E così, questa, è la nostra storia... di Tsukuyomi (/viewuser.php?uid=68762)
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19.9
«Il Gran Sacerdote desidera parlarvi» gridò un
soldato fuori dalla porta di casa di Miach e João, bussò
due volte e attese.
Miach si era alzato dal letto rotolando da un lato e si era trascinato
fino all’uscio, camminando senza sollevare i piedi da terra e con
gli occhi semichiusi; domandandosi se avesse sentito bene. Un altro
colpo alla porta mise a tacere le sue domande. Aprì di scatto,
quasi a voler impedire al soldato di assestare un altro colpo sul
legno.
«Spero che sia dannatamente importante.»
soffiò tra i denti, passandosi la mano tra i ricci arruffati.
Il soldato lo guardò allibito e si mise sull’attenti.
«Mi spiace, cavaliere. Arles in persona mi manda a chiamarvi. Il
Gran Sacerdote vuole vedervi appena possibile, dovete raggiungerlo al
tredicesimo tempio.» si spiegò.
Miach mosse la mano a mezz’aria, facendogli cenno di tagliare
corto. «D’accordo, d’accordo. Rilassati» gli
ordinò. Si stropicciò un occhio. «Sai a che
proposito?»
«No, signore. Eseguo solo gli ordini, non chiedo il motivo-»
«Bravo.» disse Miach mentre gli chiudeva la porta in
faccia. Pensò di ributtarsi a letto fino al sorgere del sole, ma
impattò contro João che si era alzato.
«Chi era?» bofonchiò.
«Un soldato. Il Gran Sacerdote vuole vederci. Il prima possibile. Andiamo a dormire.»
«Veniamo convocati e vuoi tornare a dormire?»
«Il sole non è ancora sorto. È buio pesto là
fuori. Non c’è pericolo o ci avrebbero svegliato in altro
modo. Ho sonno, io.»
Il portoghese roteò gli occhi. «E sia, ti sveglio appena fa giorno.»
«Grazie.» biascicò l’altro mentre spariva oltre la soglia.
João si sedette su una sedia in cucina. Si domandò per
quale motivo il Gran Sacerdote li avesse convocati. Dalla reazione di
Miach, non sembrava essere per una questione dalla quale dipendeva la
vita o la morte della razza umana, ma allo stesso modo non
approvò il comportamento dell’amico. Non era da lui
rimandare il dovere, non quando gli ordini venivano direttamente dal
tredicesimo tempio. Poggiò il gomito destro sul tavolo e la
testa sul pugno. Che Miach sapesse qualcosa che non aveva ritenuto
opportuno comunicargli? In passato, aveva saputo della lite tra Kanon e
Ankel da Leurak. Magari il motivo della convocazione era legato ai due
gemelli. Che uno dei due si fosse fatto male? Forse qualcun altro dei
ragazzi aveva combinato qualcosa. Impossibile,
pensò. Se fossero stati necessari dei provvedimenti
disciplinari, lo avrebbe saputo prima. Si domandò se qualcuno
avesse avuto problemi. Scartò anche quell’ipotesi. Se Saga
o Kanon avessero avuto qualunque genere di problema, lui lo avrebbe
saputo di sicuro prima del Gran Sacerdote, che quindi non avrebbe avuto
motivo di convocarlo. E Miach? Cosa c’entrava Miach? Forse erano
stati loro due a fare qualcosa che non avrebbero dovuto e
ripassò mentalmente tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni,
cercando di focalizzare anche il più piccolo dettaglio. Non gli
sovvenne niente. Evidentemente, la comunicazione di Sion non aveva
niente a che vedere con il loro comportamento o quello dei ragazzi.
Si massaggiò la spalla destra; gli faceva male, forse ci aveva
dormito sopra troppo a lungo. Mosse il braccio e descrisse diversi
cerchi in aria, sempre più ampi. Il dolore aumentò, ma
dopo pochi minuti scomparve.
Sul tavolo erano poggiati dei fogli e una penna. Miach aveva disegnato
un animale: un orso a prima vista, ma scrutandolo con maggior
attenzione, si rese conto che era un gatto; sorrise. Aveva visto fare
dei disegni molto più belli a Milo, e Milo li faceva sulla terra
con i bastoncini. Accanto ai fogli, era poggiata una brocca di vino,
riempita a metà, e due bicchieri di vetro.
Riempi un bicchiere e sorseggiò il liquido rosso lentamente, per
lavare via il sapore del sonno. Deglutì l’ultimo sorso e
decise che non aveva di che preoccuparsi: Sion li aveva convocati per
una buona ragione, magari non grave come credeva inizialmente, sarebbe
bastato recarsi all’ultimo tempio per sapere di cosa si trattava;
tuttavia la situazione gli sembrava surreale.
Rimase immerso nei suoi pensieri, finché non udì il canto
del gallo. Volse lo sguardo verso la finestra, ma era ancora buio.
Spostò lo sguardo sulla brocca e meditò se bere ancora un
po’ di vino, ma si rese conto che sarebbe stata una pessima idea.
Alzò lo sguardo verso i pensili sopra il piano cottura, forse
– pensò – era più saggio aspettare
l’alba e poi fare colazione come sempre.
«Ehilà, Sansone!» trillò Leurak, poggiato sul davanzale. «Credevo dormiste ancora.»
«Ci hanno convocato. E Miach dorme.» sorrise al soldato.
Sollevò il bicchiere, mostrandolo a Leurak, e alzò le
sopracciglia in un tacito invito.
«No, grazie. Non sarei padrone di me dopo un bicchiere di vino.»
«Tu non sei mai padrone di te, Leurak.» poggiò il bicchiere sul disegno di Miach.
«Sei simpatico, bestione.» si grattò il mento e sbadigliò.
«Piuttosto, come mai in piedi a quest’ora?» gli domandò il portoghese.
«Ho una sensazione orrenda. Ho sognato che mi venivano strappate
le braccia e non l’ho presa bene. Ma senza braccia non potevo
fare niente. Quindi ho pensato di andare a fare una corsetta, ma ho
paura di perderle davvero le braccia, adesso» disse,
massaggiandosi i bicipiti intorpiditi dalla fredda aria mattutina.
«Mi sembri preoccupato.» concluse Leurak.
«È un’impressione, ma perchè non entri? Non riesco a vederti appollaiato lì.»
«E poi posso svegliare Miach?»
«Se ci tieni.»
Leurak sparì dal quadro della finestra per ricomparire qualche
istante dopo sulla soglia. Accostò la porta alle spalle e si
sedette davanti al portoghese. «Perchè il Gran Sacerdote
vuole vedervi? Bel disegno, l’ha fatto Milo?»
«Miach.» rispose João.
«Allora fa schifo.»
«Non lo so.»
«Come non lo sai, si vede che fa schifo. È orrendo! E poi
che sarebbe? Un triceratopo?» incalzò Leurak, spostando il
bicchiere dal foglio.
«No, non so perché il Gran Sacerdote ci ha convocato. E sì, è davvero brutto!»
