatto in modo di renderla un minimo affascinante. Il
risultato era apprezzabile, ma lei odiava quelle trasformazioni. Come
odiava il leggero vestito lilla che indossava in quel momento.
Abbassando lo sguardo, raggiunse la porta laterale e la
superò;
si ritrovò in una stanza più ampia di quella in
cui
dormiva, che ospitava un grande letto a due piazze dalle coperte di un
viola cupo, un tavolino di legno e un paravento in tinta con il
copriletto, il tutto immerso in luci soffuse. Si avvicinò al
letto vi si sedette sopra, con le gambe piegate di lato, in attesa, lo
sguardo fisso alla porta che dava al corridoio.
Il cliente arrivò quasi subito: era un ometto sui
trentacinque
anni, basso e insignificante. Portava un mazzo di rose rosse, come
omaggio alla Donatrice di Vita, e rimase sulla soglia, chiaramente
imbarazzato.
“Entra” disse lei scocciata, rovinando un po'
l'atmosfera.
Lui farfugliò qualche scusa e avanzò.
“Ti ho
portato queste, Figlia di Demetra” aggiunse, porgendole le
rose.
Lei si alzò e le prese tra le mani, ringraziandolo; era
stupita,
in così tanti anni pochi uomini le avevano portato dei
regali...
Le posò sul tavolino, se ne sarebbe occupata in un secondo
momento. Notò che l'altro era molto nervoso.
“Siediti” disse allora, “Mettiti a tuo
agio. Come ti chiami?”.
“James Tompson” Lui si sedette respirando a fondo.
“Sai... non sono mai stato con altre donne a parte mia
moglie” raccontò, agitato. “E lei non
era molto
d'accordo, all'inizio. Ma poi si è calmata e ha capito le
mie
ragioni”.
Sanna si accomodò accanto, quasi sconvolta: una donna
libera,
né serva né Donatrice di Vita... ne esistevano
davvero
poche, erano donne fertili ma non adatte, per costituzione o altri
motivi, ad essere Madri per troppe volte. Potevano sperare di avere dei
figli propri, certo, ma non molti.
“La lista d'attesa è molto lunga, eh?”
chiacchierava
intanto l'uomo, per combattere la tensione. “Temevo di non
farcela. Certo, davanti a me c'erano persone ben più
importanti!” si affrettò ad aggiungere, quasi
temesse di
aver detto qualcosa di compromettente. “Però,
quando ormai
avevamo perso le speranze, ecco che si liberato un
posto!”
“Quanto ti hanno dato?” chiese lei, all'improvviso.
L'uomo si incupì. “È questione di mesi,
ormai...” spiegò, a voce bassa. “Le
medicine mi
aiutano a non sentire dolore, ma so che non manca molto”.
“Sei... sei stato fortunato” osservò
allora Sanna.
“Già, ora ho te, Donatrice di Vita” si
rallegrò lui.
“Mi chiamo Sanna” lo corresse lei. Ricevette
un'occhiata
stupita. Avvicinò il volto al suo e parlò a voce
bassa,
provocante. “Il mio nome è Sanna, non Donatrice di
Vita,
né Figlia di Demetra. Usa il mio nome e andremo
d'accordo”.
Lui annuì, confuso, mentre le mani di lei gli sbottonavano
la
camicia. Sanna guidò i suoi gesti inesperti e in un attimo
furono nudi. Per Sanna era un'esperienza provata troppe volte, ogni
volta con persone diverse, sconosciuti disperati che chiedevano il suo
aiuto.
Lei era la loro ultima spiaggia.
Le venne quasi da ridere: nella civiltà d'anteguerra
l'avrebbero chiamata puttana, ora la chiamavano Donatrice di Vita.
Lo sentì gemere un nome femminile, probabilmente quello
della
moglie e provò una tristezza infinita: lui aveva qualcuno da
amare, da amare davvero, mentre lei era sola al mondo, poco
più
che un oggetto. Qualche lacrima le bagnò il volto.
Finì fin troppo lentamente per lei. Quando si ritrasse, si
asciugò di nascosto il viso e non guardò James.
