1.
FIGLIA DEL NULLA
This
is me, for forever One
of the lost ones
- Nemo, Nightwish -
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei,
stretta tra braccia esili.
Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia
dell’incapacità di
comprendere quel caos improvviso.
– Chi sei? Che cosa vuoi? –
chiede un ragazzo. È giovane, incerto, ma determinato.
Una sottilissima falce di luna brilla fuori da una
grande finestra. Un
pallido sole di ombre ritorte stagliato sul pavimento. Odore di pioggia
nell’aria.
– Datemi la bambina – risponde
una placida voce indistinta, un volto
oscurato da un cappuccio.
– No! – grida la ragazza.
Stringe più forte, più disperatamente. Le fa
male.
Il ragazzo accanto a lei fa loro scudo con il
proprio corpo. Gli occhi
sono due pozze di cristallo nero intorbidite dal panico.
L’aria si fa sempre più
rarefatta e irrespirabile.
È buio… troppo
buio…
– Datemi la bambina – ripete la
voce. C’è qualcosa di duro nel suo tono
tranquillo. – Per il suo bene. –
Vento gelido alita dalla porta spalancata alle sue
spalle che sbatte
incessantemente contro il muro. Solo tenebre, fuori.
– Prendi tutto quello che vuoi!
– balbetta la giovane, tremando. – Abbiamo
dei gioielli, oggetti di valore… –
– Dammi la bambina – Sentenzia
la persona senza volto, ed è un ordine
ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che
spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire,
ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle
braccia
insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà
salva. Loro stanno arrivando. Se riescono
a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi.
Datela a me.
–
–
Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna
appare per un
brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste,
impietoso. In
lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in
corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al
corpicino indifeso
della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto
è preda
di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
La
prima cosa che vide, aprendo
gli occhi, fu solamente il buio. Denso, palpabile, come ne fossero
stati
intrisi i suoi occhi, fino ad accecarla. Poi, lentamente, brandelli di
luce
cominciarono a rischiararle la vista, permettendo a forme e oggetti di
acquisire contorni distinguibili, ma affatto conosciuti.
Ebbe
un istante di perplessità:
non aveva idea di dove si trovasse. Era uno stanzino angusto, buio e
umido,
fiocamente illuminato da povere fiammelle sparse qua e là.
Si trovava in un
letto dalle lenzuola ruvide, sepolta sotto a diversi strati di coperte
di lana.
Il materasso era molto duro. Indosso aveva qualcosa che somigliava a
una
camicia da notte di fattura molto grezza. In un angolo,
dall’altra parte dello
stanzino, un fuocherello ozioso ardeva in un bacile di ferro, emanando
un
gradevole tepore.
Non
riconosceva niente di ciò che
la circondava, dal mobilio spartano all’odore di muschio che
impregnava l’aria.
Tutto le era completamente estraneo.
La
perplessità, tuttavia, lasciò
ben presto posto a un’altra e ben più sconcertante
sensazione, non appena una
semplice ma significativa domanda si formò tra i suoi
pensieri.
Chi sono?
Non
trovò risposta.
L’unica,
nebbiosa immagine che
affiorò erano due occhi di un azzurro glaciale che la
scrutavano apprensivi. Non
sapeva a chi appartenessero, né quando o dove li avesse
visti. Non era in grado
di contestualizzare quel ricordo, ma era il solo che possedesse.
Si
sforzò di richiamare qualsiasi
altra cosa alla memoria: tutto ciò che trovò
nella propria mente era una
sterminata distesa di vuoto.
Provò
a cercare ancora, annaspò
nella propria testa tra meandri neri privi di contenuti, scavando
sempre più
nel profondo, senza incontrare altro che nero ancora più
nero.
Presto
un senso di vertigine la
colse.
Si
guardò le mani, disperata:
piccole, bianche, urtate da qualche graffio sottile qua e
là. Non le riconobbe.
Questa
mancanza assoluta di
coscienza di sé e dell’ambiente in cui si era
ritrovata la spaventò. Un senso
di angoscia le agguantò la gola, smorzandole il respiro. Si
portò le mani alla
testa dolente, gli occhi serrati nel vano sforzo di trovare qualcosa
dentro di
sé, un’informazione di qualunque tipo, ma non
c’erano spiragli di luce in quel
vortice di tenebre.
Tuttavia
ad un tratto una
scintilla inattesa balenò tra le ombre e un nome
affiorò incerto sulle sue
labbra.
Regan.
Se
lo ripeté una, due, dieci
volte, come un sussurro ancestrale provenuto da chissà dove,
fino a che non
cominciò a sentirlo quasi familiare. Sentì che le
apparteneva.
Regan,
sì. Quello era il suo
nome.
Oltre
quello, non rammentava nulla.
Né la propria età, né il proprio
aspetto, né altro. Tutto ciò che sapeva, per
istinto, era che il luogo in cui si trovava le era sconosciuto.
Avvertiva
l’abbraccio della terra
attorno a sé, la presenza forte e rassicurante di mura
vecchie decine di millenni
a circondarla con calore oltre le pareti di roccia: si trovava
sottoterra.
L’inspiegabile sensazione di familiarità che ne
trasse fu lenitiva, la aiutò a
tranquillizzarsi e razionalizzare: forse era lì
perché era malata.
Aveva
la pelle marcata da lividi
e ferite più o meno superficiali già parzialmente
cicatrizzate, e odorava
vagamente di the. La spalla destra le doleva e il polso era fasciato.
Ovunque
si trovasse, qualcuno si era preso cura di lei.
Si
alzò, evitando di aiutarsi con
il braccio destro. Le ci volle uno sforzo nettamente superiore a quel
che
avrebbe pensato. Quando finalmente riuscì a tirarsi in
piedi, i suoi piedi nudi
si posarono sulla superficie soffice di un tappeto. Si
appoggiò alla parete,
colta da un leggero senso di vertigine, e inspirò a fondo
fino a che non fu
passato. Le sue gambe, però, erano piuttosto malferme.
Si
accorse che proprio lì accanto
c’era uno specchio. Curiosa e timorosa al contempo, come se
temesse di
scoprirsi mostruosa, vi si accostò.
Tenne
gli occhi chiusi per un
po’. Non sapere cosa avrebbe visto la metteva a disagio. Non
riusciva a
immaginare niente di peggio che essere ignoti a sé stessi.
Quando
incontrò il proprio
riflesso, si ritrovò al cospetto di una sconosciuta: due
occhi a mandorla, di
un limpido verde smeraldo, la fissavano indaganti da un viso ovale dai
lineamenti morbidi, incorniciato da lunghi capelli che avevano
l’esatto colore
pulsante del sangue. La pelle candida era segnata da ombre violacee
attorno
agli occhi e da segni scuri sul collo. Se li sfiorò con i
polpastrelli,
avvertendo un vago bruciore. Chissà com’era
successo, esattamente.
Non
si riconosceva. Non c’era
nulla di familiare in quel che vedeva, ma doveva farsene una ragione.
Non aveva
molta scelta, in fondo.
Si
guardò intorno: forse fuori da
quella stanza avrebbe trovato qualcuno che potesse aiutarla. Qualcuno
che
potesse darle delle risposte.
La
porta era proprio di fronte a
lei. Le bastò allungare la mano per afferrare la maniglia di
ottone e tirare
verso di sé perché si aprisse. Un fiotto di luce
più intensa e dorata invase la
stanza.
Si
schermò gli occhi, avvertendo
uno spiacevole bruciore. Si concesse qualche secondo per abituarsi, poi
uscì.
La
stanza dava su un corridoio
piuttosto stretto, che si perdeva nel buio nell’una e
nell’altra direzione.
Non
c’era anima viva in giro, né
si potevano udire rumori di alcun tipo. Non poteva far altro che andare
a caso.
Scelse
di seguire la pendenza,
perché la mollezza che ancora si sentiva nelle gambe
probabilmente non le
avrebbe permesso di arrancare a lungo in salita.
Il
tepore sprigionato dalle torce
intervallava l’aria fredda che circolava là sotto,
sfiorandole i capelli e le
spalle, suscitandole brividi lungo la schiena. Faceva molto freddo,
rispetto
alla piccola stanza, e il suolo umido le stava congelando i piedi.
Camminò
per un paio di minuti,
rallentata dalla debolezza, fino a che non iniziò a
intravedere un altro
corridoio che incrociava il suo percorso. C’erano delle voci
che provenivano da
un lato, sommesse, assieme a un rumore di passi. Man mano che le voci
si
avvicinavano, Regan capì che erano due, ed erano di due
donne. Una sembrava più
giovane, l’altra matura.
–
Lucius la deve smettere di
trattare questo posto come una locanda – stava
borbottando la più giovane. – Arriva, fa
i suoi comodi, e poi sparisce senza nemmeno degnarsi di spiegare.
–
Una
risata roca in risposta.
–
Ha spiegato a Kael, e Kael ha
spiegato a me. Aveva un rapporto urgente da fare alla Lega. –
–
E la sconosciuta? –
–
Tornerà a prenderla non appena
gli sarà possibile. Per adesso ci occuperemo noi di lei.
–
–
Era ridotta male – la
voce della ragazza si fece pensosa – La sua
energia vitale era quasi esaurita. Mi domando cosa possa averla
stremata in
quel modo. –
–
Con le tue cure dovrebbe
riprendersi in fretta. –
I
passi erano ormai in prossimità
dell’angolo. Regan si affacciò timidamente e
scorse a pochi metri da lei due
figure scure che si avvicinavano. Ne distinse dapprima gli abiti: la
donna
portava una camicia bianca e un corsetto, la ragazza una semplice blusa
scura.
Erano i tacchi dei loro stivali a rendere i loro passi così
rumorosi.
Ad
un tratto la più giovane alzò
lo sguardo e si fermò.
–
Gin, guarda! –
La
donna si fermò al suo fianco,
perplessa, poi seguì il suo sguardo, e allora comprese.
Appena i suoi occhi scuri
si posarono su Regan, un sorriso le si aprì sulle labbra.
–
Ma guarda. Ben svegliata,
bambolina. –
Si
avvicinò a Regan in poche
falcate. Aveva un portamento disinvolto e sicuro, capelli neri a
ricaderle
disordinati sulle spalle. Era avvenente, ma non bella nel senso
classico del
termine: il naso, sottile e leggermente aquilino, le conferiva
un’aria furba e
maliziosa, che ben si accompagnava al suo fisico formoso, femminile.