Leurak si passò una mano sul mento e allontanò il foglio dal viso. «Pitture rupestri?» domandò.
João sorrise e tornò al discorso precedente, avvertendo
Leurak che al sorgere del sole avrebbe svegliato Miach e si sarebbero
recati al cospetto del Patriarca.
«È giorno.» affermò Leurak, muovendo la testa
su e giù. Vedeva la finestra alle spalle di João.
«Il cielo si sta schiarendo. Ora, posso andare a svegliare Miach?»
João diede il suo benestare e Leurak svanì oltre la
soglia, portando con sé uno dei due bicchieri, udì il
rumore del rubinetto del bagno e poi Miach imprecare, Leurak ridere di
gusto e infine i passi dei due che probabilmente si rincorrevano.
Leurak entrò in cucina di corsa, con Miach alle calcagna, e
cercò riparo accucciandosi alle sue spalle.
«Aiuto, mi vuole uccidere! João proteggimi!»
« João, spostati! Fammelo ammazzare!» ringhiò Miach, con i capelli bagnati.
«Basta, bambini! Tu, vestiti e andiamo dal Gran Sacerdote, e
tu» girò la testa per guardarsi alle spalle.
«Non dovevi andare a fare una corsetta?»
«E le mie braccia?»
«Resteranno attaccate al corpo, fidati!»
«Se non sono gradito me ne vado. Non mi vedrete mai
più.» girò la maniglia. «A più
tardi!» e corse via lasciando la porta spalancata.
I due cavalieri d’argento, quando furono pronti, si recarono al
cospetto del Patriarca. C’erano poche guardie all’ingresso
del tempio e solo in due presidiavano il portone della sala del trono.
Si inginocchiarono davanti a Sion, tenendo l’elmo sotto il braccio sinistro. «Vostra eccellenza.» dissero.
Le nutrici svegliarono i ragazzi passando per i corridoi,
suonando un gong. Nell’ultimo periodo, il Santuario aveva
iniziato a somigliare sempre di più a una caserma: gli orari si
erano fatti decisamente inflessibili, la disobbedienza veniva pagata a
caro prezzo e anche le nutrici si erano indurite.
Nessuno dei ragazzi ricordava con esattezza quando quel gong avesse
fatto la sua comparsa, ma era profondamente detestato. Shaka
corrucciò la fronte e poi aprì appena appena un occhio.
Come ogni mattina, la sua meditazione veniva interrotta senza ritegno.
Ramón si tirò a sedere con un unico e fluido movimento, e
si mise in piedi con gli occhi ancora chiusi. Mu scivolò
giù dal letto con tranquillità e leggerezza. Milo si
lamentava e Camus sbadigliava. Aiolia dava man forte a Milo.
La più anziana delle nutrici urlò stanza per stanza che
tutti i ragazzi si facessero trovare nell’arena dei tornei alle
dieci del mattino, dopo aver svolto la prima parte di addestramento.
«Glielo faccio mangiare quell’affare.»
borbottò Angelo tirandosi su a sedere. Nelle orecchie aveva
ancora la voce stridula della donna che si allontanava elencando le
punizioni per chi sarebbe mancato al rendez-vous. Si stropicciò
gli occhi e poi si stiracchiò. Shura e Tyko erano già in
piedi, davanti a lui e si vestivano. Poteva giurare che Tyko avesse
ancora gli occhi chiusi. Saga e Kanon scrutavano attentamente i calzari
buttati ai piedi del letto, gli occhi stretti, cercando di ricordare
quali fossero quelli di uno e quali quelli dell’altro. Shura e si
avviò verso la porta e in quell’istante entrò
Aiolos. Si scambiarono un rapido sorriso e uscirono dallo stanzone,
seguiti da Tyko e dai due gemelli, che avevano deciso di infilarsi le
calzature strada facendo.
«Aspettatemi!» gridò l’italiano.
Li raggiunse di corsa con la maglia infilata a metà, e tutti
insieme si recarono come di consueto nell’arena dove Miach li
allenava.
Quando arrivarono, notarono immediatamente la mancanza dei maestri.
«Dov’è Miach?» domandò Tyko,
guardandosi intorno. C’erano pochi soldati quella mattina, alcuni
era certo di non averli mai visti prima. Ispezionò ancora il
perimetro dell’arena; scorgeva i compagni di addestramento
arrivare, alcuni a gruppi e altri da soli, qualche altro soldato, una
nutrice che sembrava intenta a contare le persone dentro l’arena
e nessun cavaliere. I più alti in grado in quel momento erano
dei semplici soldati.
«Quando siamo noi ad arrivare in ritardo ci fa fare cento
flessioni e mille chilometri di corsa in più. Oggi toccano a
lui.» borbottò Angelo, per poi sedersi su un gradone e
incrociare le braccia al petto.
«Iniziamo lo stesso.» disse Shura. Si levò la maglia
a maniche lunghe, esponendo la pelle delle braccia
all’umidità mattutina. Gettò la maglia sul gradone,
saltellò sul posto una decina di volte per combattere il freddo
e partì di corsa.
Angelo, Tyko, Saga e Kanon e Aiolos lo seguirono subito, assieme ad
altri praticanti che preferivano faticare piuttosto che tremare. Per la
prima volta da quando si trovavano lì, i bambini più
piccoli vennero condotti all’arena da Arles in persona, che
elargì a tutti un’occhiata e un veloce saluto, prima di
ordinare ai piccoli di seguire la corsa. Fece lo stesso con chi si era
mostrato recalcitrante a iniziare l’allenamento, minacciando
punizioni severe, poi si allontanò lasciando tutto in mano ai
soldati che vigilavano sugli allenamenti.
Trascorse mezz’ora prima che Miach facesse il suo ingresso
nell’arena; il volto scuro e segnato da profonde rughe
d’espressione ben scavate sulla fronte e attorno alla bocca.
Sembrava furioso. Si portò al centro dello spiazzo di terra,
dove guardò i ragazzi correre, capeggiati da Aiolos e Saga,
finché non sopraggiunse anche João. Parlarono tra loro e
quando ritennero che la corsa fosse durata abbastanza, Miach
chiamò giù i ragazzi.
Gli fece poggiare i piedi sui gradoni e le mani sulla terra.
«Cento flessioni.» ordinò. Si sfilò
l’elmo e lo poggiò sul fianco. Con gli occhi seguiva il
movimento dei ragazzi, su e giù sulle braccia, e gridava un
numero progressivo a ogni rialzata. João si
allontanò dopo avergli dato una pacca sulla spalla e Miach
alzò gli occhi al cielo a guardare il sole; si era sollevato e
calcolò approssimativamente le nove passate, forse le nove e
mezza. Fece fermare gli i ragazzi e lasciò loro qualche minuto
per riprendersi, prima di portarli nell’arena dei tornei.
Li passò in rassegna uno per uno; non era l’unico a essere
strano quella mattina. I ragazzi sembravano particolarmente affaticati
quella mattina, Tyko aveva le guance rosse che risaltavano sulla pelle
bianca, il sudore gli imperlava il viso. Gli sembrò sofferente,
troppo sofferente rispetto al solito, e come lui gli altri.