“E adesso?” chiese l'uomo, incerto.
Lei si sedette. “E adesso aspettiamo”
replicò.
“Grazie, Donatrice di Vita” disse James.
“Sanna” replicò seccamente.
“Mi chiamo Sanna”.
“Le figlie di Demetra non hanno nomi, a quanto mi
risulta” rispose l'uomo, sedendosi a sua volta.
Lei si voltò a fulminarlo. Ora che aveva ottenuto quello che
voleva, James sembrava più sicuro e meno propenso a darle
ragione.
“Esci di qui” ordinò Sanna.
“Ti sei offesa?” chiese, rivestendosi. Ora era
davvero sfrontato.
“Io ce l'ho un nome, ed è Sanna. Ti conviene
accettarlo se non vuoi che abortisca” replicò
Sanna.
Lui sbiancò. “Tu... tu non puoi!”
esclamò. “Verresti uccisa”.
Sanna sapeva che abortire era quasi impossibile: era troppo controllata
e se solo ci avesse provato per lei sarebbe stata la fine. Ma, del
resto, a lei non importava più.
“Potrei denunciarti anche solo per averlo detto...”
la avvisò James.
“Non lo farai: se lo venissero a sapere mi ucciderebbero
subito
per tradimento, non aspetterebbero certo nove mesi. E io ti servo, o
sbaglio?” disse Sanna, annoiata.
Lui la squadrò male.
“Esci” ordinò Sanna, camminando verso la
sua camera.
Una volta sola, Sanna si sedette a terra e pianse tutte le sue lacrime.
La medicina e la scienza avevano fatto progressi enormi, nel
dopoguerra. Quella pillola che Sanna aveva ingoiato non era solo per
stimolare la sua fertilità. Consentiva di attuare quella che
per
lei era un abominio.
Consentiva la clonazione.
La clonazione di un intero essere umano era stata scoperta da molto:
dopo vari esperimenti, alcuni scienziati avevano scoperto che con
qualche semplice iniezione si poteva trasformare la donna in una specie
di incubatrice in grado di riprodurre il Dna umano della persona
con cui aveva concepito il feto. Non veniva replicato solo il corpo, ma
i cloni tendevano a presentare comportamenti, e talvolta sprazzi di
ricordi, della vita originale.
Dopo la guerra, questa scoperta prima disprezzata era stata
legalizzata. Ora, in un mondo distrutto, il ventre di una donna non
veniva più visto come una prospettiva per il futuro, ma come
conservazione del presente.
E allora era nata quella ricca prigione dove rinchiudere le femmine
più adatte a questo ruolo, mentre le altre venivano
disprezzate
e considerate inutili, ridotte alla schiavitù: come Becky.
Sin dai quattordici anni, le Figlie di Demetra diventavano madri almeno
una volta all'anno, poi il ritmo aumentava. A tre mesi dal
concepimento, il feto veniva estratto e portato in laboratorio, dove la
sua crescita continuava in un ambiente adatto, fino alla fine della
normale gestazione.
Chiunque poteva farne richiesta, ma la lista d'attesa, come l'aveva
chiamata James, era enorme e di certo persone considerate
più
importanti avevano la precedenza. I ricordi dei nuovi nati erano
immessi in dischetti che avrebbero consentito la continuità
tra
le due esistenze.
Sanna si accarezzò la pancia: anche se non poteva ancora
sentirla, una nuova vita stava già formandosi. Di
lì a
nove mesi, un nuovo James Tompson avrebbe visto la luce.
Angolo
di Ceciotta.
Avevo questo raccontino salvato sul mio computer da mesi, ma non mi
decidevo a renderlo pubblico. Finalmente ho deciso che era giunto il
momento.
Ci tengo a precisare che, quando ho finito di
scriverla, mi sono resa conto che questa storia mi è stata
in
parte (soprattutto per la loro suddivisione delle donne in fertili e
non) ispirata
da Il racconto
dell'ancella, romanzo che tra l'altro vi consiglio. Gran
parte però è farina del mio sacco, o almeno spero.
Mi raccomando, recensite!
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