–
Tutto bene? – indagò la donna.
Regan
si sforzò di annuire.
–
Credo di sì. –
Si
accorse che la sua voce era
rauca e le faceva male la gola.
–
Sono Angina – disse la donna.
Si accostò la mano destra, chiusa a pugno, al lato sinistro
del petto e chinò
appena il capo – Signora e padrona del luogo in cui ti trovi.
–
–
Regan – si
presentò quindi lei, frastornata da
quell’inattesa movimentazione.
–
Ottimo, Regan – Si
compiacque Angina, appoggiandole una mano
sulla spalla. Fortunatamente, quella sana – Ti trovo
decisamente più in forma
di quando sei arrivata.–
Le
dovette credere sulla parola.
Se le sue condizioni attuali rappresentavano un miglioramento,
preferiva non
pensare a come dovesse essere stata prima.
La
ragazza più giovane era
rimasta indietro e la fissava con diffidenza e un certo disgusto. A
differenza
di Angina, era molto magra e i corti capelli castani marcavano
ulteriormente i
tratti duri del suo viso.
–
Ven. –
Quando
Angina la chiamò con un
cenno, la ragazza fu costretta a raggiungerla. Portava un vassoio con
bende e
qualche piccola ampolla sopra.
–
Regan, lei è Venena. È stata lei
a medicarti. –
–
Grazie – mormorò
Regan, sfiorandosi con le dita la
lunga serie di graffi paralleli che le attraversavano
l’avambraccio.
Gli
occhi piccoli e sottili di
Venena la squadrarono senza interesse. Le sue mani avevano dita lunghe
e sottili
e c’era del nero sotto alle unghie mangiucchiate.
–
Dovere. –
Regan
rabbrividì.
L’aria
che circolava là sotto era
gelida, anche nonostante la moltitudine di fiaccole che ardevano
ovunque.
–
Penso che sia meglio metterti
addosso dei vestiti veri –
le disse
Angina, ammiccando – Vieni – aggiunse
poi, avvolgendole un braccio attorno alle spalle. – Venena ti
visiterà mentre
io ti cerco qualcosa di carino. –
Regan
non aveva idea di chi
fossero quelle persone. Non aveva idea se potesse fidarsi o meno di
loro, se
fosse saggio affidarsi ciecamente a loro, ma non aveva nemmeno qualche
alternativa.
Mosse
un passo, ma barcollò, la
testa colpita da un vortice di vuoto. Sentì le mani sicure
di Angina che la
afferravano per le spalle, sorreggendola.
–
Bevi questo. –
Un
odore dolciastro, come di
miele misto a spezie, si sprigionò sotto alle narici di
Regan. Venena le stava
porgendo una fragile bottiglietta piena di un inquietante liquido
verdastro.
–
Ti darà forza – le spiegò la
ragazza in tono incolore, vedendola esitare. – Ti assicuro
che non l’ho
avvelenato. –
Angina
la guardava incoraggiante
alla tremula luce dorata delle torce. Aveva un viso dai tratti molto
particolari, netti, molto espressivi.
Pur
con una qual certa
riluttanza, Regan si obbligò a bere. L’intruglio
aveva in effetti un che di
mellifluo, e un retrogusto asprigno che le fece pensare agli agrumi.
Tutto
sommato non era poi tanto male. L’effetto fu quasi immediato:
fu come se una
scintilla le avesse riacceso il sangue nelle vene, spingendolo a
irrorare il
suo corpo con più vigore, risvegliandole le membra fino a un
attimo prima
intorpidite. Non sarebbe di certo riuscita a correre, ora, ma se non
altro ce
la faceva a stare in piedi senza reggersi al muro.
Angina
la condusse attraverso un
vertiginoso reticolo di cunicoli, alcuni dei quasi attraversati da
spifferi di
aria gelata. Angina si muoveva senza apparentemente badare a dove
andasse.
Senza alcun dubbio conosceva la sua casa.
Venena,
che camminava un paio di
metri indietro, sembrava di malumore.
–
Hai fame, Regan? Sete? – domandò
Angina, premurosa.
–
Probabilmente le farebbe bene
un bagno caldo – Suggerì
l’altra.
–
Non ho molto appetito – ammise.
– Ma mi sento ancora un po’ debole. –
–
Sei quasi morta – le disse
Venena senza il minimo tatto. – Ritieniti fortunata a sentirti ancora. –
Angina
annuì.
–
Addirittura dubitavamo che ce
l’avresti fatta, e invece sei già in piedi.
Stupefacente, vero, Ven? –
–
Prodigioso, oserei dire. –
Per
essere una che aveva sfiorato
la morte, Regan si sentiva relativamente in forma.
–
Evidentemente l’ambrosia ha
fatto il suo dovere. –
–
È stata una fortuna – disse
Venena, accigliata. – Avrei giurato che non fosse proprio di
ottima qualità. –
Angina
le allungò una pacca
amichevole sulla schiena.
–
A volte l’abilità
dell’erborista compensa la manchevolezza della materia
prima. –
Erano
completamente opposte l’una
all’altra, quelle due: Angina si comportava quasi come una
ragazzina,
sbarazzina e vivace, refrattaria alle formalità; Venena,
invece, benché non
molto più vecchia di Regan stessa, si vestiva di
un’assurda serietà, cupa e
scontrosa.
–
Sai che ti dico, Regan? Ora
faccio preparare qualcosa da mangiare e ti faccio compagnia –
–
Che ora è? –
Era
difficile avere percezione
del tempo, là sotto.
–
È quasi la terza pomeridiana.
Hai dormito per mezza giornata –
Alla
fine raggiunsero un bivio:
da una parte una larga scalinata saliva, dall’altra
proseguiva il corridoio.
Qui Angina si rivolse a Venena:
–
Di’ a Hilgard di preparare
qualcosa di speciale e nutriente per la mia ospite. Ci troverai alle
sorgenti,
puoi visitarla lì. –
–
Certo. –
Venena
si congedò senza sprecarsi
in troppe cerimonie, eccetto l’occhiata trova che
appioppò a Regan prima di
voltarle le spalle e andarsene, sparendo come un’anguilla
oltre la prima
svolta.
–
Vieni – Angina le fece cenno di
seguirla su per una rampa di scalini piuttosto larga che sembrava
scendere
all’infinito, perdendosi in un occhio cieco
nell’oscurità. – Prima di tutto ti
ci vuole un bel bagno caldo. Sei gelata. –
Gelata, pensò Regan, era forse
la definizione più esatta per come
si sentiva veramente, in sensi letterali e figurati vari.
Seguì
Angina con la bizzarra
sensazione che i passi stentati che stava muovendo fossero i primi di
sempre,
come se fosse nata lì, in quelle grotte nel ventre della
terra, solo una
manciata di minuti prima, perché in fondo il vuoto
sterminato che aveva
inghiottito il suo passato, qualunque esso fosse, aveva tracciato una
sorta di
linea di confine che forse lei non avrebbe masi più
ripercorso. Tutt’al più,
avrebbe potuto apprendere da altri ciò che di lei era stato
in precedenza, come
una fiaba da farsi raccontare, senza avere il beneficio di sapere se
fosse
realtà o solo fervida fantasia.
–
Che cosa mi è successo? –
La
domanda, pronunciata con una
smania che sconfinava nella compulsione, risuonò in
un’eco asfissiata tra le
pareti umide.
Angina
si fermò qualche gradino
avanti a lei. Si voltò solo un paio di secondi dopo:
–
Non ricordi? –
Regan
chinò il mento, scuotendo
la testa.
–
Non ricordo niente. –
Capì
che era una dichiarazione
inattesa dal modo i cui la donna sgranò gli occhi.
–
Niente di niente? –
–
A malapena ho ricordato il mio
nome. Mi sono dovuta guardare allo specchio per sapere come fossi
fatta. –
Era
evidente che Angina fosse
stata presa in contropiede, perché improvvisamente tutta la
sua spensieratezza
si era dissolta, sostituita da una palese perplessità.
–
Non credo che sia normale
questa amnesia – rifletté. – Ma date le
condizioni in cui sei arrivata, non
sono nemmeno poi molto stupita. –
Fece
una pausa e cercò lo sguardo
di Regan, la quale aveva colto la sfumatura drammatica di quel
“condizioni” e
non aveva faticato ad associarlo alle tracce di lesioni che ancora si
portava
impresse nella carne.
–
È stato un mio amico a portarti
qui. Ti ha salvata da un cumulo di macerie e sottratta alla spada di un
tizio
che a quanto pare era molto interessato ad averti. La cosa ti dice
niente? –
Regan
negò.
–
Mi dispiace. –
Si
sentiva stupida: erano cose
che erano capitate a lei, che dovevano pur essere scritte da qualche
parte
nelle sua mente, ma era come se una folata di vento avesse spazzato via
tutte
le pagine della sua storia, facendole naufragare chissà
dove, lontano dalla sua
portata.
–
Non ti demoralizzare – la
confortò Angina, prendendola per mano. – Adesso
pensiamo a sistemarti e
rifocillarti. Del resto ci occuperemo più tardi. –
Le
terre emerse che nel corso dei
secoli erano rimaste occultate all’avidità degli
occhi gli umani – dai loro stessi
abitanti battezzate Mondo Occulto, proprio per questa loro esistenza
segreta –
erano ripartite in sette grandi Terre, ciascuna delle quali
corrispondeva a un
Nucleo guidato e regolato da un suo Coordinatore, il quale a sua volta
faceva
riferimento a un’unica, immensa istituzione che regolava e
proteggeva
l’equilibrio all’interno dei territori: la Lega
delle Sette Terre. La sede
centrale di questa congregazione territoriale si trovava in una delle
città più
ricche e prospere che la Madre ospitasse: Medilana, capitale di
Corterra, territorio
centrale del continente.