«Stai bene, Tyko?» gli domandò, poggiandogli una mano sulla spalla.
Il bambino annuì e prese fiato. «Sono solo un po’
stanco.» si giustificò, passando il dorso della mano sulla
fronte e spostando i capelli lunghi dagli occhi.
Passò in rassegna anche gli altri. Erano tutti affaticati; chi più chi meno.
«Miach!» gridò João all’ingresso
dell’arena, richiamando la sua attenzione. Agitava la mano.
«È ora.» bofonchiò tra sé e sé, e ricambiò il gesto al portoghese.
Mise in riga i ragazzi e li condusse all’arena.
Era colma. Non l’aveva mai vista così gremita, dovette
sgomitare per farsi strada e come lui i giovani che lo seguivano.
Spintonò diversi soldati, infine riuscì ad aprire un
varco perché i ragazzi potessero passargli avanti e prendere il
loro posto sotto al trono.
«Che ci facciamo qui?» domandò Aiolia al fratello,
tirandogli la maglia. «Che succede? Non vedo niente!»
Si poggiò al copricoscia di Miach nel tentativo di mettersi in
punta di piedi, ma continuava a non vedere. L’irlandese lo
sollevò. Il bambino scalciò e diede un colpo di reni,
finché non vide il maestro. Si tranquillizzò e
lasciò che Miach lo mettesse sulle spalle di Aiolos.
Aiolia faceva domande, ma non lo ascoltava, intento a osservare la
folla di praticanti. Sperava di vedere Milo, Camus, Shaka e Mu.
Osservò a lungo le teste che aveva davanti, finché non
vide una testa ricciola e scura farsi sollevare da Leurak, che
notò solo in quel momento, seguito da Camus. Akylina
sollevò Mu, Shaka levitò a mezz’aria.
Il brusio dell’arena sembrava uno sciamare d’api. Era
impossibile cogliere più di una parola. Iniziava a dargli
fastidio e sperò che il Gran Sacerdote arrivasse in fretta e che
mettesse fine a quel rumore.
«Ce la facciamo a iniziare?» borbottò.
«Sei impaziente oggi.» affermò un soldato accanto a
lui. Lo riconobbe in fretta, aveva fatto parte della combriccola di
Dioskoros prima dell’esilio.
«Ma stai zitto!» gli disse, senza dargli il privilegio di guardarlo.
«E sei anche nervosetto.» disse l’uomo, prima di allontanarsi.
Miach non diede peso all’insubordinazione. Presto avrebbe avuto
il pretesto per allenare meglio quel soldato, sicuramente carente nel
combattimento corpo a corpo. E ne avrebbe migliorato anche la
resistenza in corsa. Si sarebbe vendicato un altro giorno.
Il Gran Sacerdote fece il suo ingresso nell’arena, seguito da
Arles. Si accomodò sul trono e tese la mano al suo secondo che
gli passò un tomo scuro. Lo aprì e diede una rapida
occhiata alle ultime pagine. Alzò il braccio destro e la folla
ammutolì. Riconsegnò il libro ad Arles, che prese posto
accanto al trono, e si alzò. Mosse qualche passo avanti.
«È la prima volta che devo tenere un discorso del
genere.» ammise. «Una volta ne ho ricevuto uno, ma sono
passati molti anni da allora e non sono sicuro di ricordarlo.»
I ragazzi ridacchiarono.
«Non è importante come vi esponga ciò che ho da
dire,» continuò, riportando il silenzio tra la folla.
«Non tanto quanto quello che vi dirò. I tempi sono maturi
e tutti voi siete pronti per migliorarvi ancora.»
«Ehi, che significa?» Angelo si girò verso Shura.
«Non lo so.» rispose lo spagnolo, infastidito
dall’interruzione e dal chiacchiericcio del compagno che lo
distraeva, impedendogli di seguire il resto del discorso.
«Come non lo sai? Lo stai ascoltando?» insistette.
«Chiudi il becco!» lo rimproverò Shura, ottenendo
uno spintone in risposta. Lo spagnolo barcollò e riprese
rapidamente la posizione, non degnò l’amico di una
risposta e riprese ad ascoltare le parole del Gran Sacerdote.
«Oggi sarà un giorno importante! Conoscerete i luoghi
delle vostre destinazioni, luoghi dove completerete
l’addestramento per essere ammessi al torneo.»
Gli astanti iniziarono a parlottare tra di loro. I ragazzi non si
aspettavano la notizia così all’improvviso. Avevano
creduto di avere ancora qualche mese a disposizione prima di partire.
Erano solo a marzo.
«In giornata, conoscerete le vostre destinazioni. Saranno i
cavalieri che vi hanno seguito fino a qui a comunicarvele. Avrete il
resto della giornata libera per prepararvi. Spero di rivedervi
tutti.» concluse.
Volse le spalle alla folla e si allontanò, seguito da Arles.
Tutti i ragazzi si diressero verso i loro maestri, ben presto João e Galgo si ritrovarono circondati.
«Sapete già dove ci manderanno?» chiese Ankel.
«Sì, ma non ho intenzione di dirvelo qui. Siate
pazienti.» Miach si passò una mano sul viso, frustrato,
con la sensazione di emettere una condanna a morte.
«Pazienti!?» disse Angelo con tono polemico.
«Non è il momento.» Miach gli rivolse
un’occhiata gelida. «Allena la pazienza. È
un’arte da cavalieri.» e si allontanò.
João rimase lì impalato, con la bocca semiaperta Sospirò, scosse la testa. Che succede, Miach?
«Che accidenti ha?» Angelo si voltò verso di lui.
«Ha dormito poco, non prendertela.» João
cercò di giustificare Galgo, ma era sicuro che i ragazzi non si
sarebbero bevuti nessuna delle scuse che avrebbe accampato. Si
girò a cercare Leurak e lo chiamò con un cenno della
testa, assieme si allontanarono dall’arena, che andava via via
svuotandosi.
Al suo interno rimasero solo in undici. Seduti sui gradoni, in
silenzio, aspettando che i maestri tornassero per comunicare loro le
destinazioni assegnate.
«Non voglio andarmene.» disse Tyko. Era seduto con le gambe
piegate e si abbracciava le ginocchia. Il mento poggiato
nell’incavo tra esse.
«Non dirlo a me.» gli rispose Angelo, seduto accanto a lui,
con una gamba piegata sotto il corpo e l’altra in avanti.
«Io sono nato qui.» si aggiunse Milo, seduto
all’indiana tra Camus e Aiolia, nel gradone davanti ad Aiolos
che, intenerito, gli accarezzò la testa. «Ci tornerai, e
come te torneremo tutti.»
«Ma non voglio andarmene lo stesso. È casa mia qui.»
«È casa di tutti noi, ormai. E se Atena vorrà, lo sarà per sempre.»
Si alzò un vento leggero, che portò via le chiacchiere.