Di
tutti i luoghi che Lucius
avesse visitato in vita sua – e si trattava praticamente di
mezzo mondo –
Medilana rimaneva uno dei suoi preferiti: le vie della zona centrale
erano
ampie e pulite, percorse da sontuose strade lastricate su cui si
affacciavano
maestosi i palazzi dei nobili e dei ricchi mercanti. Il commercio, in
effetti,
era uno dei punti di forza della città, fiorente e in
costante rinnovamento in
quanto a prodotti di importazione. I numerosi mercati
dell’aera Sud della
città, che quotidianamente richiamavano folle brulicanti da
ogni angolo delle Sette Terre, erano la principale testimonianza di questa
vivacità commerciale. Per
questo e per le molte bellezze, naturali e architettoniche, che offriva
la
regione circostante, erano innumerevoli anche le pensioni per gli
stranieri: i
più facoltosi preferivano concedersi soggiorni di lusso
presso quelle ricavate
nelle dimore confiscate alle nobiltà decadute, i
più umili, invece, più
propensi ad affidarsi alle tariffe più accessibili della
moltitudine di locande
che si alternavano a osterie e taverne lungo il Naviglio Grande e le
sue
diramazioni.
Avere
un così importante centro
abitato venato di corsi d’acqua aveva certo i suoi tanti,
piccoli svantaggi – a
partire dai miasmi che si sprigionavano dai brevi tratti di melmosa
acqua
stagnante, che i cittadini si sforzavano di contrastare coltivando veri
e
propri giardini pensili fioriti sulle loro terrazze – ma
d’altro canto la
possibilità di navigare la maggior parte di essi –
là dove carrozze, carri e
cavalli nulla potevano – costituiva senza alcun dubbio
un’enorme facilitazione
per il trasporto delle merci. Da qui il soprannome di Porto Senza Mare
di cui
vantava la città.
In
ogni periodo dell’anno le vie principali
erano accese dai variopinti colori – secondo la moda di
Corterra – degli abiti
di seta delle dame, in mezzo alle quali i distinti gentiluomini che le
accompagnavano sembravano perdersi, con la sobrietà delle
loro mise.
Più
di tutto questo, però, Lucius
amava il Foro, con i suoi portici ariosi e la
Piazza Bianca, dominata dalla maestosa mole della Basilica. Era il
punto di
ritrovo di studenti e intellettuali, e lui adorava trascorrervi ore ad
ascoltare i loro discorsi, i dibattiti filosofici tra artisti e
luminari della
scienza, ma anche teatro di feste a cielo aperto e fastosi banchetti
indetti
per le principali festività, come i Solstizi e gli Equinozi,
da sempre
considerati momenti importanti in cui celebrare l’avvento di
una nuova stagione
donata dalla Madre Terra.
I
più, tuttavia, erano del tutto
ignari di fronte a uno dei maggiori pregi di Medilana: in periferia,
appena
oltre le mura che custodivano la città, si ergeva
un’imponente struttura di
pietra scura che vantava, tra una ristrutturazione e l’altra,
quasi otto secoli
di storia sulle spalle. La Domus Aurea – colloquialmente
chiamata Accademia
dagli studenti – era un gigantesco capolavoro di architettura
gotica che,
protetto da antichi sigilli, ospitava l’istituto di
formazione dei futuri
protettori dell’ordine all’interno delle Sette
Terre, e, benché fosse stata
distrutta e ricostruita per ben due volte, avrebbe presto festeggiato
il suo
ottavo centenario.
Lo
si sentiva, camminando per gli
atri e i corridoi, il peso dei secoli: ne erano impregnati i muri, le
statue,
gli arazzi nei saloni. A volte si aveva quasi l’impressione
di respirare ancora
la stessa aria che avevano respirato i primi allievi di poco meno di un
millennio prima.
Ma
camminare sotto alle volte a
crociera dei bianchi soffitti era un piacere che ci si doveva godere a
cuore
leggero, come facevano gli allievi nel passare da un’aula
all’altra,
soffermandosi a fare due chiacchiere lungo i portici, o sulle panchine
del
chiostro, accanto alla fontana.
I
marmi diafani risplendevano
sotto alla luce pallida del sole che entrava a fiotti dalle arcate
ogivali,
affacciate direttamente sul parco, ora spoglio del suo lussureggiante
verde
primaverile e immerso in un deprimente grigiore dalle sfumature
spettrali. I
centenari alberi ad alto fusto protendevano i loro rami spogli verso il
cielo
come mani scheletriche, edere scure che si avviluppavano lungo i loro
tronchi
fino a inghiottirli completamente.
Era
una visuale decadente,
lontana da quelle variopinte e vivaci che prediligeva lui, eppure aveva
un che
di incantevole.
Quella
mattina, tuttavia, non c’era
tempo da dedicare al piacere personale.
Lucius
allungò il passo.
Aveva
ancora impressa nella mente
l’immagine della ragazza. Sapeva che era in buone mani e che
Angina le avrebbe
prestato le giuste cure, ma aveva comunque una certa fretta di tornare.
Marciò
spedito tra gli studenti,
alcuni dei quali gli rivolgevano saluti sorpresi. Teneva qualche corso
per gli
allievi più esperti, sporadicamente, ma solo verso la fine
dell’anno, come
propedeutico alle sessioni di esame. Non era normale che fosse
lì in quel
momento, a corsi appena iniziati.
Gli
sarebbe piaciuto poter
frequentare l’Accademia, ma di solito alla sua età
si era già in procinto di
concludere il percorso formativo e diventare dei professionisti. Dopo
una vita
come la sua, ormai era tardi per dedicarsi agli studi, e comunque,
anche senza
riconoscimenti ufficiali, tutti sapevano che ne sapeva di
più lui della maggior
parte dei maestri della Domus, e forse era anche per questo che non era
ben
visto dal corpo docenti.
–
Lucius! –
Riconobbe
la voce che lo stava
chiamando, ma fece finta di non aver sentito. Non aveva tempo per i
convenevoli
e le spiegazioni.
–
Lucius, aspetta! –
Una
mano lo afferrò per un
braccio e lo obbligò a fermarsi.
–
Sei per caso diventato sordo? –
Trattenendo
un sospiro, si voltò,
già sapendo chi si sarebbe ritrovato di fronte.
–
Ciao, Anneli. –
La
ragazza gli rivolse un sorriso
radioso, un fascio di libri stretti al petto.
–
Cosa ti porta qui? Credevo che
non ti avrei rivisto prima di… –
Si
interruppe quando si rese
conto che gli abiti di Lucius erano strappati e macchiati di sangue e
fanghiglia.
–
Cosa ti è successo? –
–
Chiamiamola un’esercitazione
fuori programma. –
–
Sei tutto intero? –
Lucius
si sforzò di sorriderle.
Anneli
gli era simpatica, ma
aveva scelto il momento sbagliato per una chiacchierata.
–
Sì. Sono venuto per vedere
Castalia. Alla Sede mi hanno detto che è qui –
Lo
sguardo nero perlaceo di
Anneli si adombrò.
–
Sei in servizio, quindi. –
–
Temo proprio di sì. –
Lei
si imbronciò.
Era
una delle allieve più brillanti
e promettenti della Domus, di una bellezza sfacciata e molto
consapevole,
tipica dei membri della sua famiglia. Alta, sottile, agile: aveva un
talento
spiccato per i combattimenti armati e la manipolazione della mente,
dote rara e
molto ricercata, soprattutto all’interno della Lega. Ma lei
voleva fare la
Liberatrice di Anime e, determinata e dotata com’era, nessuno
glielo avrebbe
mai potuto impedire. Con quattro fratelli più grandi alle
spalle – di cui tre
ancora allievi – tanto popolari per le loro
qualità accademiche quanto per la
loro avvenenza, la sua strada era praticamente, se non proprio in
discesa,
almeno in comoda pianura.
–
Credo che Castalia sia nello studio
di Belecthor. Se vuoi ti posso accompagnare. –
Lucius
la scrutò severo. Tutti gli
altri si stavano avviando verso le rispettive aule.
–
Forse è meglio che tu vada. –
Ma
demordere non era una delle
più spiccate caratteristiche dei membri della famiglia di
Anneli.
–
È successo qualcosa? –
Intuitiva,
come sempre. Fin
troppo, a volte.
–
Nulla di particolare. –
Anneli
lo guardò dritto negli
occhi con insistenza. Immediatamente Lucius avvertì un noto
formicolio alle
tempie.
La
ragazza stava tentando di
leggergli nel pensiero. Per sua sfortuna, però, lui era
nettamente superiore ai
soggetti su cui lei era abituata ad esercitarsi.
–
Non provare a usare questi
trucchetti con me! – la
ammonì, seppur
con una nota divertita.
Lei
arrossì, ma continuò a
guardarlo con impertinenza.
–
Non puoi nemmeno dirmi di cosa
si tratta? –
Lui
scosse la testa.
–
Ho paura di no. Ma comunque lo
scoprirai presto, credimi. Non è il tipo di notizia che
può restare segreta a
lungo e sono sicuro che tuo padre sarà tra i primi a venirlo
a sapere –
Quelle
parole sembrarono
placarla.
–
Su, andiamo. Ho una certa
fretta. –
Lucius
si lasciò accompagnare
allo studio del direttore.
Dovettero
attraversare tutto
l’edificio per raggiungere l’Ala Nord.
Mentre
percorrevano i lunghi
corridoi, Anneli non osò chiedergli più nulla. Si
limitò a scoccargli fugaci
sguardi indagatori, i loro passi che risuonavano nel silenzio
sepolcrale del
piano deserto, quasi sperasse di cogliere qualcosa nella sua
espressione, e non
cedette fino a che, salito l’ultimo gradino di una lunga
scalinata, Lucius si
fermò.
–
Siamo arrivati – Annunciò.
Sulla massiccia porta di legno scuro
qualche metro avanti a lui, scintillava una targa di ottone con sopra
inciso a
lettere eleganti Director Summus.
– Ora
è meglio che tu vada. –
Anneli
abbassò remissivamente lo
sguardo.
–
Quando tornerai? –
–
Non lo so. Ho come la
sensazione che avrò parecchio da fare nei prossimi giorni
–
Bussò,
sentendosi gli occhi di
Anneli puntati sulla nuca.
Gli
dispiaceva essere così
sgarbato, ma gli eventi di quella notte erano stati allarmanti e chi di
dovere
ne doveva essere informato con la massima urgenza.
–
Avanti – Disse
una voce possente oltre la porta.
Lucius
appoggiò una mano sulla
maniglia e si voltò per rivolgere ad Anneli un sorriso
saccente.
–
Non sprecare tempo a tentare di
origliare. Sai meglio di me che è inutile. –
Anneli
avvampò.