Ramón sbadigliò e sollevò lo sguardo a guardare le
nuvole spostarsi ad alta quota. C’erano poche nuvole, solo pochi
sbuffi di vapore che si spostavano velocemente. Il vento doveva essere
forte, lassù.
«Sono stanco di aspettare» sbottò Kanon, dopo un
po’. «Non vorranno lasciarci qui tutto il giorno?»
«Forse sì,» gli rispose il fratello. «Magari
è parte dell’addestramento. L’hai sentito prima
Miach, no?»
«Stare seduti a guardarci in faccia lo chiami addestramento!?»
«Pecchi di impazienza.» s’intromise Shaka.
«Ogni cosa a suo tempo.» concluse Mu.
Attesero ancora. Passò l’ora di pranzo e non si mossero.
Ramón si massaggiò lo stomaco e volse la testa indietro,
con gli occhi chiusi. Il sole era a picco su di lui, non era molto
caldo, ma lo rincuorò l’arrivo della bella stagione e
delle temperature alle quali era abituato. Il vento si era placato. La
Grecia era davvero fredda rispetto al Brasile. Si lasciò cullare
dal tiepido sole, mentre qualcuno dei compagni ancora si lamentava.
Nel primo pomeriggio, Akylina si era messa a cercali. Non li aveva
visti alla mensa e si era preoccupata, ma non erano stati gli unici a
mancare.
«Eccovi! Vi ho cercato dappertutto.»
«Dappertutto meno che qui. Dove siamo da questa mattina.»
puntualizzò Angelo con tono astioso, voltando poi la faccia
verso il gradone e coricandosi.
Sospirò. «Avete già avuto le vostre destinazioni?»
«No.» fu Aiolos a parlare. «Miach è andato via
subito, e João l’ha seguito poco dopo. Li stiamo
aspettando.»
«Che si siano dimenticati di noi?» domandò Camus, rimasto in silenzio fino a quel momento.
«Non si sono dimenticati. Dovete solo dar loro un po’ di
tempo. Non è facile per loro lasciarvi andare.»
passò una mano tra i capelli. «Hanno, anzi, abbiamo fatto
un grosso errore. Ci siamo affezionati troppo a voi tutti. Siete i loro
primi, veri discepoli. Dategli un po’ di tempo per
accettarlo.»
Sentì che la voce iniziava a tremarle. Prima di mettersi a piangere davanti a loro, si congedò.
Andò a cercare Miach, sicura che lo avrebbe trovato a casa. Bussò piano piano.
Non ottenne risposta e aprì la porta il tanto giusto per dare
una sbirciata. Scorse Miach seduto attorno al tavolo della cucina.
Entrò.
João gli sedeva davanti, Leurak era in piedi a braccia conserte e li osservava.
«Disturbo?»
«Non parlano.» le rispose Leurak, mentre le andava incontro.
Decisero di lasciarli soli e si recarono all’arena, dove i ragazzi aspettavano ancora.
Leurak non riuscì a tollerarlo ancora, non dopo aver passato
delle ore con Miach e João nelle stesse identiche condizioni.
Gli faceva male la gola; aveva cercato di strappar loro una parola in
tutti i modi, senza riuscirci. Quel silenzio era diventato pesante da
sopportare ed era stato felice dell’arrivo di Akylina. Ma dopo
qualche minuto in cui tutto gli sembrò estremamente bello, solo
grazie alla presenza della ragazza, aveva dovuto ricredersi nel
rivedere i ragazzi. Undici bambini che si comportavano nello stesso
modo degli adulti. Si sedette tra loro, deciso a dare una smossa a
tutti, prima ai ragazzi e poi agli adulti.
«È il gioco più noioso che abbia mai fatto.»
disse. «Però siete bravi. Ore, ore e ore senza dire
niente.»
«Non è un gioco.» gli disse Tyko. «Stiamo aspettando.»
«E non potete aspettare in un altro modo? Tutti gli essere umani
con un po’ cervello ingannano il tempo, soprattutto quando non
sanno quanto dovranno aspettare. Qualcuno legge un libro, qualcuno
gioca, alcuni guardano gli altri, contano le macchine. Fanno tutti
qualcosa, voi, invece, fate il gioco del sasso. Vince chi resta zitto e
immobile più a lungo.»
Aiolos ridacchiò. «Hai qualcosa in mente?»
«Io ho sempre qualcosa in mente. Adesso tu ti picchierai con
lui.» e indicò Shura. «Saga, tu insulterai Shura.
Kanon, tu ti schiererai dalla parte di Aiolos. Fate in modo che sembri
vero, e io correrò a chiamare Galgo e João.»
«Vuoi farci punire, insomma.» bofonchiò Camus.
«No, voglio che attiriate le attenzioni dei vostri maestri.»
«Che ci puniranno perché ce le diamo di brutto.» puntualizzò Angelo.
«Dovete partire e vi preoccupate di una punizione? Cosa volete
che vi facciano? Al massimo vi mettono in consegna per due giorni,
dannazione, svegliatevi!»
«Leurak, adesso basta.» intervenne Akylina. «Ognuno
di noi soffre in modo diverso. Abbiamo diversi tempi di reazione.
È la prima volta che si trovano in una situazione del genere,
stanno pensando a come comportarsi perché le cose vadano al
meglio. Non stanno giocando.»
«No, cara! Non stanno pensando: stanno perdendo tempo! Stanno
ritardando l’inevitabile perchè questo gli fa male al
cuoricino. E lo capisco io che sono l’ultimo degli scemi! Lo
sapevamo che sarebbero dovuti andare via. Lo sapevamo
dall’inizio. Sono arrivati qui apposta per andarsene. E forse
torneranno tutti in pochi anni. Forse vestiranno le armature
d’oro, forse ci ammazzeranno alla prima occasione utile. Non
possiamo prevedere il futuro, ma sapevamo con assoluta certezza che
sarebbero andati via.» si alzò in piedi, fece due passi
avanti e fronteggiò Akylina. «Lo sapevano! Cosa pensano,
che ritardare ancora la consegna delle destinazioni li faccia rimanere
più a lungo? È come meravigliarsi di morire prima o poi!
Lo sapevamo tutti!»
Akylina gli diede uno schiaffo. «Smettila!»
Leurak sgranò gli occhi e si portò una mano alla guancia. «Sei impazzita?»
«Credi di sapere tutto? Credi di poter dare un motivo al loro comportamento?» Akylina alzò la voce.
«Stai sragionando.» si massaggiò la guancia lesa.
«Io so solamente che comportarsi così, da completi idioti,
non aiuterà né Galgo e João a sentirsi meglio,
né i ragazzi a partire a cuor leggero. Pensi forse che si stiano
divertendo?» si voltò verso di loro e li indicò.
«Li vedi? Ti sembrano felici e spensierati come quando sono
arrivati? No! Non lo sono, e sai perché? Perché neanche
loro vorrebbero andarsene. Non hanno scelto di venire qua e neanche di
partire. Eppure lo faranno.»