–
Bene! – esclamò,
indispettita e offesa, e gli voltò le
spalle in malo modo. – Tolgo il disturbo! –
–
La prossima volta sarò più
disponibile – le
promise Lucius,
guardandola allontanarsi come una furia, il lungo abito blu scuro che
ondeggiava
alle sue spalle. Solo allora fece caso al nastro di raso rosso che le
circondava la vita: aveva ufficialmente iniziato il suo secondo
triennio di
studi.
Le
matricole del primo triennio
non avevano nastri di riconoscimento: solo chi riusciva a passare al
secondo
livello ne guadagnava uno, rosso, e infine, per l’ultimo
triennio, agli
specializzandi ne veniva conferito uno bianco, sul quale, durante la
cerimonia
conclusiva del percorso accademico, veniva scritta la specializzazione
prescelta
dall’allievo.
Appena
Lucius entrò nello studio,
fu accolto da un tiepido aroma di the. Comodamente sprofondato nella
sua
consunta poltrona di broccato rosso, infatti, Belecthor ne stava
sorseggiando
una tazza fumante e una grassa teiera di porcellana occupava il centro
della
scrivania ingombra di scartoffie.
In
piedi accanto alla vasta
finestra sulla sinistra, invece, Castalia lo fissava austera a braccia
conserte, i suoi contorni sottili stagliati in controluce. Aveva
l’aria di chi
non aveva affatto gradito l’interruzione.
–
Lucius – Belecthor
lo salutò con una nota di sorpresa. –
Cosa ti porta da queste parti? –
Nessuno
fece caso al suo aspetto
disastrato: non era poi così raro, per lui, farsi vedere in
quelle condizioni.
Di tutto poteva lamentarsi, ma non certo di condurre una vita noiosa.
–
Buongiorno, Direttore – si
portò la mano destra chiusa al petto,
chinando appena la testa. – Castalia. –
Si
fece avanti lentamente, i suoi
passi resi felpati dagli strati di vecchi tappeti che ricoprivano la
pietra del
pavimento.
Dalla
prima volta che aveva messo
là dentro, ormai diversi anni prima, nulla era cambiato: le
stesse pareti
spoglie, la stessa libreria colma di polverosi volumi antichi, lo
stesso odore
di incenso misto all’aroma di foglie di the. Belecthor era il
tipo di uomo che
amava la routine e odiava i cambiamenti, cosa che talvolta poteva
renderlo
prevedibile, ma quando si trattava di trasmettere conoscenza, pochi
erano alla
sua altezza.
–
Domando scusa per il disturbo –
Esordì
Lucius, ossequioso. – Ho delle notizie
urgenti da riferire. –
–
Io e Angus stavamo discutendo
di questioni importanti – replicò
Castalia, sbrigativa. – Le tue notizie possono aspettare.
–
–
Mi permetto di dissentire – obiettò
lui, educato.
Lo
sguardo contrariato che
Castalia gli sferrò non servì a intimidirlo. Era
abituato a essere trattato con
sufficienza, sia da lei che da molti dei suoi uomini.
Castalia
aveva senz’altro i suoi
buoni motivi per nutrire dell’astio verso di lui, ma il
carattere incurante di
Lucius lo aveva da sempre automaticamente posto nella favorevole
condizione di
esserle condiscendente senza portarle rancori. L’eccessiva
enfasi che talvolta
metteva in questa condiscendenza, tuttavia, serviva a rammentare a chi
tentava
di dargli ordini che lui non era agli ordini di nessuno.
O quasi.
–
Castalia – intervenne
Belecthor in tono blandente. – Possiamo
tranquillamente prenderci una pausa dalle nostre noie per qualche
minuto. Sono
sicuro che sia qualcosa di importante, se ha tutta questa urgenza. Non
è vero,
Lucius? –
Lucius
gli sorrise riconoscente.
–
Assolutamente, signore. –
Angus
Belecthor gli era sempre
piaciuto. I capelli grigi e la barba incolta erano i soli segni che la
vecchiaia gli aveva imposto. Era ancora un uomo vigoroso, vivace nella
mente
quanto nello spirito, severo e irreprensibile con i ragazzi della Domus
in
merito a studi e responsabilità, ma sempre pronto a unirsi a
loro per qualche
banchetto o bevuta serale. Diversamente da altri insegnanti, che si
erano
guadagnati il rispetto a suon di minacce e punizioni, lui se lo era
semplicemente conquistato con il suo buon carattere, e anche per questo
molti
parlavano di lui che uno dei migliori Direttori che
l’Accademia avesse visto
dall’alba dei tempi.
–
E sia – cedette
Castalia. L’occhiata severa che piovve
addosso a Lucius era di una tale ostilità che parve tingerle
le iridi castane
di rosso. – Hai un minuto. –
–
Credimi, mi basteranno cinque secondi
per farti cambiare idea – promise
lui,
soave.
–
Ne hai appena sprecati tre. –
–
La Corte è stata rasa al suolo.
–
Un
momento di sconcertato
silenzio separò lo strascico della rivelazione dalla
risposta soffocata e
incredula di Castalia, improvvisamente impallidita:
–
Cosa? –
Lucius
raccontò tutto ciò che
aveva visto alla Corte, o ciò che ne restava. Si
soffermò con particolare
attenzione a parlare della ragazza e dell’uomo che aveva
tentato di portarla
via. Alla fine delle spiegazioni – che durarono molto
più di un minuto –
Castalia e Belecthor sembravano entrambi decisamente preoccupati.
–
Sei sicuro di quello che stai
dicendo? – indagò
la voce cauta di
Castalia.
–
L’ho visto con i miei occhi,
solo poche ore fa – le
assicurò. – Ed è
grazie a quel tizio che sono ridotto così, anche se alla
fine ho avuto la
meglio. –
Una
pesante cappa di incredulità
piombò sui presenti, facendoli irrimediabilmente ammutolire.
–
Ma chi oserebbe mai muovere un
simile affronto a Desmond? Chi ne avrebbe il potere? –
Lucius
comprendeva quello
sgomento. Fin dalla sua fondazione, ormai quasi mille anni prima, la
Lega aveva
combattuto per contrastare i soprusi di chi agiva senza rispetto verso
la Madre
e le sue creature, ma le forze che si era costruita la Corte nei secoli
con
ogni genere di mezzo illecito la aveva resa un nemico impossibile da
debellare
definitivamente.
–
Dovevi venire subito da me! – imprecò
Castalia.
–
Ho portato al sicuro la ragazza
– Si giustificò Lucius con calma.
–
Cosa c’è di più sicuro della
sede primaria della Lega? –
–
Suvvia, Castalia, non fare
domande di cui non vuoi sentire la risposta. –
La
donna non riuscì a celare del
tutto un moto di rabbia.
–
L’ho lasciata in mani fidate che
ne che avessero cura. Le sue condizioni erano serie. –
Castalia
scelse di non indagare
oltre. Lo squadrò con sospetto e si mise a misurare la
stanza a passi nervosi.
Lo
scoppiettio del fuoco che
ardeva del grosso camino di pietra sulla parete destra della stanza
risuonava
indisturbato da altri rumori.
–
Questa storia non mi piace. Se
questa ragazza si trovava alla Corte, poteva essere solo per due
motivi: o è una
prigioniera, o è una di loro. –
Funzionava
così, con Desmond: se
entravi nella sua dimora, o eri con lui, o eri destinato a morire.
Varcare i
cancelli della Corte era un’esperienza che nessuno poteva
dimenticare:
nell’oltrepassare la soglia che separava il cortile interno
della corte da
diverse centinaia di metri di strapiombo, si poteva quasi sentire
l’aria farsi
più fredda e rarefatta, con quell’odore di stantio
tipico dell’umidità dei
sotterranei. Ce n’era un labirinto, alla Corte, in cui
venivano rinchiusi i
prigionieri destinati alla tortura o a qualche sevizie sperimentale. I
racconti
popolari dicevano che in quelle segrete i lamenti dei prigionieri
ancora in
vita si unissero a quelli degli spettri dei defunti, ma Lucius
c’era stato, là
sotto, e tutto ciò che aveva potuto udire era stato un
incontrastato, terribile
silenzio tombale.
–
Se era una prigioniera, non era
una comune. Non aveva ferite, a parte quelle fresche riportate durante
il
crollo del castello. Ed era ben vestita. –
–
Dunque era una di loro – Concluse
Belecthor asciutto da dietro alla sua
scrivania.
–
No, io non credo. –
Lucius
lasciò cadere una breve
pausa di silenzio, durante il quale il Direttore lo studiò a
lungo negli occhi,
il viso tirato da un’evidente preoccupazione, mentre Castalia
continuava a
vagare per la stanza, ansiosa.
–
Il suo aspetto è strano. –
Castalia
si fermò.
–
In che senso strano? –
L’immagine
del volto cereo della
giovane riemerse vivido nella mente di Lucius. Rivide la sua
espressione
disperata, il velo di morte che già aveva iniziato a rubare
luce alla sua
anima.
–
Ha i capelli rossi. Di un rosso
forte, come il sangue. E i suoi occhi… – un brivido gli percorse la
spina dorsale nel
ricordare quello sguardo disperato. – Non ho mai visto un
verde così. –
Castalia
e Belecthor si
scambiarono un’occhiata dubbiosa.
–
Pensavo che forse potrebbe
essere il frutto dell’ennesimo esperimento di Desmond
– azzardò
Lucius. Era stata la sua prima
ipotesi: un incrocio tra un demone e una ninfa.
La
mandibola squadrata di
Castalia si serrò, enfatizzando lo stupore sul suo viso.
–
È possibile – convenne
Belecthor, lisciandosi pensosamente
la barba ispida – Probabile, anzi, vista la
peculiarità di questa giovane. –
–
Chiunque fosse l’uomo che
voleva rapirla, potrebbe essere anche il responsabile di quanto
accaduto alla
Corte – fece notare Lucius.
–
Se così fosse, significa che ha
un nemico in comune con noi, e ci ha indubbiamente fatto un enorme
favore. Il
che mi porta a pormi due domande – ragionò
Belecthor – Dobbiamo considerarlo
alleato o avversario? E, soprattutto, cosa c’è di
così allettante in questa
giovane per scomodare un tale potere per averla? –
–
Per ucciderla – precisò Lucius.
Non
era rimasta che un’ultima
goccia di vita, nel corpo della ragazza, quando l’aveva
trovata, e quella goccia
pendeva da un filo così sottile che era stato un rischio
anche solo toccarla.
Tutto ciò che ci si poteva augurare era che le
abilità di Venena come curatrice
fossero tanto invidiabili da riuscire a restituire sufficienti energie
a
un’anima già sfiorente.
–
Forse era solo una testimone
scomoda – ipotizzò Castalia.
–
Non è da escludere. –
–
Devo mandare immediatamente una
squadra a fare un sopralluogo. Dobbiamo capire cosa diavolo sta
succedendo e
soprattutto chi c’è dietro. Lucius, hai detto che
l’uomo con cui ti sei battuto
portava uno stemm.a –
–
Sì. Una specie di fiamma a tre
punte divisa nel mezzo. –
–
Ti dice niente, Angus? –
Belecthor
fece un mesto cenno di
diniego.
Con
un sospiro che denunciava
apertamente il suo disappunto, Castalia tornò a considerare
il discorso
lasciato in sospeso:
–
Sapresti farmene uno schizzo? –
–
Certo. –
Lucius
si guardò intorno alla
ricerca di carta e penna e vide che Belecthor già gli stava
porgendo un foglio
e la sua elegante penna d’oca personale.
Non
fu difficile tracciare il
simbolo che aveva visto: era lineare e semplice, di forma perfettamente
circolare. Somigliava vagamente a un tulipano stilizzato.
–
Ecco. –
Allungò
il foglio a Castalia, la
quale glielo strappò praticamente di mano per osservarlo da
vicino. Le rughe
che le incresparono la fronte, tuttavia, erano
l’inequivocabile segno che quel
disegno non le dicesse alcunché.
–
Farò fare delle ricerche – Dichiarò
infine. Afferrò il proprio mantello
dalla poltrona di fronte alla scrivania e se lo buttò
addosso. – Ora devo
tornare alla Sede, non c’è tempo da perdere.
–
Si
avviò verso la porta e la
aprì, voltandosi indietro appena prima di uscire:
–
Voglio parlare con quella
ragazza, Lucius. Portala da me. –
Un
fare imperioso ai limiti della
brutalità: una pessima abitudine che Lucius non aveva mai
tollerato facilmente.
–
Io lavoro per Soile, Castalia,
non per te – le
fece notare amabilmente.
– Accetto ordini solo da lei. Ma, se ci tieni tanto, posso
tranquillamente concederti
un favore personale. –
Un’ombra
oltraggiata balenò sul
volto della donna, rughe sottili le solcarono la fronte e le labbra, ma
non
replicò.
–
Ti sarei grata se tu mi facessi
questo favore – aggiunse
semplicemente a
denti stretti.
Lucius
pensò a quella poveretta,
all’assoluta inerzia con cui si era arresa tra le sue
braccia. Qualunque cosa
si aspettasse Castalia da lei, avrebbe dovuto attendere.
–
L’ho lasciata priva di
conoscenza soltanto poche ore fa – puntualizzò,
lasciando ben intendere quanto
fosse irragionevole esigere di avere un colloquio con una persona
appena
sfuggita alla mano della morte.
Belecthor
si schiarì
significativamente la gola, dando segno di aver perfettamente colto il
messaggio, ma Castalia, ormai sulla difensiva, fu irremovibile:
–
Allora la voglio alla Sede non
appena sarà in grado di stare in piedi. Sono stata chiara?
–
Lucius
ritenne che fosse meglio
non ribattere. Si limitò a piegare appena la testa in
avanti, assecondandola.
–
Chiarissima. –
Soddisfatta,
Castalia rivolse un
frettoloso cenno di saluto a Belecthor, poi scomparve oltre la porta,
che
sbatté alle sue spalle.
Uscita
lei, la stanza sembrò
ingrandirsi e illuminarsi, come se i muri avessero fatto un passo
indietro e il
fuoco di fosse spontaneamente attizzato. La natura puntigliosa e
nevrotica di
Castalia la rendeva un ottimo comandante, sul campo, ma una presenza
decisamente ingombrante con cui condividere uno spazio così
limitato, a maggior
ragione se non si rientrava nelle sue grazie.
Eufemisticamente
parlando.
–
Lucius. –
La
voce pacifica di Belecthor lo
richiamò dalle sue riflessioni.
–
Castalia pecca di presunzione,
nei tuoi confronti, ma non è cattiva. So che non
è alla Lega che la tua lealtà
è consacrata, ma, vista la situazione, forse dovresti
dimostrarti più
collaborativo. –
–
Io sono collaborativo – protestò Lucius
con veemenza. – Con chi merita
la mia collaborazione. –
Sospirando,
Belecthor allungò una
mano verso la teiera e si riempì una tazza.
–
Le responsabilità del
Coordinatore Generale sono alte, ragazzo. Non sottovalutare la
difficoltà della
sua posizione. –
Lucius
si passò una mano sul
viso. Era stanco, avrebbe voluto riposare, godersi un bagno caldo, ma
non c’era
tempo. Doveva tornare da Angina, prima. Forse da lei avrebbe avuto modo
di
darsi una ripulita.
–
Vuoi un consiglio? – gli
disse Belecthor, sorseggiando il suo the
con una calma ostentata – Va’ dalla tua trovatella,
assicurati che stia bene e,
se così è, portala al più presto da
Castalia. Ho la sensazione che ci aspettino
tempi duri. –
Si
sentiva ancora il tepore
dell’acqua, addosso. La pelle, ora profumata di oli e
unguenti curativi, era
più morbida e le ferite erano meno infiammate.
L’infuso di melissa e calendula che
Venena le aveva tamponato sui tagli e sulle abrasioni aveva
senz’altro sortito
il suo effetto.
I
suoi piedi nudi poggiavano su
un enorme tappeto che occupava gran parte del pavimento di roccia.
Angina
l’aveva portata in una caverna immensa dalle chiare pareti
calcaree, il
soffitto alto una ventina di braccia, e con un semplice gesto della sua
mano
aveva acceso una lunga serie di torce che avevano immediatamente
rischiarato
l’ambiente, spalancando così davanti agli occhi di
Regan una visuale
incredibile: l’antro ospitava delle sorgenti sotterranee, che
si raccoglievano
in piccoli laghetti naturali. In alcuni l’acqua era uno
specchio immobile e
limpido, in altri la superficie era opaca e sorvolata da densi strati
di
vapore, in altri ancora piccole bolle d’aria scoppiettavano
ritmicamente,
emergendo dal fondo, e in qualcuna precipitavano vivaci zampilli
cristallini.
Dopo
un ricco pranzo a base di
carne arrostita e verdure crude, Angina e Venena avevano aiutato Regan
a
spogliarsi e la avevano fatta immergere in una polla di acqua
meravigliosamente
calda, in cui lei si era abbandonata con immenso sollievo. Era stato un
toccasana per le sue articolazioni indolenzite.
Con
le lozioni che Venena le
aveva consegnato, si era lavata, togliendosi di dosso polvere e sangue
incrostato, domandandosi nel frattempo come avesse fatto a ridursi in
quello
stato. Da quel che aveva capito, i suoi ospiti si aspettavano che fosse
lei a
dare delle risposte, quando invece tutto ciò che aveva da
offrire loro erano
soltanto altre inutili domande. Aveva spiegato la completa assenza di
ricordi
nella sua testa e Angina sembrava averle creduto; Venena, invece,
l’aveva
guardata in tralice e aveva contratto severamente la mascella. Regan
aveva già
capito che non si sarebbero mai piaciute, loro due.
Ora
che si era asciugata e
sistemata, se non altro, si sentiva più in forze. Le era
stato dato qualcosa da
mettersi, ma lei aveva indossato con riluttanza sia il corsetto sopra
la
camiciola, sia i calzoni neri: non aveva le curve di Angina e su di lei
quei
vestiti facevano un ben povero effetto. Continuava a sistemarseli
addosso, ad
aggiustarli cercando di migliorare qualcosa, ma non c’era
verso: il suo era un
corpo ancora acerbo, ben lungi da quello procace di una donna adulta.
–
Tra un paio d’anni li riempirai
meglio – Le
disse Angina, divertita,
intenta a stringerle i lacci sulla schiena. Regan suppose che fosse la
prima
volta che il suo busto veniva costretto in un corsetto, visto il
disagio che
avvertiva nel muoversi e nel respirare.
Aveva
visto l’abito che le
avevano tolto la sera prima: una nuvola di seta, pizzi e merletti in
cui non si
era minimamente saputa immedesimare. Al confronto, gli abiti di Angina
le
sembravano fatti su misura per lei.
–
Vieni qui, bambolina. –
Angina
le fece cenno di
raggiungerla, indicandole uno sgabello di legno accanto a un tavolo in
un
angolo su cui Venena stava trafficando con una serie di boccette.
C’erano anche
dei teli puliti, piegati con cura, e un cestino pieno di pezzi di
sapone.
Regan
obbedì e si mise a sedere.
Angina
prese una spazzola e
iniziò a passargliela tra i capelli, per tutta la loro
lunghezza. Regan chiuse
gli occhi. Era una sensazione piacevole, con uno straordinario potere
calmante.
–
Hai dei capelli meravigliosi. Erano
anni che non ne vedevo di così lunghi e lucenti. –
–
I tuoi sono belli. –
–
I miei sono capelli da
guerriera – puntualizzò Angina. – Tutta
un’altra cosa. –
–
Che cos’hanno di particolare i
capelli di una guerriera? –
–
Innanzitutto devono essere più
corti dei tuoi, e puoi scommettere che non saranno mai così
lustri. E si
tengono quasi sempre legati, per non impacciare i movimenti.
–
Regan
cercò di immaginarsi con
una spada in mano: non ci riuscì.
–
Non credo di essere mai stata
una guerriera. –
Angina
rise.
–
Con queste mani da principessina,
piccola, al massimo potevi esserlo nei tuoi sogni. –
Regan
restò a fissarsi i palmi
adagiati in grembo, mentre Angina riprendeva a pettinarla: le sue mani
erano
lisce, bianche, morbide al tatto. Non portavano segni di fatica. Anzi,
non
portavano segni di alcun tipo.
–
Prima o poi la tua memoria
ritornerà – esordì
Angina, come se le
avesse letto nel pensiero. – Fino ad allora, evita di passare
ogni momento a
sforzarti di ricordare. Nessuno ti restituisce il tempo perso.