«Leurak»Akylina alzò le mani in segno di resa. «Non sei tu. Non riesco a capirti.»
«Perché non c’è niente da capire! Ecco
perchè non riesci. Devi solo accettare la cosa, come devono fare
loro» indicò un’altra volta i ragazzi. «E come
devono fare quei due imbecilli!»
Akylina gli diede le spalle.
«Guardami. Non è divertente parlare con la tua nuca», ma lei non si voltò.
Leurak l’afferrò per una spalla e la costrinse a girarsi. «Accidenti, guardami!» urlò.
«Smettila di urlare!» disse, gridando a sua volta. Lo
obbligò a lasciare la presa con un colpo secco
all’avambraccio. Si voltò di scatto e si levò la
maschera. Una lacrima le attraversò la guancia.
«Pensi che dicendo che è inevitabile, allora, tutti
comprendano e ricomincino a comportarsi normalmente?» Le tremava
la voce.
Leurak si girò verso il gruppo, sperando di trovare qualcuno di
loro che gli desse man forte. Nessuno dei ragazzi li guardava.
Imbarazzati, ognuno fissava un punto a caso dell’arena, il cielo,
la sottile riga azzurra del mare verso la costa, il punto che sapevano
essere la statua della dea. Milo trovava interessante strapparsi le
pellicine attorno all’unghia del pollice, aiutandosi anche con i
denti. Quando si era accorto che nessuno parlava più, lentamente
aveva provato a sollevare lo sguardo e sentendosi osservato era tornato
alla sua occupazione di eradicazione della pellicina.
Leurak sospirò. «Scusate. Non è da noi.»
I ragazzi sembrarono tranquillizzarsi. Leurak pensò a quanto era
strano che affrontassero con calma e risoluzione l’essere orfani
e guerrieri, mentre un litigio tra colleghi li aveva messi
terribilmente in soggezione.
Tyko tossì, qualcosa gli era andato di traverso. Leurak mosse un
passo, ma Shura fu più veloce ad allungare la mano e dare
qualche pacca sulla schiena all’amico, che ringraziò e
guardò male Angelo. Era il più vicino a lui e non aveva
mosso un dito, ma Angelo fece finta di niente e tirò un sassetto
in aria, con poco interesse.
«Guardate!» disse Aiolia indicando l’entrata dell’arena dei tornei.
Galgo e João, fianco a fianco, si avvicinavano. Procedevano a
testa bassa. Miach stringeva in mano un rotolo di carta, probabilmente
contenente le destinazioni di tutti i ragazzi.
«Scusateci per prima.» disse João. «Non ce lo
aspettavamo, non così presto e abbiamo agito da pessimi
cavalieri.»
«E pessimi adulti.» lo sgridò Leurak, che venne ignorato.
Miach srotolò la pergamena, la rigirò tra le mani due
volte, la richiuse e la riaprì. «Qui,» disse,
sventolandola. «Ci sono i vostri nomi. Accanto a ogni nome
c’è una città, una zona, un villaggio,
un’isola, un continente... insomma, un’indicazione su
quello che sarà il luogo in cui trascorrerete almeno i prossimi
tre anni della vostra vita. Avete superato con successo la prima parte
del vostro addestramento, che consisteva semplicemente nel non morire,
e ora vi attende la seconda e ultima parte. Sarà la più
dura.»
I ragazzi si alzarono in piedi e raggiunsero i maestri sul terriccio.
Si misero in fila, con le braccia lungo il corpo. Il viso alto, la
schiena dritta e il petto in fuori.
Miach deglutì rumorosamente, passò la pergamena a
João e gli si accostò all’orecchia. «Fallo
tu, non ce la faccio.»
Il portoghese aggrottò le sopracciglia e lo guardò fisso
negli occhi. Aprì la bocca, pronto a sgridare il collega una
volta per tutte, a picchiarlo se necessario, ma non riuscì a
fare niente di quello che si era appena prefissato.
«Non posso.» ripetè Miach, guardandolo con gli occhi lucidi, sofferenti.
«Lo farai. Sei loro maestro quanto me. Dobbiamo.»
cercò di richiamarlo all’ordine, imponendosi di avere
anche con Miach il pugno di ferro, ma in quel momento iniziò a
rendersi conto di quanto era difficile. Capiva fin troppo bene i
sentimenti di Miach, non poteva biasimarlo, ma avrebbe dovuto mantenere
un comportamento consono e adeguato al suo rango di cavaliere
d’argento. Era sicuro che in tutta la storia del Santuario,
nessun cavaliere d’argento avesse palesato un cuore di burro come
il loro, che nessun cavaliere avesse mai avuto dubbi sulla
legittimità del proprio ruolo, anche se questo consisteva
nell’educare alla guerra dei ragazzi così giovani.
«Siamo pronti.» disse Aiolos. Fece un passo avanti.
«Vorrei essere il primo a sapere dove dovrò andare.»
João sollevò lo sguardo di colpo e incontrò il
sorriso del ragazzo a incoraggiarlo. Cercò lo sguardo di Miach,
che gli strappò il foglio dalle mani del compagno e lo
controllò. Deglutì. «Resterai qui.»
Aiolos annuì e riprese il suo posto nella fila.
Subito dopo fu Aiolia a fare un passo avanti. «E io?»
Miach immaginò che volesse sapere dove lo avrebbe mandato il
destino, se lo avesse separato dal fratello mostrando particolare
crudeltà. Sentì il cuore comprimersi, continuare a
battere sebbene non ci fosse spazio per farlo. Sentì le forze
mancargli e le gambe cedere. Le ginocchia sembravano potersi
sbriciolare da un istante all’altro, le sentiva così
friabili e delicate. Iniziò a domandarsi come avrebbe fatto a
comunicare ad Aiolia un luogo d’addestramento diverso da quello
del fratello, a chiedersi come avrebbe reagito nel leggere una
destinazione lontana e poi con quale tono avrebbe dato la notizia?
Avrebbe voluto che qualcuno lo uccidesse in quel momento, che lo
liberasse da quel fardello.
Ebbe l’impressione che Aiolia lo incitasse con lo sguardo. Si
mordeva l’interno del labbro inferiore e aspettava impaziente che
lui, il suo maestro, gli dicesse dove sarebbe andato.
Gli faceva male la gola, secca. Aveva paura, si era reso conto di
provare paura per la prima volta in vita sua per qualcosa di diverso
dagli aghi. Cercò di scuotersi, se era riuscito a farsi fare le
iniezioni senza dare in escandescenze e mettersi a tremare in un
angolino, forse avrebbe potuto allontanarsi dai ragazzi che aveva
imparato ad amare come figli, ai quali cercava di insegnare a vivere e
non solo a combattere. Non voleva vederli partire, non voleva stare
male per anni senza avere loro notizie e temeva il momento in cui
sarebbero tornati, se mai sarebbero riusciti a tornare.
Aiolia continuava a guardarlo e a martoriarsi il labbro; ben presto si
rese conto che tutti i ragazzi lo fissavano, forse chiedendosi che
accidenti avesse.
João gli allungò una gomitata su un fianco, che lo
riscosse il tempo necessario a sollevare la pergamena e cercare il nome
del bambino.
«Resterai con tuo fratello.» sussurrò poi,
togliendosi un macigno dal petto. Quell’oppressione che aveva
provato svanì lentamente, lasciando il cuore di nuovo libero di
pompare, nonostante l’impressione che la stretta si sarebbe
potuta ripresentare più forte.
Aiolia riprese il suo posto nella fila e sorrise al fratello.
Fu il turno di Saga e Kanon. Quando si accorsero di essere avanzati in
due, entrambi indietreggiarono, strappando un sorriso a Miach.
Avvertì nuovamente la morsa al cuore, il respiro spezzarsi, le
gambe tremare. E se avesse dovuto comunicare a loro, a due gemelli,
assieme da sempre, da prima di esistere, che si sarebbero dovuti
dividere? No, non ci sarebbe riuscito. Incrociò lo sguardo con
João che improvvisamente si era fatto pallido. Miach sapeva
della promessa, sapeva di Rasalhague e sapeva che João avrebbe
dato via le braccia se fosse servito a non dividere i due gemelli. Li
vedeva tutti i giorni e aveva già notato quanto sembravano
allontanarsi ogni giorno, Kanon era sempre più nervoso e
infastidito da tutto, la tristezza che gli si leggeva negli occhi aveva
lasciato il posto alla frustrazione. Saga, invece, era sempre
più luminoso: aiutava chi aveva bisogno di aiuto, si allenava
duramente e lottava duramente per arrivare a vestire l’armatura
che sembrava interessare sempre meno al gemello. Eppure la loro forza
era simile, erano le due facce di una medaglia, uno yin e yang;
complementari e indivisibili, ma qualcosa di intangibile minava la loro
vicinanza, qualcosa Saga e Kanon non potevano vedere e del quale
neanche immaginavano l’esistenza, qualcosa che invece veniva
colta da lui e sicuramente anche da João.
Fu Leurak a richiamarlo all’ordine con un colpo di tosse. «Stanno aspettando» aggiunse.
«Resterete qui anche voi.» e fu come se si fosse tolto dal
cuore un altro peso enorme, pari a quello dell’universo.
«Non è poi così dura, no?» lo prese in giro
Leurak. «Continuate così e alla fine nessuno di loro
andrà via.»
«Magari, non sarebbe male! Chi è il prossimo?»
I ragazzi si scambiarono un’occhiata, quasi per accertarsi di non
ripetere la scenetta di Saga e Kanon. Erano tanto preoccupati di andare
uno alla volta che nessuno si mosse.
«Chiamo io?» domandò Miach. Visibilmente più
tranquillo rispetto al suo arrivo, aveva data tre buone notizie, niente
gli faceva prospettare che le cose sarebbero potute cambiare
finché non avesse letto tutti i nomi e le destinazioni.
Fu Tyko a fare un passo avanti. La ricerca sulla pergamena durò
qualche istante. Miach ebbe un colpo al cuore; quello che temeva era
appena giunto. Raccolse tutto il suo coraggio, chiuse gli occhi e
parlò piano: «Groenlandia. Villaggio di Thule.»
Tyko non sembrava sorpreso, rivolse lo sguardo verso l’alto a
destra, forse cercava di ricordare dove si trovasse la Groenlandia e
tornò in fila.
«E io?» fu il turno di Milo.
Miach era turbato per aver dovuto dire a Tyko che sarebbe andato
lontano, e non voleva dire ad Angelo quale destinazione gli era stata
assegnata, preferiva non saperlo neanche, preferiva rimanere a
crogiolarsi nel ricordo del giorno in cui era andato a prenderlo, a
sorridere della sua petulanza. Se non si fosse sbrigato a cedere la
pergamena al collega, pensò, forse dopo Milo sarebbe stato
proprio il turno di Angelo.
«Qui vicino. Isola di Milos, Cicladi Occidentali.» rispose
rapidamente, notando a malapena la smorfia di delusione sul volto del
piccolo che probabilmente preferiva restare ancora al Santuario, dove
aveva sempre vissuto.
Consegnò il foglio a João, ora era il suo turno, e fece
un passo indietro, andando a poggiare la spalla contro quella di
Akylina che mascherava a stento la sua tristezza.
João non attese che fossero i bambini a farsi avanti, nel
tentativo di dimostrare un coraggio che non possedeva. Non per quelle
cose. Decise che avrebbe preso in mano la situazione e si sarebbe
comportato come si erano comportati gli altri maestri, e come avevano
già fatto con l’altro loro gruppo: senza esitare, senza
timore. Anche se quello che li legava ai bambini che aveva davanti
sembrava essere più profondo e importante rispetto a quello che
c’era con gli altri, avrebbe dovuto essere giusto, come si
conviene a un santo di Atena, e comportarsi con entrambi i gruppi allo
stesso modo. Anche se non sembrava, non stava emettendo una condanna a
morte, ma solo la notizia di un cambiamento.
Si era preoccupato per così tanto tempo, ma aveva sempre saputo
quello che aspettava i discepoli. Non poteva tentennare ora.
Tossì una volta.
«Mu, tu andrai nello Jamir con il Gran Sacerdote in persona,
così ha disposto. Angelo tornerai in Sicilia. Shaka, tu in
India. Camus: Siberia. Ramón: Brasile. Shura: Pirenei.»
Chiuse la pergamena e la strinse nel pugno.
«Bravissimi!» disse Leurak. Battè le mani e poi
diede una pacca sulla spalla a Miach, saltò e ne diede una anche
a João. «Non era tanto difficile, vero? Fate i complimenti
ai ragazzi, se li meritano. Si sono comportati meglio di noi adulti.
Soprattutto Ramón che, stoicamente, ha resistito e non ha detto
neanche una parola.»
Ramón ridacchiò e si grattò la nuca. «Non avevo niente da dire.» si giustificò.
«Un silenzio vale più di mille parole!» disse Leurak.
«E non ci sono più le mezze stagioni!» gli rispose Miach.
«Figuratevi che qui una volta era tutta campagna!» intervenne João.
«E la mamma dei cretini è sempre incinta.» concluse
Akylina, scatenando una risata collettiva degli adulti, mentre i
ragazzi li ignorarono.
«Diceva a me?» Leurak si portò una mano al mento.
«Prova a indovinare.» João ricambiò la pacca ricevuta poco prima.
Tyko corse verso Angelo e lo fissò dritto negli occhi, mancava poco al tramonto e la sacca era pronta.
«C’è una cosa che devo fare prima di partire.» gli disse.
Angelo lasciò cadere la casacca sul letto, incapace a piegarla,
arricciò il naso e poi ne grattò la punta con
l’indice. «Io non ti do una mano a fare niente, se è
quello a cui punti.»
Tyko allungò la bocca in un sorriso sardonico, che si
spalancò infine in un ghigno simile a quelli che Angelo era
solito fare, e che mettevano un po’ di timore.