–
Non
sapendo cosa dire, Regan
tacque.
Non
aveva idea di cosa sarebbe
stato di lei, adesso. Senza un passato, senza qualcosa da cui partire,
non
capiva in che modo potesse sperare di andare avanti.
–
Mi chiedo se il tuo cervello
non abbia deciso di privarti della memoria per il tuo bene – rifletté Angina a
un tratto.
Regan
tacque ancora.
Si
trattava di un pensiero che
aveva sfiorato anche lei: stando a quanto le avevano raccontato, il
luogo in
cui era stata trovata non era esattamente un’oasi di
felicità e qualcosa le
diceva che c’era un qualche fondamento in quella semplice
supposizione.
–
Mi spaventa non sapere chi sono
– mormorò.
–
Un cumulo di giorni perduti non
costituiscono la tua essenza – le
disse
Angina. – L’impronta che hanno
lasciato
è ancora la stessa dentro di te. Tu sei ancora tu, anche se
non ricordi
attraverso quali esperienze lo sei diventata. –
Regan
ascoltò il suono di quelle
parole che si perdeva nella vastità della camera. Le piacque
il tono deciso e
rassicurante con cui erano state pronunciate e ancora di più
le piacque il loro
significato. Provò un’improvvisa gratitudine verso
quella donna.
–
Io qui ho finito – Annunciò
Venena. Aveva raccolto tutte le
ampolle sul vassoio, lasciando solo un calice scuro sul tavolo.
–
Lì dentro c’è un decotto che
dovresti bere – disse
a Regan. – Aiuterà
il tuo corpo a rimettersi in forze. –
Regan
occhieggiò con poco
entusiasmo l’oggetto in questione. Nonostante sapesse di
averne bisogno, non le
andava proprio di bere quella roba.
–
Grazie. –
Venena
non sprecò inutili
cerimonie: cucì insieme due parole di saluto, poi prese la
sua roba e uscì.
–
Devi scusarla, non ama molto la
presenza degli estranei – borbottò
Angina.
A
giudicare dal suo
comportamento, Venena non doveva amare molto la presenza delle persone
in
generale.
–
Posso capirla. –
–
Spero che con questo tu non
voglia dire che ti senti a disagio, in questo momento. –
–
Assolutamente no! Anzi, penso
di dovervi dei ringraziamenti. Siete stata fin troppo buona con me.
–
–
Prima di tutto, ti vieto
categoricamente di rivolgerti a me dandomi del Voi. In secondo luogo,
questo
posto ha sempre accolto molti randagi. Non sei la prima né
sarai l’ultima,
credimi. –
–
Che cosa fate, qui,
esattamente? –
Scorse
un sorriso che si formava
sulle labbra di Angina, riflesso sulla superficie metallica del calice.
–
Siamo quello che certa gente
definirebbe fuorilegge, ma siamo di quelli buoni. Non facciamo del male
a
nessuno. A meno che non se lo meriti. –
Era
calata una tonalità cupa su
quell’ultima frase, in cui Regan riuscì a
percepire amarezza e rancore
represso.
–
Mi dai il permesso di sistemarteli
come si deve?– le
chiese Angina,
passandole una mano tra i capelli.
–
Sì, certo – Rispose
Regan, incerta.
Passarono
qualche minuto a
chiacchierare. Angina le raccontò meglio della propria
attività e nel frattempo
intrecciava grosse ciocche con gesti esperti, separando e tirando,
incrociandole tra loro. Quando ebbe finito, fece alzare Regan e la fece
specchiare in una delle polle di acqua limpida e immobile.
–
Mi sta bene – Si
stupì lei, osservando la lunga treccia che
dalla nuca le scorreva giù fino alla vita.
–
Non solo ti sta bene, ma così
starai molto più comoda. –
Avrebbe
dovuto iniziare ad
acquisire confidenza con il proprio aspetto. Non sapeva se si piacesse
o meno,
ma i suoi lineamenti iniziavano perlomeno ad avere un vago sentore di
familiarità.
–
È davvero strano guardare il
proprio riflesso e vedere un estraneo – rifletté
a voce alta.
Prima
che potesse aggiungere altro,
qualcuno bussò alla porta: tre colpi decisi che
riecheggiarono in tutta la
grotta.
–
Avanti. –
La
porta si spalancò con uno
scricchiolio. Regan si aspettava che fosse Venena, tornata a prendere
qualcosa,
invece si trattava di un uomo. O meglio, un ragazzo, perché
non poteva essere tanto
più grande di lei.
–
Buongiorno, signore – Salutò
con brio il nuovo arrivato.
Man
mano che si avvicinava, Regan
distinse meglio le sue fattezze. Era alto, vestito di nero, con un viso
attraente e due occhi azzurri come il ghiaccio che la guardavano
curiosi. Gli
stessi occhi, ne era sicura, che le erano apparsi nella mente appena
risvegliata.
Il
suo passo era lento e felpato.
C’era qualcosa di felino in quell’andatura, nel
modo in cui le lunghe gambe si
succedevano l’una all’altra in brevi falcate
disinvolte, l’orlo del pastrano
che gli lambiva le caviglie.
Solo
quando le fu praticamente di
fronte, Regan si accorse di quanto fosse malconcio: tra vestiti
strappati in un
paio di punti e macchie di fango e sangue, sembrava appena uscito da un
nubifragio.
–
Lucius! – esclamò
la voce suadente di Angina, come nulla
fosse. – Hai fatto presto .–
Il
ragazzo sorrise, e il suo
volto si illuminò.
–
Noto con piacere che la nostra
ospite sta molto meglio – disse,
strizzando un occhio a Regan, la quale a stento se ne accorse, intenta
com’era
a rimirarlo. Il suo timbro era ammaliante, un manto di velluto scuro e
avvolgente dalle sfumature ridenti.
Fecero
una rapida presentazione.
–
Venena ha fatto una delle sue
magie e ce l’ha rimessa in sesto. Hai visto
quant’è graziosa senza sporcizia
addosso? –
Regan
avvertì lo sguardo di Lucius
vagare su di sé.
–
Molto graziosa, sì – constatò,
compiaciuto. – Begli occhi davvero, cerbiattina. –
–
Non farti incantare dalle sue
moine, Regan: il nostro Lucius ha un confesso debole per le belle donne
– cinguettò
Angina – E viceversa naturalmente. –
Lucius
le rivolse un sorrisino
beffardo e si sfilò il cappotto. Lo lasciò cadere
distrattamente a terra con un
tonfo sordo, poi iniziò ad aprire anche la camicia, e un
attimo dopo anche
quella fu a terra. Rimase solo una sottilissima catenina
d’argento a cingergli
il collo, una stella a sette punte con un cuore di rubino a fare da
pendente.
Regan
fissò a bocca aperta il
torso nudo del ragazzo: non sembrava così muscoloso, da
vestito. Le spalle
erano possenti, muscoli sviluppati disegnavano linee nette sul torace e
sulla
schiena, tra le scapole, lungo le braccia. Ma non era quello a
sconvolgere
Regan. La pelle chiara di Lucius sembrava una tela aggredita da un
artista
impazzito: tra rari tagli freschi – uno particolarmente
brutto gli sferzava il
fianco – e qualche brutto livido, cicatrici grandi e piccole
deturpavano
l’altrimenti perfetto incarnato, alcune lunghe e sottili come
fili d’erba,
altre di forme strane, frastagliate, altre ancora brevi e nette,
bianche e
lucide. Ce n’era una serie, sulla sua spalla sinistra, che
formava una collana
di punti allineati in una stretta curva simmetrica. Un fisico di una
bellezza
statuaria imbrattato da costellazioni di marchi indelebili.
Lo
fissò senza fiato, rapita da
una fascinazione perversa che dal nulla le stava nascendo dentro.
–
Non farti turbare da queste – Le
disse Lucius tranquillo, mentre le sue mani
sfilavano gli stivali dai suoi piedi. – Sono solo vecchi
graffi. –
–
Non mi turbano – disse
Regan con altrettanta tranquillità. – Sono
poetiche. –
E
lo erano. Tanto fini e
armoniose, nel loro insieme, da sembrare disegni volontari, tracciati
da mani consapevoli
per decorare e impreziosire, piuttosto che deturpare. Era forte e
vicino al
morboso il fascino che quei segni esercitavano su di lei: riusciva
quasi a
vedere il sangue che aveva lambito ogni cicatrice quando ancora era
stata un taglio
aperto, e ne era ipnotizzata.
–
Poetiche – Lucius
soppesò quella singola parola tra sé,
strascicandola nel passarsela tra le labbra. – Nessuno aveva
mai fatto un
complimento così lusinghiero alle mie cicatrici. –
–
Gli servono a enfatizzare la
sua irresistibile reputazione da cattivo ragazzo – Scherzò Angina.
Lo sguardo che ebbe per Lucius
era di pura adorazione.
–
Non sono un cattivo ragazzo –
si difese lui.
– Ho solo cattive
abitudini. –
–
Ecco perché ti ritrovi questi
bei ricami sparsi su tutto il corpo. –
–
Non hai sentito? – Lucius
enfatizzò un tono vanitoso. – Sono
poetici! –
Poi,
come nulla fosse, si slacciò
la cinta e abbassò i pantaloni, rimanendo quasi del tutto
nudo, ad eccezione di
un paio di corte brache di tela. Regan si domandò se, vista
la situazione, non
si sarebbe dovuta in qualche modo sentire in imbarazzo.
Non
le fu ben chiaro il perché
lui si stesse spogliando – e con tanta disorientante
disinvoltura – fino a che
non lo vide voltarle le spalle e tuffarsi dentro uno dei laghetti di
acqua fredda.
Quando
riemerse, i capelli neri
gli aderivano al viso e la sua faccia era decisamente soddisfatta.
–
Mi ci voleva proprio – sospirò,
scostandosi i capelli all’indietro. –
Hey, Gin, passami un po’ di sapone! –
Senza
scomporsi, Angina afferrò
uno dei blocchi profumati nel cestino e glielo lanciò.
Lucius fece sfoggio dei
suoi ottimi riflessi nel prenderlo al volo con una mano sola.