«Non c’è bisogno che tu faccia niente.»
rispose. «Devi solo chiudere gli occhi, al resto ci penso io.
È una sorpresa!»
Angelo valutò per qualche istante le parole e decise di fidarsi. Incrociò le braccia al petto e chiuse gli occhi.
«Secondo me, hai fatto male a fidarti.» sentì la voce divertita di Shura.
Aprì gli occhi di colpo, quando sentì le nocche di Tyko
affondare nella pancia. Non era pronto a ricevere il pugno, aveva gli
addominali rilassati e l’unica cosa che sentì oltre al
dolore fu solo un prepotente senso di nausea che cercò di
concretizzarsi in un conato. Tossì convulsamente, passò
il dorso della mano sulla bocca per asciugare il rivolo di saliva. Si
sollevò in piedi e inchiodò gli occhi sulla faccia di
Tyko che sorrideva sornione.
«Brutto stronzetto!» disse, poi sorrise. «È una promessa?»
Tyko annuì. «A tra tre anni.»
Si caricò la sacca sulle spalle e si avviò verso
l’uscita, sollevando il pugno chiuso all’altezza della
testa e senza voltarsi.
Shura avvicinò indice e medio alla fronte e poi li allontanò rapidamente come saluto.
«Sei pronto anche tu?» gli domandò Angelo. Riprese
in mano la casacca di lino che non aveva la minima idea di come piegare
e la gettò appallottolata dentro la sacca, gettando subito dopo
la pettorina di cuoio e le spalline, e diversi rotoli di fasce di
cotone.
«Sì. Pronto a tornare a casa.» rispose, adagiandosi
sulla spalla un mantello scuro. Si avvicinò ad Angelo e tese la
mano aperta, che Angelo afferrò con decisione. Le strinsero
reciprocamente e poi conclusero la stretta sbattendo con la spalla
destra sulle mani unite.
«A presto, Angelo.»
L’italiano annuì. «A presto.»
Shura passò a salutare Aiolos e Aiolia prima di andare. I due
fratelli gironzolavano per il Santuario e lo guardavano svuotarsi.
Moltissimi ragazzi si susseguivano sulle viuzze lastricate verso
l’uscita del Santuario, nell’antica acropoli del Partenone,
dove piano piano si sarebbero mescolati con i turisti.
Lo spagnolo non sapeva bene come salutare Aiolos, con cui alla fine
aveva stretto un rapporto molto particolare; non avrebbe potuto
salutarlo come Angelo, l’amicizia era diversa, e optò per
un semplice arrivederci e la promessa di festeggiare al suo ritorno.
Aiolos fu lieto di accettare e gli rivolse parole
d’incoraggiamento, rendendo la sua partenza più facile.
Una nutrice piangeva, seduta sul letto di Milo. Era stata una delle
prime a venire in contatto con lui quando venne portato al Santuario.
Durante i primi mesi aveva pensato di chiedere se sarebbe stato
possibile adottarlo, ma le divenne ben chiaro che non si trattava di un
bambino normale. Era speciale come tutti lì dentro.
Milo le mise una mano sul ginocchio. «Non piangere.» le
disse imbronciato. «Se piangi non riesco ad andarmene.»
La donna si lasciò scivolare dal letto e si inginocchiò
sul pavimento. Strinse il bambino a sé. «Promettimi che
tornerai.»
«Prometto, ma basta piangere.»
Lasciò andare la presa, tirò su col naso e cercò di calmarsi. «Hai preso tutto?»
«Sì. Devo sbrigarmi a salutare Camus però, parte tra poco.»
«Vai, finisco io di prepararti il bagaglio.» tirò su
col naso e si asciugò le lacrime con il dorso della mano.
Milo prese il cuscino che gli aveva dato Camus mesi prima dal suo letto
e lo posizionò sul letto del francese. Uscì di corsa
dalla stanza e percorse i corridoi dei dormitori in lungo e in largo.
Si recò alle arene, alla mensa e alla spiaggia, poi pensò
di avvicinarsi ai Dodici Templi. Schivò soldati, nutrici e
ragazzi che si accingevano ad andarsene.
Qualche decina di metri prima della scalinata che conduceva al Tempio
dell’Ariete, incontrò Camus che tornava ai dormitori.
«Dov’eri? Ti ho cercato ovunque!» disse affannato.
«Ho consultato qualche libro.» rispose. Continuò a camminare e Milo lo seguì.
«Sei pronto per partire?»
«Sì. Tu?» chiese di rimando.
«Quasi.»
Tornarono nel dormitorio. Sul letto di Milo era pronta una sacca marron
scuro e la nutrice era andata via. Il piccolo sospirò, lieto di
non dover assistere a un’altra crisi di pianto.
«E questo?» domandò Camus, sollevando il cuscino.
«È quello che mi hai dato quando sei venuto qui.» sorrise. «Me lo ridai quando torniamo.»
Camus fissò Milo, poi accennò un sorriso. «D’accordo.»
Ramón, assieme a Mu e Shaka, guardava i preparativi degli altri
ragazzi. Chi doveva partire era in fibrillazione, eccitato per quello
che avrebbe incontrato e per le cose che avrebbe imparato. Loro tre
sarebbero dovuti partire il giorno seguente, due con il Gran Sacerdote
in persona, che aveva intenzione di aspettare che tutti fossero partiti
prima di scaricare tutte le responsabilità su Arles.
Ramón sarebbe partito nel pomeriggio, muovendo i primi passi
fuori dal Santuario assieme al gran Sacerdote, per poi dividersi appena
fuori dalle mura.
Decisero, tutti e tre assieme, di allontanarsi dalle stanze per qualche
ora, in modo che chi aveva bisogno di prepararsi potesse farlo senza
incappare nella loro, magari fastidiosa, presenza.
Si recarono a Capo Sounion, dove Saga e Kanon combattevano con i piedi
immersi nella sabbia. Si squadravano e respiravano piano, cercando di
controllare ogni singolo muscolo, il respiro e la posizione di guardia,
che doveva essere sì perfetta, ma doveva garantire loro la
possibilità di passare rapidamente da una posa di difesa a una
di attacco.
I tre si sedettero sulla sabbia e osservarono con interesse i movimenti
dei gemelli, soprattutto Ramón, che si sentiva lasciato indietro
rispetto agli altri, e pensò che forse sarebbe riuscito a rubare
con gli occhi qualche segreto dei due fratelli, sicuramente più
esperti di lui nella lotta.
Poco dopo arrivarono anche Aiolos e Aiolia, il più grande si
unì ai due gemelli, ma alla fine si sedettero tutti assieme e
parlarono dei cambiamenti che avrebbero interessato al Santuario quando
sarebbero rimasti solo i ragazzi che si dovevano allenare lì. Mu
ascoltò quello che le due coppie di fratelli si dicevano, poi
domandò se sarebbero stati Miach e João i loro maestri.
Degli undici ragazzi, solo quattro sarebbero rimasti al Santuario, e
vederli sarebbe stato difficile anche per i vecchi maestri. I ritmi di
addestramento sarebbero stati notevolmente più serrati.