–
Grazie. –
Regan
sapeva che non era normale
che un uomo si esponesse così di fronte a una donna. Non era
imbarazzata, ma era
sorpresa dall’incuranza che sia Lucius che Angina mostravano:
nonostante lei
fosse ben più matura di lui e lui fosse praticamente nudo,
erano perfettamente
a loro agio.
–
Era un po’ che non ti facevi
qualche ricamo nuovo – lo
prese in giro
Angina, sedendosi sul bordo roccioso della pozza. –
Cominciavo a temere che tu avessi
perso mordente. –
Lucius
rise, crogiolandosi
nell’acqua.
–
Mai e poi mai. –
–
Una volta venivi spesso a
trovarmi – laconica, Angina affondò le dita tra i
capelli bagnati di Lucius, che
aveva appoggiato ruffiano la testa al suo ginocchio. – Adesso
la Luce del Nord ti
tiene troppo lontano da me. –
L’amaro
della nostalgia mitigato
dalla dolcezza dell’affetto: sapeva di zucchero e fiele quel
sussurro che
suonava così strano sulla voce graffiante di Angina.
Lucius
si crogiolò come una
bambino nelle sue carezze, offrendole il viso come un cagnolino in
cerca di
coccole.
Regan
non era sicura della natura
del loro rapporto: a tratti si provocavano con la malizia di due
amanti, a
tratti si scambiavano tenerezze da madre e figlio, a tratti si
burlavano l’uno
dell’altra come cari amici di vecchia data. Forse,
pensò Regan, era tutte
quante quelle cose.
–
Sei il solito marmocchio
lascivo di sempre – ridacchiò Angina, mentre lo
spingeva via.
Per
tutta risposta, lui la
schizzò con uno spruzzo d’acqua.
–
Ho incontrato Venena, poco fa –
disse poi,
appoggiandosi con un gomito fuori
dalla vasca, guardando verso Regan. – Mi ha detto del tuo
piccolo inconveniente.
–
Lei
non comprese subito a cosa si
riferisse.
–
Oh, sì. La mia memoria…–
–
Non ricordi altro che il tuo
nome? –
–
Purtroppo no. –
Uno
sbuffo simile a una risata
sfuggì dalle labbra di Lucius.
–
Sarà divertente doverlo
spiegare a Castalia. –
–
Chi è Castalia? –
Lui
sventolò la mano come se la
cosa fosse del tutto priva della benché minima importanza.
–
Una tizia a cui faccio favori
nel tempo libero. –
Angina
sollevò un sopracciglio
con fare ironico, ma non disse niente.
–
Regan – Lucius si fece
improvvisamente più serio. – So che sei stanca e,
date le circostanze, credo
che sarà anche inutile, ma ci sono delle persone che
vorrebbero parlare con te
di quello che è successo la notte scorsa. –
Lei
si morse il labbro,
titubante.
–
Di che aiuto vi potrei essere? –
Le
dava un brivido strano pensare
di uscire, andare via di lì. Si sentiva al sicuro, in quel
luogo sotterraneo,
protetta dalla terra, ed era ancora troppo scossa per sentirsela di
uscire.
–
Sai, si tratta di persone molto
potenti – le
spiegò Lucius. – Che forse
potrebbero aiutarti a recuperare i tuoi ricordi. –
Le sarebbe dovuta sembrare una buona notizia. Lo era, in
fondo.
–
Ci sono persone più potenti di
lei che hanno la correttezza di non abusare della propria influenza
– sbuffò
Angina. – Qualcuno dovrebbe farglielo
lo notare, qualche volta. –
–
Io lo faccio, di tanto in tanto
– affermò
Lucius. – È una soddisfazione
di raro piacere. Ma temo che questo non le farà cambiare
idea sul colloquio che
si aspetta di avere con la nostra piccola ospite. –
–
Non fa niente – Minimizzò
Regan. Si sentiva già abbastanza in
colpa per essere un tale disturbo per quella gente così
disponibile.
Cercò
lo sguardo di Lucius e lo
ritrovò tra sottili ciuffi di capelli zuppi
d’acqua.
–
Verrò con te da questa
Castalia, se è necessario. –
Il
modo in cui lui le sorrise le
fece capire che aveva apprezzato la risposta.
Era
fuori di sé.
Gli
era inconcepibile che la
storica dimora della Corte fosse andata distrutta come un castello di
sabbia in
una mareggiata.
Ne
osservava i resti da lontano,
assieme a un manipolo dei suoi, i pochi sopravvissuti, e sentiva la
rabbia
ribollirgli nelle vene. Aveva solo una vaga idea di cosa potesse essere
successo, ma si rifiutava di crederci. E, d’altro canto, lo
aveva visto con i
suoi stessi occhi lo sprigionarsi di quell’immenso potere.
L’angelo
era morto, e le ripercussioni
che la sua morte aveva avuto erano state inimmaginabili.
L’ultima
cosa che riusciva a
ricordare erano le proprie dita che assieme alla lama del pugnale
affondavano
tra le costole del giovane e un grido di dolore che si sprigionava
nell’aria.
Poi tutto aveva cominciato a tremare e l’intero castello,
prima che chiunque si
potesse rendere conto di quel che stava accadendo, si era accasciato su
sé
stesso, esattamente come aveva fatto l’angelo tra le sue
braccia, esanime. Da
lì in poi tutto era nebbia, fino al momento in cui si era
risvegliato nel buio,
imprigionato sotto a una lastra di pietra che lo aveva protetto.
Ne
era uscito a fatica, risalendo
tra blocchi di pietra che erano rimasti impregnati del suo sangue, e
quando era
emerso in superficie non aveva trovato altro che un’immensa
distesa di detriti
e corpi morti. E la ragazza, forse, era ancora da qualche parte
là sotto.
–
Mio signore. –
Tornò
in sé, abbandonando
riflessioni gravide di rabbia, risentimento e frustrazione.
Al
suo fianco, Isabel attendeva
che lui avesse un qualunque tipo di reazione di fronte a ciò
che stava
osservando da ormai diversi minuti, immerso in un silenzio sconvolto.
–
Mio signore, dovremmo
allontanarci da qui. –
La
voce di Isabel era timorosa.
Lo guardava devota, la freschezza della giovinezza passata ancora
abbastanza
vivida da renderla luminosa sotto all’incombere della luna.
Boccoli di mogano,
occhi di ametista, pelle di rosa canina: una mezzaninfa di
straordinarie
capacità magiche. La aveva scelta per quello.
Lei
era stata lontana dalla
Corte, al momento della tragedia. Lei e i tre uomini che erano
rientrati con
lei lo avevano soccorso e avevano aiutato lui e i sette superstiti
– sulle
circa cento persone che abitavano regolarmente la Corte – a
rifugiarsi nella
foresta.
Se
n’erano andati appena in
tempo. Solo qualche minuto più tardi avevano scorto in
lontananza il
sopraggiungere di alcune persone che non avevano avuto
difficoltà a riconoscere
come membri della Lega.
–
Siete ferito, avete bisogno di
cure. –
–
Isabel ha ragione, mio signore
– intervenne Galvorn ansimante, reggendosi una spalla
tumefatta. Era un angelo
grande e grosso, ma l’offesa subita nell’incidente
lo aveva incurvato su sé
stesso, riducendolo a una mole ingobbita
nell’impenetrabilità della notte.
–
Non possiamo fare nulla. Gli
uomini della Lega sorvegliano la zona. Non siamo in grado di
affrontarli. –
Suo
malgrado, lui dovette
ammettere che avevano ragione loro. Non avevano scelta: dovevano andare
via,
rifugiarsi il più lontano possibile da lì e
riorganizzare interamente la
congrega. I caduti di quella notte non erano che una piccola parte dei
suoi
accoliti, ma, caduta la Corte, ci voleva tempo per ricostituire dal
nulla il
punto nevralgico cui faceva capo ogni cosa.
–
Samael è stato avvertito? –
–
Ci attende alle Cinque Torri. –
Avevano
diversi giorni di viaggio
ad attenderli, e non sarebbe stato semplice.
Gettò
un ultimo sguardo al picco
in lontananza, indugiando sui miseri resti di quella che per secoli era
stata
la sua gloriosa dimora: si era tutto dissolto in una distesa di detriti
e
polvere lavati dalla pioggia. Antichi tesori, preziosi esperimenti,
libri rari
raccolti in tanti anni di assennate ricerche… tutto perduto.
La
Lega ci avrebbe messo poco a
disseppellire dalle rovine ogni cosa e appropriarsene senza alcuno
scrupolo, e
lui non avrebbe potuto fermarli.
Giurò
a sé stesso che avrebbe
avuto la giusta vendetta, a suo tempo.
–
Andiamo – ordinò, e con un
fruscio del mantello voltò le spalle e tutto ciò
che di più prezioso avesse mai
posseduto, lasciandosi inghiottire nel folto della foresta.
Angina
aveva fatto portare dei
vestiti puliti per Lucius. Dovevano appartenere a lui,
perché erano pressoché
identici agli altri e gli calzavano alla perfezione.
Regan
non aveva nulla da prendere
con sé, nulla che le appartenesse. Tutto ciò che
aveva posseduto era rimasto
sepolto in un passato di cui non era più padrona.
Angina
le regalò un mantello
meraviglioso: di pesante broccato nero, con alamari d’argento
e tortuosi ricami
simili a viticci che si aggrovigliavano sinuosi lungo il bordo. Teneva
molto
caldo, forse fin troppo.
–
Vedrò di rubare qualcos’altro
per la prossima volta che torni a trovarmi – Le disse, lisciandole il
mantello sulle
spalle.
–
Spero di tornare presto, allora.
–
Angina
li accompagnò all’uscita.
La via fu lunga, un interminabile intrico di gallerie labirintiche in
cui era
fin troppo semplice smarrire l’orientamento, ma in cui lei e
Lucius si
spostavano con sicurezza.
–
Si è mai perso qualcuno, qui
dentro?– chiese
Regan, mentre
sorpassavano una cavità zeppa di ragnatele.
Il
beffardo sogghigno di Angina
bastò di per sé a risponderle.
–
Oh, è capitato. I pochi che
riescono a intrufolarsi qui dentro senza il mio esplicito permesso
difficilmente riescono ad andare lontano. O meglio, magari ci arrivano,
ma non
è un lontano molto ospitale. –
–
Leggendo tra le righe, ci sono
individui che si sono persi nei cunicoli sbagliati e non hanno fatto
più
ritorno – specificò
Lucius allegro.
–
Davvero?–
Angina
scrollò le spalle con
indifferenza.
–
Ho già abbastanza da fare a
badare ai miei uomini, non posso certo perdere tempo a preoccuparmi
degli
idioti che si intrufolano in casa mia sperando di farla franca. E poi
sarà
successo al massimo un paio di volte. –
–
Da quando ci sei tu – precisò
Lucius. – La sua famiglia vive qui da
generazioni – spiegò
poi a Regan. – Certi
racconti di suo nonno mi hanno affascinato quando ero un ragazzino:
antiche
sette segrete hanno dimorato qua sotto, secoli fa. Alcuni superstiziosi
credono
ancora che la foresta sia infestata da spiriti malvagi. –
Una
manciata di minuti più tardi
erano arrivati in fondo a quel che sembrava un vicolo cieco: davanti a
loro si
parava un solido muro di roccia muschiata.
Senza
pensarci, Angina vi
appoggiò una mano in un punto che sembrava del tutto casuale
e la premette
dolcemente. Con un sonoro crepitio che fece temere a Regan che la
parete si
stesse spezzando, a poco a poco la pietra si aprì, andando a
formare un’arcata
che si affacciava direttamente su una rigogliosa esplosione di verde
scuro, che
colpì gli occhi delicati di Regan con tanta meraviglia e
violenza da ferirli,
mentre lei si rendeva conto che, per qualche assurdo motivo, le mancava
il
respiro.
Il
mondo si spalancava davanti a
lei invitandola a entrare.
La
sua curiosità agì là dove lo
stupore aveva inibito i muscoli e la sospinse, un passo dopo
l’altro, ad
avventurarsi in quello spazio così colorato e inondato di
sole.
Le
sembrò di vacillare sotto al
peso di quella visuale, consapevole che si trattasse soltanto di un
ordinario
scorcio di montagna, e persino piuttosto desolato, data la stagione.
Era
un fitto bosco di conifere
che emanava un sottile profumo di resina, invitando a chiudere gli
occhi e
sfruttare tutti gli altri sensi, e lasciarsi rapire dalle carezze del
vento,
dal suo fruscio tra le fronde, dalla morbidezza surreale dei muschi che
ricoprivano i massi chiari e i tronchi degli alberi caduti. Erba alta e
folta faceva
da tappeto sotto ai piedi, fresca e tenera al tatto, e qua e
là chiazze di neve
cristallizzata – a terra e sugli alberi –
testimoniavano il passaggio di
recenti imbiancate. Benché la temperatura fosse
effettivamente piuttosto
rigida, Regan non risentiva del freddo; inspirava anzi con estremo
piacere
l’aria frizzante che le riempiva i polmoni e le mandava in
tutto il corpo
intense scariche di energia pura.
Il
semplice essere lì la stava
facendo sentire di gran lunga meglio rispetto a quanto non avesse fatto
la
pozione di Venena. Era come sentirsi tutt’uno con il bosco
che si distendeva
attorno a lei.
–
Noto con piacere che l’aria
aperta sta sortendo un effetto positivo su di te. –
Regan
si appoggiò entusiasta a un
enorme abete, il naso all’insù.
–
Mi sento come se non avessi mai
respirato prima d’ora. –
Angina,
abbandonata con una
spalla contro la cornice dell’arco, si portò una
mano al fianco, ridendo.
–
O come se non avessi mai visto
un albero. –
Regan
non raccolse la battuta.
C’era una consistente parte di lei che aveva voglia di
scappare e correre fino
allo sfinimento tra le piante, e ce n’era un’altra,
più esigua ma molto forte,
che era soggiogata da un inspiegabile timore, quasi temesse che le sue
gambe
non conoscessero le dinamiche di una corsa a perdifiato.
–
Sarà il caso che ci sbrighiamo
– le disse Lucius. – Prima parlerai con Castalia,
prima te ne libererai. –
Un
grosso corvo era come apparso
dal nulla e gli si era postato sulla spalla. Lucius gli sorrideva,
grattandogli
la testa. Nonostante il suo corpo fosse quello perfettamente maturo e
sviluppato di un uomo fatto, il suo sorriso era candido e trasparente
come cristalli
di zucchero, sincero come quello di un bambino.
–
Lui è Rok – disse sa Regan,
mentre il rapace gli zampettava lungo il braccio, becchettando
affettuosamente
il pesante tessuto della manica. – Il mio compagno di
avventure di sempre. –
Rok
studiò Regan con la testa
girata di lato, un solo occhio a vagare su di lei con fare
inquisitorio, quasi
dovesse decidere se degnarla o meno della propria attenzione. Alla
fine, dopo
una lunga e attenta valutazione, l’animale arruffò
pomposamente le penne nere
come l’inchiostro ed emise una gracchiata decisiva.
Lucius
rise sommessamente,
carezzandolo con gentilezza.
–
Gli piaci. –
Per fortuna, pensò Regan, che
aveva avuto la singolare impressione
che il corvo fosse riuscito a scrutarla più a fondo di
quanto il semplice dono
della vista non consentisse.
Lei
e Lucius salutarono Angina
con un ultimo abbraccio e qualche raccomandazione generale.
–
Lucius, abbi cura di lei,
intesi? –
–
Sissignora – Promise
lui, con un cenno marziale.
–
Ragazzina – Angina posò le mani
ai lati del collo di Regan e ammiccò. – Sei in
ottime mani. Resta con questo
buzzurro e sarai al sicuro. –
–
Oh, non dire così, mi fai
arrossire! – ciarlò Lucius, in una pessima
imitazione di una persona
imbarazzata.
–
Che la sorte ti sia favorevole,
Regan. Aspetterò con ansia tue notizie. –
Dopo
l’ennesimo ringraziamento di
commiato, Lucius riuscì finalmente a strapparla dalle
grinfie di Angina e
portarsela via.
Le
fece strada nel bosco,
seguendo un sentiero che solo lui sembrava vedere. Dietro di loro, gli
aghi secchi
e le sterpaglie si ricomponevano autonomamente, coprendo le tracce del
loro
passaggio.
Non
camminarono a lungo, e nel
frattempo Lucius le illustrò a grandi linee
com’erano andate le cosa da che
l’aveva trovata. Quando ebbe terminato, Regan
pensò di essere stata molto
fortunata. La sarebbe solo piaciuto che qualcosa di quel che le era
stato
riferito avesse per lei qualche senso.
Il
profumo di ghiaccio che
emanava la neve sugli alberi si mescolava a quello del muschio e delle
conifere, dando vita a un’unica fragranza fresca che si
respirava volentieri. La
debolezza era quasi del tutto svanita e aveva lasciato posto a un
vigore che
andava rafforzandosi.
Lucius
non mancò di preoccuparsi
che lei stesse bene e non faticasse a seguirlo, ma Regan gli
assicurò che era
inutile: si muoveva senza difficoltà, con la disinvoltura di
un’abitudine che
non esisteva.
–
Ci siamo. –
Regan
si sottrasse con sforzo non
indifferente all’ascolto del canto del vento nel cielo terso
sopra la sua
testa. Lucius si era fermato di fronte a un gigantesco tronco cavo
privo di
chioma e la stava aspettando.
Regan
riconobbe all’istante i
colori spenti e languidi del legno: la Madre aveva già
richiamato a sé
l’energia vitale di quella pianta, lasciando le sue spoglie
mortali a
consumarsi attraverso i secoli.
–
È morto – osservò, costernata.
–
Da almeno una cinquantina
d’anni – confermò Lucius, nello stesso
istante in cui Rok volava via dalla sua
spalla per andare a posarsi in due battiti d’ali su uno dei
rami sopra le loro
teste, e lì rimase, vegliandoli dall’alto.
– Non si potrebbe usare una creatura
viva come Portale. –
La
fronte di Regan si corrugò.
–
Portale? –
–
Non sai cos’è un Portale? –
Lei
scosse la testa, non senza
una buona dose di vergogna.
–
Oh, i Portali sono
un’invenzione estremamente affascinante. Difficili da creare,
ma indubbiamente
di grande utilità. Soprattutto per chi ha bisogno di andare
molto lontano in
tempi molto brevi senza fare fatica. –
La
cavità triangolare dell’albero
era simile a uno squarcio, una ferita prepotente inflitta con una certa
precisione. La furia di un temporale, sicuramente.
–
È un po’ strettino, ma sarà
questione di un attimo. –
Lucius,
un piede già all’interno
della fessura, le stava porgendo una mano. Regan intuì che
fosse un invito ad
afferrarla.
–
Devi essere fisicamente in
contatto con me per poter passare – le rivelò.
– Non avere paura, cerbiattina, ti
posso assicurare che è assolutamente indolore e privo di
rischi. –
Regan
sospirò. Non erano tanto i
potenziali rischi o la paura a bloccarla, quanto piuttosto la
prospettiva di
concedere la propria mano alla stretta che Lucius le offriva.
Era
bello, anche se il suo viso
era appesantito da occhiaie dense di stanchezza e le sue dita erano
ruvide e
callose, soprattutto quelle della mano sinistra. Doveva essere uno
spadaccino
solerte, ed evidentemente mancino.
–
Non abbiamo tutta la giornata,
sai? –
Regan
inorridì nel sentirsi
arrossire. Rimpianse di essersi fatta legare i capelli per non potersi
rifugiare dietro la loro cortina. Raggiunse Lucius in fretta e gli
prese la
mano con decisione forse eccessiva.
Lui
rise e ancor prima che le
dita di lei si fossero completamente adagiate tra le sue, la
afferrò saldamente
e la attirò fulmineamente a sé.
L’ultima cosa che Regan assimilò fu la
solidità
del petto di Lucius sotto ai suoi palmi e il suo respiro caldo sul
viso, poi
tutto fu bruscamente inghiottito da un vortice buio.
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A/N: ecco il
secondo capitolo! Ringrazio di cuore Maharet e Hellister per aver
recensito il prologo ed essere state così gentili con i
complimenti, e anche per aver messo la storia tra i preferiti (spero di
non deludere la fiducia ^^). :) Grazie anche a GirlWithTheGun, Hillary
(ma tu sei quella che lascia quelle recensioni meravigliose a
_Princess_, vero? *-*) e VesiSchwartz
che hanno inserito le storie tra le seguite e spero che "seguendo"
troveranno un valido motivo per commentare. ;)
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