João sospirò.
«Non pensarci.» gli disse Galgo. «La cazzata di
fasciarci la testa prima di rompercela l’abbiamo già fatta
per oggi. Ricordiamoceli bambini per l’ultima volta. La prossima
volta che li rivedremo tutti assieme saranno uomini.»
«Pensi che i genitori si sentano così?» domandò.
«Di merda? Sì, penso di sì. Ma i bambini normali
non saranno eroi.» ammise Galgo, addolorato. In fondo, avrebbe
preferito non conoscerli mai e per sapere che avevano una vita
meravigliosa. Poi pensò che sarebbero potuti essere comunque
degli orfani, ma cercò di non farsi rovinare la fantasticheria
da quel pensiero.
João rise. Sollevò le mani e si sfilò l’elmo. «Hai ragione, ancora.»
Attendevano nei pressi dell’uscita del Santuario. Videro i
ragazzi passare uno a uno, prima Camus, poi Tyko, Angelo e Shura
assieme.
João si era comportato da perfetto adulto e aveva incoraggiato
Tyko a tornare presto. Ripensò a quell'accidenti di macchinina,
a quanto era stata basilare per le prime interazioni con gli altri, e a
come era stata sepolta come un tesoro. Forse Tyko non se ne ricordava
neanche più, ma glielo avrebbe ricordato quando sarebbe tornato
al Santuario.
Per Miach, invece, non fu così facile. Non voleva che il suo
discepolo se ne andasse. In tutto quel tempo aveva immaginato di essere
lui il cavaliere destinato per il suo addestramento, quantomeno per
dare una giustificazione logica per essere andato a prenderlo in
Sicilia. Invece, la sua scelta era stata casuale, forse perché
il Santuario era a corto di organico a quel tempo, forse perché
era l'unico che spiccicasse qualche parola d'italiano. Non lo avrebbe
mai saputo.
«Mi raccomando, Angelo.» gli disse, scompigliandogli i capelli.
Angelo pensò di sottrarsi a quel gesto, ma non lo fece,
riuscendo forse a capire quello che passava per la testa del maestro,
che vedeva notevolmente rammollito dal giorno del suo arrivo.
«Tornerò e ti farò a pezzi.» sfoggiò un ghigno.
Il suo comportamento fece sorridere Galgo, che poté solamente
promettere al discepolo un rientro col botto. Lo vide allontanarsi,
accanto a Shura, che preferì restare in disparte e si
limitò a salutare con un gesto della testa entrambi i maestri,
ma soffermò lo sguardo su João, ricordando quando lo
aveva salvato dalle grinfie di Dioskoros.
Milo sgambettava felice, un po' intimorito per il grosso cambiamento
che lo aspettava, ma era sicuro che sarebbe tornato in fretta, forse
anche prima di Camus. Non si perse in chiacchiere con i due,
così come non aveva fatto neanche l'amico e andò via.
Il Gran Sacerdote aveva lasciato la giornata libera a tutti, di modo
che i ragazzi si preparassero alla partenza, e potessero salutarsi.
Bevve un sorso di vino rosso. Ne osservò i riflessi vermigli in
controluce verso il cielo e fece roteare il liquido nel bicchiere. Era
appena pomeriggio, eppure l’aria al Santuario era cambiata.
Sembrava che la notizia che aveva dato quella mattina a tutti gli
addestratori dei ragazzi avesse portato via qualcosa. I maestri si
erano corrucciati, chi più chi meno, e i ragazzi erano indecisi
su cosa provare.
Ai suoi tempi, la predestinazione a cavaliere non sembrava essere
così importante come in quegli anni. Quando era solo un
ragazzino, gli aspiranti cavalieri arrivavano al Santuari da soli, si
trattava di sognatori che inseguivano una leggenda, di persone che
scappavano dal loro passato o semplicemente di ragazzi soli ai quali si
desiderava regalare un posto nel mondo, ma quella generazione era stata
quasi condotta al Santuario con la forza, come se la dea avesse fatto
male i suoi calcoli, prevedendo le catastrofi e le battaglie cicliche
con qualche anno di ritardo. Soldati e cavalieri erano stati mobilitati
per portare al Santuario le future speranze dell’umanità,
perché fossero già schierati quando la dea avrebbe fatto
la sua comparsa tra gli uomini.
Sapeva già chi sarebbe diventato cavaliere, sapeva già
chi ne aveva le capacità e chi no. Si diresse nel punto
più elevato del Santuario e osservò gli aspiranti
spostarsi per le vie del Santuario, nelle arene, tra le case, piccole
macchie scure che si spostavano sul bianco.
«Ti stai pentendo di qualcosa, Gran Sacerdote?» gli domandò Arles.
«Possibile che debba averti sempre intorno?» sorrise Sion.
«È il mio compito.» rispose laconico. «C’è qualcosa che ti preoccupa?»
«No, niente di tutto ciò. Solo un po’ di…
tristezza.» prese una pausa. «Credo che sia tristezza. Ho
come l’impressione che ci sia qualcosa di sbagliato, come se il
tempo non fosse sufficiente.»
Arles ridacchiò e tolse la maschera. «È un problema
di voi vecchietti. Avete avuto tanto tempo e vi lamentate che è
stato poco, mentre quello che resta è ancora meno.»
asserì e si avvicinò.
Uno accanto all’altro, guardarono il Santuario svuotarsi, il lento via vai di ragazzi con le sacche sulle spalle.
Sion bevve un altro sorso di vino e decise di attendere il tramonto
lì e vedere tutti andar via. In qualche modo sentiva di
doverglielo, quantomeno come scusa per quello che sentiva sarebbe
accaduto. Sorrise e soppesò le parole di Arles.
«Parli come se fossi un ragazzino.» gli disse, porgendogli il bicchiere.
«In confronto a te, lo sono.» rifiutò l'offerta con un gesto.
Un corvo planò fino alla statua di Atena e si posò sull’ala della statua di Nike.
«Atena arriverà presto.» disse Sion, voltandosi a
cercare lo sguardo di Arles, ma questi non si voltò.
Fissò la rete di stradine interne al sacrario e annuì.
«E tu temi che per quel giorno non ci siano cavalieri, mi sbaglio?»
«No. Per niente.» svuotò il bicchiere e guardò il corvo. «Possiamo solo stare a vedere.»
Un fischio sibilò nell’aria fino a svanire e
l’animale spiccò il volo, diretto verso l’altura
poco distante.
Il futuro che gli raccontavano le stelle era scuro.
__________
Chiedo scusa per il leggero ritardo, cosa volete che sia un anno? Niente se paragonato all'universo.
Grazie a tutte le persone dall'animo puro e immacolato che hanno letto,
recensito, inserito tra preferiti, seguiti, da ricordare, da
dimenticare etc., mi fa piacere che abbiate avuto la forza di seguirmi
fino a qui.
Grazie di vero cuore, e spero che il capitolo sia di vostro gusto!
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